I CANTASTORIE TRADITI — COME SI DISTRUGGE IN CINQUANT’ANNI E SPICCI UNA CIVILTÀ COSTRUITA IN TREMILA ANNI.

di EZIO CALDERAI ♦

Capitolo 19: Lo stile di vita degli ateniesi e l’età Di Pericle. Il miracolo de V secolo.

   Ma dai, critico letterario, storico, dove sono finiti i nostri cantastorie? 

   Non avete torto a lamentarvi, anche se, dovete riconoscerlo, me la sono cavata mica male. La mia colpa è di essermi spiegato male, come dicono i politici più avveduti dopo aver detto una fesseria; se sono più stupidi dicono che sono gli altri a non aver capito. Ci provo: il primato dei Greci e soprattutto di Atene sul mondo antico d’occidente e d’oriente è l’apoteosi dei cantastorie

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   Quando è ancora assordante il rumore del fasciame delle triremi che si scontrano, delle spade che s’incrociano, delle corazze che respingono le lance o ne vengono perforate, delle urla di combattenti e rematori, di gioia per lo scampato pericolo o di strazio per la morte, che sta per sopraggiunge- re; quando l’aria è ancora ammorbata dall’odore dolciastro e orribile del sangue, gli ateniesi rivivono a teatro queste sensazioni e i loro autori non celebrano il trionfo, ma l’umanità, la compassione, la pena, il dolore, che hanno avvolto il ricordo di quei momenti. 

   Nel 476 a.C., quattro anni dopo la battaglia di Salamina, il poeta tragico Frinico nella sua opera “Le fenicie” racconta la battaglia di Salamina da un’angolazione originale, il dolore delle donne e delle mogli dei rematori fenici rimasti intrappolati nelle navi persiane che affondano. 

   Quattro anni dopo neppure Eschilo, che aveva combattuto a Salamina, indulge in trionfalismi. 

   La sua tragedia, “I Persiani”, si svolge in una antica piazza della capitale Susa. Tutti sono in attesa di notizie sulla campagna di Serse in Grecia.

   Scende la regina madre Atossa e racconta del suo terribile sogno, denso di cattivi presagi.

   Giunge un messaggero che dà corpo al suo incubo: la flotta persiana è stata annientata a Salamina.

   Il coro e Atossa invocano dall’oltretomba lo spirito di Dario, che appare e si lascia andare a un’aspra critica del figlio Serse che accusa di tracotanza e superbia, ammonendolo a non attaccare più Atene.

   Giunge Serse prostrato dalla sconfitta e il Coro intona un canto luttuoso che chiude il dramma. 

   Nella tragedia di Eschilo gli avversari sembrano pacificati dalla conclusione della battaglia, nei vincitori non c’è trionfalismo e disprezzo per i vinti, nei vinti non c’è rabbia e desiderio di rivincita verso i vincitori, ma solo dolore e lutto per le perdite subite. A prevalere è una pena profonda e il sentimento religioso, Dike, la giustizia, e Zeus, re degli dèi, premiano l’aretè, il valore degli ateniesi.

   Con I Persiani Eschilo dà prova, oltre che del suo ineguagliabile talento, della sua grandezza d’animo.

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   E’ appena l’inizio dello splendore materiale e spirituale dell’Atene del V secolo.

   La poesia tragica è figlia diretta di aedi e rapsodi. Sei secoli ci sono voluti per creare una lingua e un linguaggio che suscita ammirazione ancora ai nostri giorni. I racconti, le storie sono sempre più lunghi e complessi, i personaggi più numerosi ed è naturale che le esili trame iniziali man mano disegnino sempre meglio il carattere dei personaggi, le loro inquietudini.

   Tutto questo si compie con la Tragedia, figlia legittima di quegli straordinari poeti vagabondi, che hanno trasmesso i giorni dell’epica, della lirica, che hanno forgiato i miti come Efesto ha forgiato l’impalpabile e invisibile rete d’oro, che ha imprigionato Afrodite e Ares nel letto adulterino.

