“OLTRE LA LINEA” A CURA DI SIMONETTA BISI E NICOLA R. PORRO. Dall’università alla multiversità: cosa (non) cambia e perché se ne vanno i migliori
di SIMONETTA BISI e NICOLA R. PORRO ♦
C’è ancora qualche amico che ci chiede consigli per la scelta universitaria di figli o nipoti. C’è ancora qualche giornalista che ogni tanto ci domanda un parere circa le non meglio precisate ”trasformazioni” del nostro sistema universitario. In entrambi i casi si prova un certo imbarazzo. Per un verso perché l’offerta universitaria si è dilatata e diversificata a dismisura, per l’altro perché non è più chiaro cosa significhi oggi la formula sistema universitario. Certo: ha fatto irruzione la rivoluzione digitale, nulla sarà più come prima. Didattica a distanza, smart teaching, apprendimenti telematici e altre innovazioni favorite dalle nuove opportunità offerte dall’AI, e ancora in progress, hanno modificato in profondità quell’università tradizionale che ci ha visto prima studenti, poi docenti alle prese con le avvisaglie di un mutamento incipiente.
Tuttavia, occorre una riflessione meno sbrigativa, suggerita dalla cruda severità delle cifre. Chi abbia sfogliato Il Sole 24 Ore del 19 marzo u.s. ha avuto fra le mani una miniera di informazioni che dovrebbero interrogare e preoccupare non solo gli addetti ai lavori. Fra questi ultimi, un osservatore autorevole come Sergio Fabbrini ha commentato, ancora sullo stesso giornale (26 marzo) … “ Parigi è a ferro e fuoco per la riforma delle pensioni. I pensionati continuano ad essere al centro del dibattito in Italia. Dei giovani, invece, si discute poco o nulla. Eppure, il nostro futuro dipende da loro. In particolare, da coloro che vanno all’università o che escono dall’università”.
I numeri: il calo demografico investe con forza le classi di età giovanili, le iscrizioni alle università (tutte) precipitano nonostante la sempre maggiore ampiezza dell’offerta formativa. Ancora più preoccupante è il fatto che ogni anno l’8% dei nostri laureati lascia il Paese. Fra il 2012 e il 2021 sono emigrati almeno 250mila giovani, secondo altre stime addirittura 400mila. Abbiamo perso, insomma, molte eccellenze e sicuramente tanti dei più motivati e intraprendenti. Nemmeno è possibile liquidare il problema come semplice turnover o effetto inevitabile dell’internazionalizzazione, dato che i “migranti” sono da anni il doppio degli studenti stranieri che vengono in Italia. Le conseguenze peggiori le subiscono quelle aree fragili del Paese che più necessiterebbero di competenze, professionalità e innovazione. Evapora così il nostro bene più prezioso: il giovane capitale umano, indispensabile per garantire all’Italia standard industriali, tecnologici e culturali degni di un Paese che aspiri a un ruolo rilevante in ambito UE.
Qualche tentativo di “trattenere” i nostri giovani e a immetterne altri dall’estero, in un virtuoso processo di scambio programmato fra istituzioni accademiche internazionali, è stato avviato. Secondo gli ultimi dati del QS World University Ranking, infatti, diverse nostre sedi accademiche hanno realizzato un discreto salto di qualità. Ma non basta. Siamo ancora ai palliativi e il nostro sistema universitario rimane un gigante dai piedi d’argilla, non in grado di frenare la fuga dei cervelli.
Intanto aumenta vistosamente il divario fra Atenei e Facoltà leader – del tutto competitivi a raggio europeo – e sedi “minori” o “periferiche”, che perdono iscritti e arrancano nelle classifiche di merito.
Non è solo una questione economica o di tradizione accademica, fattori che pure pesano non poco. A generare il divario sono soprattutto (i) la diversa rapidità e la determinazione con cui si sono raccolte le sfide dell’internazionalizzazione e della qualità dell’offerta formativa; (ii) il livello di collaborazione e coesione fra “ceto accademico”, autonomie locali e strutture di supporto, al fine di costruire programmi strategici e di avanguardia e reperire risorse a tutto campo; (iii) politiche di reclutamento più o meno rigorose, fondate sul merito e sottratte a nepotismi accademici e a ingerenze politiche; (iv) disponibilità a mettersi in gioco, a cambiare e a sperimentare, a rendere il sistema aperto e rapido per stare al passo con la maggior parte dei competitor internazionali. Ricorda in proposito Fabbrini che i Paesi Bassi, con un terzo della nostra popolazione, vantano un numero di università competitive – in termini di standard internazionali – superiore al nostro e a quello degli altri principali partner europei.
Si tratta chiaramente di un esempio virtuoso ma circoscritto. Ci aiuta però a comprendere quanto sia nocivo confondere valore legale del titolo di studio e validità sostanziale della formazione. Tanto gli atenei quanto le strutture didattiche e di ricerca – facoltà, dipartimenti, laboratori ecc. – sono già di fatto internamente differenziati e ovunque nel mondo la tendenza è a una costante crescita di specializzazioni e di sana competitività.
