“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – IL BLU È UN COLORE CALDO

di MICHELE CAPITANI ♦

Mi avvio a scuola, oggi abbiamo esami di italiano per stranieri.

Esami di un tipo un po’ speciale: periodicamente, la Prefettura chiede alla nostra scuola statale per adulti, come a tutte quelle della provincia, la disponibilità a effettuare test di conoscenza dell’italiano per stranieri, coloro che richiedono il permesso di lunga permanenza.

È ovvio che si chiamano “test”: siamo in Italia, no? Dunque, perché mai dovremmo chiamarli “esami” o “prove”? Però sono una cosa molto utile… Immaginiamo la situazione di uno straniero che per vent’anni sta in Italia, ci vive, ci lavora, si sposa, fa figli, guarda la tivù italiana, fa la spesa in italiano, viene convocato in Questura, parla con gli insegnanti dei figli, con l’impiegato della posta, eccetera… ecco, perché mai dovremmo pensare che questa persona abbia imparato l’italiano?! No: vale la pena spendere tempo e soldi, e fargli spendere tempo e soldi, per farglielo dimostrare. Via, non è una cosa sacrosanta?

Ovviamente il tutto è organizzato per benino: siccome si ragiona per province, la Prefettura contingenta i candidati per gruppi di 40 e li smista nelle varie scuole a rotazione, quindi da noi non sia mai che mandino qualcuno della nostra città; quasi tutti i candidati provengono da almeno un’ora di treno di distanza, quando magari la mattina precedente le prove (pardon: il test) si sono svolte a due passi da casa sua.

Come diceva Pizzul, è tutto molto bello. Ma allora, «Chi te lo fa fare il test?», diranno i miei piccoli lettori. La risposta è anche nei capoversi che seguono…

Oggi, arrivo, e una quindicina di stranieri sono già seduti, dunque iniziamo la consueta opera di tranquillizzazione (la frase magica «Guardate che noi siamo insegnanti, non poliziotti» ha il potere di distendere all’unisono decine di sorrisi), controlliamo i documenti, e mentre ci stiamo accingendo a spiegare le modalità di svolgimento, vediamo entrare in silenzio e lentamente un gruppetto che è giunto in ritardo.

Si tratta di un trio: il primo è un giovane singalese con una vistosissima bendatura a un occhio, il quale, non appena si siede, ingolla con discrezione due bustine di analgesici, e altri li sistema sul banco. È dolorante ma sveglio, capisce tutto, risponderà bene e sveltamente alle varie parti di cui si compone l’esame.

Con lui è entrata una coppia di filippini, un po’ in là con gli anni: lui, se non fosse per i lineamenti, penserei certamente che è l’invalido a cui la signora fa da badante, visto che lei lo accompagna lentissimamente al banco, tenendolo per un braccio.

Invece no: sono coniugi, entrambi convocati per l’esame. Lui, seduto, pare fissi il foglio davanti a sé, le mani sulle gambe, non estrae nessuna penna, non dice nulla.

Io, appena consegnato il primo foglio, chiedo a costui se si senta bene o abbia bisogno di qualcosa, allora la moglie mi spiega che lui ha avuto da poco un ictus, perciò non può parlare, né compiere molti movimenti, tra cui scrivere.

E che esame gli vuoi far fare?! Mi consulto anche con la collega che nella classe limitrofa ha gli altri esaminandi, e decidiamo che ci consulteremo con il referente per la Prefettura (comunque, per gravi e accertati motivi di salute l’esame può essere evitato).

Per il resto la prova si svolge normalmente, e termina dopo poco più di un’ora.

Ci salutiamo: in un minuto e in qualche ringraziamento e stretta di mano mi sfila davanti tutto il mondo, racchiuso in una quindicina di persone. Gli ultimi a uscire sono quei tre, lentissimi, di nuovo insieme, posati e silenziosi, come in genere sono gli asiatici.