   Ad Atene la mattina al caffè – perdonate l’anacronismo – si potevano incontrare Eschilo, Sofocle ed Euripide, capaci di parlare di tutto, dei loro personaggi, del mélange non sempre riuscito tra mito e realtà, di psicanalisi, del conflitto tra la legge naturale e quella dell’uomo, del destino, della pena e dell’infelicità del vivere, ma anche degli aspetti tecnici: come l’organizzi tu la scena, il coro come lo fai muovere, pensi che i protagonisti possano arrivare a tre?

   Dovevano stare attenti, però, il pubblico era esigente e competente, in più in agguato c’era l’occhio critico di Aristofane, il grande commediografo, capace di stroncare politici e colleghi, seppellendoli con una risata.   

   Se il Bardo dell’Avon, William Shakespeare, se ne fosse andato a prendere un caffè nella Londra di fine Cinquecento, avrebbe potuto incontrare un ottimo artigiano, o, se fosse stato fortunato, un giovane di talento che gli chiedeva di leggere il sonetto composto nella notte passata in bianco.

   Allo stesso modo il Moliere della Parigi del Seicento avrebbe fatto fatica a trovare suoi pari da mettere alla berlina. 

   Il trionfo del teatro rese Atene forse la città più straordinaria nella storia dell’uomo.

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   Ippocrate non aveva bisogno di aedi, gli studi di medicina se li scriveva da solo. Sì, magari qualche cenno ad Asclepio, il dio delle cure, l’aveva rubato a qualche mito, ma per tutta la settimana aveva fatto lezione ai suoi innumerevoli allievi sotto un enorme platano. Aveva bisogno di un po’ di pace.

   Non che lì, all’osteria, a un passo dal Caffè di Eschilo, sene stesse con le mani in mano. Rifletteva, soprattutto a quell’idea di costruire un grande edificio per curare i malati, specie quelli più poveri, che non avevano la possibilità di essere curati in casa.

   Ogni tanto, poi, prendeva la penna e scriveva qualche riga del giuramento che i suoi allievi, i futuri medici, dovevano fare prima di curare i loro simili, un giuramento che si fa ancora ai nostri giorni.

   Non perdeva mai la concentrazione, anche se nei tavoli vicini facevano un rumore del diavolo gli ammiratori di Erodoto, che aveva girato tutto il mondo conosciuto e quello ancora non conosciuto, il padre della Storia, con il genio della letteratura, maestro insuperato nell’attirare l’attenzione dei lettori, non a caso il suo libro più importante e conosciuto è intitolato Storie.

   Per farmi capire, provate a fare un salto nel tempo, diciamo 2500 anni, accendete la televisione e compare Piero Angela, giornalista, divulgatore scientifico, amante della storia antica. Io l’adoro, credo che pochi come lui abbiano fatto crescere la cultura nel nostro paese, ma se provate a leggere la descrizione dell’Egitto di Erodoto e il suo tentativo pazzesco di raggiungere le sorgenti del Nilo, per fortuna respinto dalle frecce degli Etiopi, vi renderete conto che è un Piero Angela al cubo e, ne sono certo, sarebbe il nostro amato giornalista a riconoscerlo per primo.

   Il vociare era alle stelle, le domande innumerevoli, ma Ippocrate non aveva un baffo fuori posto.

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   Insomma, nei caffè e nelle osterie di Atene o, per tornare a essere seri, nei giardini, nei mercati, nelle palestre, nelle scuole di filosofia gli ateniesi, grandi medici, grandi pittori, grandi scultori, grandi architetti, grandi poeti, grandi retori e filosofi s’incontravano e parlavano di tutto, spesso accapigliandosi. I ricordi dei reduci delle guerre persiane, le scoperte dei marinai che toccavano tutti i porti del mediterraneo, le macerie che ancora oltraggiavano la città dopo il passaggio dei persiani.

   Quest’ultimo era l’argomento preferito: Atene doveva essere ricostruita.     