Già sessant’anni fa qualche studioso lungimirante, come Clark Kerr – all’epoca Rettore dell’Università della California, più tardi epicentro della protesta studentesca -, aveva immaginato l’avvento di una multiversity al posto della vecchia university. Il neologismo serviva a descrivere un sistema non più monolitico e centralizzato bensì capace di far interagire e, ove occorra, di ideare, sperimentare e aggiornare con rapidità strumenti e strutture funzionali orientate allo scopo (goal-oriented). Una multiversità avrebbe dovuto meglio differenziare e specializzare ambiti didattici e settori di ricerca, costruire percorsi di apprendimento condiviso senza tuttavia trascurare una missione “educativa” a raggio più ampio. Nessuna tentazione tecnocratica, insomma, ma un’esplicita rivendicazione del primato da assegnare all’internazionalizzazione della ricerca. È quello che già accade, d’altronde, nei grandi atenei pubblici o privati dove si coltiva soprattutto quella reputazione che per l’università rappresenta l’equivalente del capitale per le imprese. Queste ultime non possono svilupparsi e conquistare nuovi mercati se non dispongono di quel capitale rappresentato dalla capacità di produrre innovazione. La reputazione della ricerca internazionalizzata si riflette insomma sulla multiversity, mentre non vale il contrario. Come il capitale di impresa, anche una solida reputazione accademica può tuttavia essere dilapidata rapidamente. Ogni singolo attore del sistema deve allora condividere un’etica e una filosofia: indipendenza intellettuale e riconoscimento della qualità ne costituiscono i capisaldi.
Nelle migliori università estere i conflitti – soprattutto quelli che aiutano la crescita – non sono quasi mai fra schieramenti ideologici. Posta in palio e linee di demarcazione riguardano approcci scientifici, metodi di ricerca, risultati e disponibilità di risorse per raggiungerli. L’università, è il principio fondante, deve servire solo la conoscenza, non piegarsi a interessi e convenienze di altra natura.
In questo panorama l’Italia rappresenta purtroppo una malinconica eccezione. Dall’estero reclutiamo pochi docenti e attiriamo pochi studenti. Fatichiamo nel ricorso all’innovazione tecnica e alla didattica in lingua straniera. L’immagine è quella di un riccio che respinge l’innovazione munito degli aculei di un provincialismo anacronistico ma utile a tenere le corporazioni accademiche al riparo dai confronti internazionali. I sistemi o sottosistemi accademici si trasformano così in spazi chiusi, del tutto simili ad asfittiche arene politiche dove si compete barattando nomine, incarichi, finanziamenti. Non di rado il “potere accademico” verrà poi giocato dai vincenti proprio sul terreno della politica tradizionale a ogni livello.
Il merito lascia così inesorabilmente il posto all’appartenenza. Un professore affermato finisce spesso per anteporre agli interessi scientifici e ai doveri didattici la possibilità di decidere carriere. Qualche volta si riduce a una specie di funzionario preposto a gestire concorsi, chiamate, abilitazioni per conto di questa o quella cordata. L’esodo dei migliori è conseguenza anche di questo stato di cose, ma è l’intero Paese che ne paga le conseguenze, come impietosamente segnalano i dati. Esistono ovviamente eccezioni virtuose e non mancano sedi universitarie e organizzazioni scientifiche non (o poco) inquinate da logiche di scuderia.
Ma quanta fatica costa ancora invertire la rotta, recuperare il terreno perduto, spezzare quelle catene di cui pure tutti dichiarano di volersi liberare! Alla indifferenza della politica corrisponde anzi un progressivo declassamento del ruolo del docente, mortificandone la missione: contribuire allo sviluppo del sapere nel proprio ambito di studio. Come non sentirsi sottovalutati se si percepisce uno stipendio tra i più bassi in Europa, a parità di impegno e di responsabilità? Non è solo una mera questione economica: significa che da noi il merito non è riconosciuto, le capacità non sono valorizzate e rimane eccessivo il peso di gerarchie, corporazioni e camarille interessate a difendere lo status quo. E allora: occupiamoci giustamente di pensioni, di diritti, di sanità e di qualità della vita. Ma non dimentichiamo che c’è un giovane popolo in fuga: è la parte migliore del Paese, quella che vorrebbe e dovrebbe costruirne il futuro comune.
SIMONETTA BISI – NICOLA R. PORRO
Mi permetto di dire che l’argomento richiede una strategia generale in risposta alle recenti dichiarazioni del Governo sull’insegnamento.
Il problema da chiarire è: quale modello si desidera perseguire nella didattica. quale scopo si vuole raggiungere.
Nel rispondere a tutto questo si vedrà come la distanza dalle concezioni della destra sia siderale.
Mi riprometto di riflettere su tali argomenti.
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Grande apertura di mente e senso critico nel vostro articolo riguardo alle multiversity, che ha a latere il tema dei “migranti”. In modo così esplicito ne ho sentito parlare solo dal professor Prodi in televisione, dando all’Italia quel ruolo strategico che, per la sua posizione geopolitica,
dovrebbe avere anche per la formazione accademica e le relazioni internazionali fra nord
e sud del mondo. Tutto ciò non collima, come pone in evidenza anche Carlo, con le recenti ( e aberranti) dichiarazioni del Governo sull’insegnamento e sul ” merito’.
Grazie Simonetta e Nicola 👋👋
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