   All’inizio degli anni ’60, dopo una serie di ottimi politici, gli ateniesi scelgono come stratega, la massima carica, il democratico Pericle, che all’epoca aveva trentacinque anni. La sua passerà alla storia, del mondo, non della sola Grecia, come l’Età di Pericle. Se ne capisce il motivo, leggendo l’elogio funebre, l’epitaffio, riportato da Tucidide ne La Guerra del Peloponneso, dedicato nel 430 a.C. da Pericle ai caduti, dove celebra la democrazia ateniese e il valore supremo della libertà.   

   Siamo arrivati ad una fase che richiederebbe fiumi d’inchiostro per essere solo sfiorata.

   Pericle aveva qualità eccelse, una visione politica lucida e lungimirante, un’autorevolezza naturale che gli permetteva di ottenere quel che voleva solo pensandolo, conosceva gli affari di Atene, ormai potenza imperiale, come nessuno ed aveva intessuto una ragnatela di rapporti con le poleis, sapendo che molte di esse, principalmente Sparta, temevano il primato di Atene, ma nella sua mente quel che veniva prima di tutto era l’Acropoli, una ferita da risanare al più presto.

   Pericle chiamò gli ingegneri più famosi del suo tempo, affidò il cantiere e il complesso statuario a Fidia, il più grande scultore di tutti i tempi prima di Michelangelo. Nel 447 a.C. iniziarono i lavori e si conclusero dopo 14 anni. Agli occhi degli ateniesi e del mondo si parò uno spettacolo mai visto.

   Dire che il nuovo tempio fosse monumentale è riduttivo, circondato da 25 meravigliose colonne, all’interno una statua di Atena in marmo, oro e avorio alta 12 metri e costata l’equivalente di 230 navi, sui frontoni, tuttora indecentemente trattenuti dal British Museum, scene di tutti i tipi, dalla disputa tra Atena e Poseidone per il primato sulla città, alla guerra delle amazzoni ed alla processione delle Panatenee, le fanciulle in fiore, che ogni anno celebravano la più importante delle cerimonie in onore di Atena. Si perde la testa per seguire le 300 immagini, uomini e donne, dèi, animali, tutte scolpite dal grandissimo Fidia e dagli allievi della sua scuola.             

   Tutti sapevano che la ricostruzione di Atene era stata pagata dal tesoro della lega delio-ateniese, che Pericle aveva trasferito da Deli ad Atene. Troppo sicuro di sé, Pericle, per temere che la situazione potesse cambiare e questo fu un primo imperdonabile errore.

   Dopo dieci anni di grande diplomazia per stabilizzare il primato di Atene in terra e in mare, si avvertirono le prime crepe, l’insuccesso di una spedizione militare in Egitto che costò ad Atene il flusso di grano a buon mercato, le prime avvisaglie del conflitto con le più importanti città del Peloponneso, fomentato da Corinto che faceva leva su una Sparta piuttosto riluttante.

   La guerra aperta scoppiò nel 431 a.C. in coincidenza con una devastante epidemia che falcidiò il 50% almeno della popolazione ateniese in terra e in mare e la situazione precipitò con la morte di Pericle nel 429 a.C. colpito dalla malattia, peste, vaiolo, tifo o altro, nessuno può dirlo.

   Malgrado tutto, la resistenza di Atene fu orgogliosa ed efficace, ma non si può vincere il virus della stupidità e dell’ambizione dei mediocri. Morto Pericle, si avvicendarono al potere uomini di nessun spessore politico, capaci di inventarsi una spedizione militare in Sicilia mentre infuriava il conflitto con Sparta e la sua lega.

   L’insuccesso della spedizione guidata da tre strateghi, Nicia, Làmaco e l’ineffabile Alcibiade, segnò le sorti della guerra del Peloponneso. Due parole merita Alcibiade perché della sua viva intelligenza testimonia un uomo straordinario, Socrate, che gli salvò anche la vita in battaglia, poi, pero, fu l’esempio deteriore dell’impiego dell’intelligenza quando non è sostenuta da qualità morali: dopo la sconfitta non tornò ad Atene, ma si recò a Sparta, mettendosi a disposizione della città più ostile alla sua patria; anche Sparta lo cacciò e da allora, dopo un breve ritorno ad Atene, girò per la Persia nel vano tentativo di mettersi a disposizione del Gran Re; venne ucciso in Frigia senza che nessuno abbia mai saputo chi fossero i mandanti del suo assassinio.

   Fiaccata dalla epidemia e dalla folle spedizione siciliana Atene fu sconfitta e dal 404 a.C. la Grecia tutta cadde sotto il giogo spartano e della Lega del Peloponneso.

   Sparta era allora come lo era stata nei mille anni precedenti uno Stato caserma, con una costituzione rompicapo creata da un legislatore talmente mitico e leggendario, Licurgo, da dubitare persino che fosse esistito, con una classe aristocratica dominante, da sempre sulle spalle di agricoltori e operai e, ancora un gradino più sotto, di schiavi, servi della gleba ante litteram, con una assemblea composta solo da guerrieri, un consiglio di anziani e un governo di pochi (Efori).

   A parte la funzione residuale della famiglia, l’educazione identica per bambine e bambini affidata allo stato, le mense comuni per gli adulti, pratiche orribili nella formazione della gioventù, come il battesimo, alla vigilia dell’età adulta, della caccia mortale ad animali feroci o uomini, naturalmente iloti, cioè schiavi, non importa. E se ebbe un cantore, Tirteo, tra l’altro poeta di valore assoluto, epigono di Omero, che esaltò le virtù spartane, è incredibile che uomini come Platone e Senofonte ammirassero quel sistema dopo aver conosciuto la democrazia e l’educazione ateniese. 

   Tra l’altro, Platone e Senofonte commisero un errore di prospettiva: mai vittoria fu più effimera, un regime durato oltre mille anni si stava sciogliendo come neve al sole al contatto delle responsabilità di governo di un sistema complesso come quello creato da Atene e, all’orizzonte, già incombeva la potenza macedone. Per fortuna la disciplina non basta per guidare uomini liberi.

   Intanto, però, la vittoria di Atene stava per essere decretata dalla storia.       

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   Fossi cinico, come davvero non credo di essere, direi che La Guerra del Peloponneso è stata una fortuna per aver offerto a un uomo straordinario come Tucidide l’occasione di realizzare un’opera in cui si riportavano i fatti: ma che opera! Solo con quella Tucidide sale sul podio affollatissimo del secolo d’oro di Atene, con Eschilo, Sofocle, Euripide, Pindaro Aristofane, Fidia, Socrate, Senofonte e Platone.

   Con Tucidide la storia si fa scienza, psicologia, analisi politica, come mai era avvenuto in precedenza e quel che è stupefacente è che Egli riesca a distaccarsi dagli avvenimenti in cui, anche come comandante di una nave ateniese, è personalmente immerso.

   L’oggettività con cui Tucidide spiega le vere cause del conflitto è mirabile.

   Dovranno passare cinque secoli prima che nasca con Tacito uno storico di valore comparabile e altri quindici prima che comparisse Edward Gibbon, l’autore della monumentale Storia del declino e della caduta dell’Impero Romano, e ancora altri due prima che la storiografia si allontanasse, almeno per la mia sensibilità, con gli storici francesi degli Annales, da quel modello primigenio.  

   La diversità rispetto al meraviglioso incedere letterario di Erodoto è l’asciuttezza della trattazione, gli dèi scompaiono e sono sostituiti dalla ricerca della verità dei fatti e dà un’interpretazione politica rigorosa dei fatti stessi. La prosa di Tucidide, essenziale e di straordinaria efficacia, è funzionale a un compito, che nessun altro avrebbe potuto affrontare e nessuno altro mai più affronterà.

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   Non è raro nella storia che la vittoria, anche la più straordinaria, rechi con sé il germe del declino.

   Nel caso di Atene tutto si svolse fulmineamente.

   L’esaltazione per la doppia vittoria contro i Persiani sprigionò energie impressionanti. Atene già prima era una città importante, forse la più importante del Mediterraneo, padrona dei commerci via terra e via mare, ora però era la capitale di un impero ed era tutto diverso.

   Fin quando la città era nelle mani ferme di Pericle gli scompensi rimasero sottotraccia, ma neppure Pericle poteva impedire la sorda lotta sotterranea tra gli interessi generati da un impero sterminato.

   Alle famiglie egemoni della vecchia aristocrazia se ne aggiunsero altre, spregiudicate e piene di energia e che non avevano il tradizionale rispetto per le istituzioni della polis fino ad allora mai messe in discussione. Non era facile mantenere l’equilibrio. Ad andar bene si arrivava a compromessi, ma più spesso aveva la meglio il conflitto aperto.

   In questa situazione l’interesse dello stato sbiadiva ogni giorno di più. In vita Pericle questa deriva stentava a venire alla luce, ma alla sua morte gli argini saltarono. Si avvicendarono politici mediocri e incapaci di governare la città, tra l’altro in piena guerra.

   Gli interessi particolaristici prevalsero. C’è bisogno di estensioni territoriali? Nessun problema, si ottengono a spese di altre poleis, talvolta anche alleate, con una violenza efferata, come racconta Tucidide per la piccola isola di Melo. Alcune delle isole egee sono ostili? S’interviene con la flotta per ridurle all’obbedienza. Le colonie siciliane non hanno prestato l’aiuto richiesto o si sono schierate con il nemico? Si scatena contro di loro una guerra.

   Tutto è dominato dalla ragion di stato, concetto inventato da Tucidide, che, però, aveva precisato che essa deve essere giustificata e correttamente motivata, come non accadde dopo la morte di Pericle.

   Il risultato di questa politica scellerata fu l’odio che si abbatté su Atene più forte delle armi nemiche.

   Inizialmente le cause della guerra vengono individuate da Tucidide nel timore per la crescente potenza di Atene, alimentato da Corinto prima concorrente commerciale, che riuscì a superare la riluttanza di Sparta, successivamente fu proprio la condanna per le azioni ateniesi a giustificare sotto il profilo umanitario la guerra. Nessuno poteva aspettarsi che Atene impugnasse l’hubris, l’arroganza, la tracotanza, la prepotenza che il gigante Eschilo aveva rimproverato a Serse.

   Non servì a niente. Atene, sconfitta, fu costretta a demolire le mura alzate a protezione del Pireo.

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   Il decadimento non fu soltanto materiale, ma spirituale. Sembrava che gli ateniesi fossero diventati indifferenti alle sorti della polis, non suscitava motivo di scandalo che la politica della città fosse guidata dai plenipotenziari spartani insediatisi sull’Acropoli, nessuno si accorgeva che le poche residue energie si disperdessero tra vecchie e nuove aristocrazie in conflitto per contendersi privilegi che stavano per finire per tutti.      

   In questa situazione drammatica si verificò un miracolo: lo sviluppo e il consolidamento della cultura. All’improvviso Atene fu invasa da nuovi maestri: i Sofisti.

   Rompendo con gli schemi tradizionali questi nuovi sapienti si proponevano su un mercato mai esistito prima di loro: servizi educativi. Si vendevano al miglior offerente, ma soprattutto alle ricche famiglie aristocratiche o dell’alta borghesia. Nessuna tentazione di insegnare ai cittadini comuni, ma solo ai rampolli delle famiglie più in vista e con un insegnamento non aperto, ma preordinato a formare la nuova classe dirigente della politica, anzi i futuri capi della polis.

   I Sofisti più di ogni altro si erano impossessati della prosa che ormai da tempo si stava sostituendo alla poesia. Avevano tecniche virtuosistiche del linguaggio che nessuno poteva imitare e si vantavano di poter svolgere con lo stesso successo una tesi e il suo contrario. 

   I grandi pensatori greci non furono teneri con i Sofisti. Aristotele non li annovera tra i filosofi, Platone li critica aspramente, ma in uno dei suoi dialoghi fa intervenire Protagora, il più noto di essi, e, anche se la critica non si attenua, è costretto a riconoscere che la sua filosofia è innovativa è frutto di uno studio e di un’elaborazione profondi.

   Più aperto alla novità Socrate, che condivide la critica nei riguardi della tradizione e della cultura del tempo. Addirittura, Aristofane in una delle sue celeberrime commedie, Le Nuvole, lo assimila ai Sofisti, prendendolo in giro da par suo. In molti sostengono che la satira aristofanea ebbe un ruolo nella condanna a morte di Socrate, ma questa tesi non l’avrebbe condivisa neppure lui che per tutta la vita si era battuto per la libertà della parola e delle opinioni e non avrebbe confuso i giudizi dei cittadini con i procedimenti di un Collegio costituito in sede giudicante.

   D’altra parte, l’uomo più curioso di tutti i tempi, instancabile nella ricerca della verità, discuteva di tutto e con tutti, figuriamoci se non discutesse con i portatori di nuove idee, ma questo non gli impedì di sottoporre i Sofisti a una critica serrata. Socrate, come i sofisti, aveva posto l’uomo al centro della sua speculazione, ma origini e conclusioni del ragionamento sono diametralmente opposte.

   Mentre per i Sofisti l’uomo è il singolo individuo, per Socrate è il segno universale della razionalità che accumuna tutti gli uomini. Le conseguenze non potrebbero essere più diverse.

   I sofisti, attraverso l’individualismo e il relativismo più radicali, non riescono ad attingere la conoscenza, non riducibile alla somma di infinite singole conoscenze, nell’intuizione di Socrate, tra i più grandi pensatori di tutti i tempi, la conoscenza è una costruzione astratta, partorita dalla ragione dell’uomo, che precede la vita stessa di ogni singolo uomo.

   Per i sofisti l’etica coincide con l’utile individuale, misurabile attraverso il successo che ciascuno ottiene, per Socrate l’anelito è al bene supremo, che solo l’interiorità della coscienza può misurare.

   La differenza più pratica, infine, è tra chi ritiene che il valore consista in un sapere funzionale alla vita politica con l’obbiettivo del potere, e Socrate per il quale il sapere ha funzione politica solo se ha contenuto morale.

   Werner Jaeger, che ho più volte citato, considera Socrate il più grande insegnante/maestro di tutti i tempi, ma osserva che, mentre i Sofisti insegnano, Socrate aiuta gli altri ad apprendere e la differenza non potrebbe essere più abissale. L’insegnamento presuppone un sapere preesistente, da perpetuare, l’apprendimento richiede il concorso senza fine di maestro e allievo nella costruzione del sapere.

   L’insegnamento, dice Socrate, conduce all’istruzione, l’apprendimento conduce all’educazione. Ma la chiave di volta per aprire questo scrigno, creato da un uomo che ha detto a tutto il mondo di non sapere e di non avere nulla da insegnare agli altri, è il metodo per conquistare autonomamente la scienza: la strada per il sapere è lunga, richiede processi di ricerca e percorsi faticosi, che il pensiero deve compiere con rigore di metodo, servendosi dell’osservazione e dell’induzione fino al momento della generalizzazione razionale. E lo stesso è da dire della vita morale: in senso proprio la virtù non la si insegna e neppure la si impara, ma la si conquista attraverso un processo di crescita interiore.

   Come si vede, tra Sofisti e Socrate, la differenza non potrebbe essere più drastica. Ciò malgrado, nemmeno il grande Aristofane capisce che il pericolo per la sua tanto vagheggiata polis dei bei tempi, è rappresentato dall’individualismo e dal relativismo dei Sofisti, non certo da Socrate.

   Esattamente il morbo dell’indifferenza che colpì gli ateniesi dopo la morte di Pericle.

EZIO CALDERAI                                                                     (CONTINUA)

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