Vedendo questa piccola e gentile corte dei miracoli che sofferente se ne esce, cerco di riordinare alla svelta tutte le scartoffie (tanto le prove le correggeremo nel pomeriggio). Dopo alcuni minuti insomma esco dalla classe (passando, vedo la collega all’aula attigua che parla con l’ultimo rimasto, uno dall’aria magrebina), scendo, passo qualche altro minuto in segreteria; infine esco, e vedo che sono tutti defluiti via, tranne quei tre che, lenti lenti lenti, appoggiandosi l’un l’altro, sono giunti appena a metà del cortile…

La stazione è vicina a casa mia, dunque dico loro di attendere lì fuori ché gli darò un passaggio.

Nei pochi metri che percorro tra loro e la mia macchina parcheggiata, mi ferma l’arabo che stava parlando con la collega. Avrà un cinquant’anni, parla abbastanza bene l’italiano, è molto cortese, e spaventosamente preoccupato. Mi chiede dell’esame, e questo era prevedibile; io gli rispondo di stare tranquillo perché in pochi giorni sapranno i risultati; ma mi rendo conto che è come dire «Pensa alla salute» a uno che attende di sapere se ha un tumore o no.

«Sto qui da trent’anni, ho avuto anche quattro operazioni… Venga, per un caffè…» mi dice.

A parte il fatto che non ho tempo perché i tre invalidi mi aspettano, declino l’invito (dentro di me sorrido perché penso che avrebbe il sapore di un “caffè corrotto”!), e mi lascio sfuggire un:

«Andrà bene, stia tranquillo»

Non dovrei dirglielo, non per chissà quali questioni deontologiche, bensì semplicemente perché le prove non le abbiamo corrette, perciò che ne so di come lui l’abbia svolto?

Tra l’altro, non era nemmeno nella mia classe.

Imbarco senz’altro i tre malconci sulla macchina; il ragazzo, seduto dietro, dice, ma quasi tra sé e sé: «Questa è una cosa buona…», ma io cerco di sminuire: non solo perché non amo i salamelecchi (non c’è pericolo: i tre restano molto discreti), quanto perché in effetti si tratta solo di un passaggio in macchina, su un itinerario che percorrerei in ogni caso.

Mi viene in mente quella signora tunisina, alla sessione di alcuni mesi fa: era arrivata in ritardo di un’ora per problemi di treno, e aveva il permesso di soggiorno già scaduto; avremmo dovuto dirle di tornare alla Questura per avere una nuova convocazione (per chissà quando…), ma né io né la collega quel mattino avevamo fretta, senza contare che la tizia avrebbe rischiato grosse noie burocratiche; allora le avevamo fatto sostenere l’esame, pur se un po’ acceleratamente.

Alla fine, mentre la collega era già scesa e io stavo mettendo in ordine, la signora tunisina consegnò i suoi fogli, poi la vidi mettersi a frugare nella borsa:

«Ti vogliu regalare qualcosa, pir dire grazie»

«No, signora, per favore, non è il caso…»

Sorda alle mie rimostranze, la vidi allora cavare una scatolina, e trarne fuori nientemeno che… un anello!

Ora, anche se era bigiotteria, io non so come funzioni al suo paese, ma qui in Europa una donna che dona un anello a un uomo… La porta era spalancata, mi accertai istintivamente che nel corridoio non passasse nessuno, ma non ci fu comunque verso di rifiutare: la signora si profondeva in una gentile insistenza, con gestualità molto levantina. E allora dovetti accettare, del resto era vero che le avevamo fatto un grande favore.

Mi riscuoto dai ricordi: sono al volante, fermo davanti alla stazione, e i tre sinistrati hanno terminato le lente procedure per scendere dalla mia auto.

La signora si affaccia dentro al finestrino opposto al mio; tace e ha un sorriso commosso; piglia dalla borsa qualcosa che lì per lì non capisco, ci metto dei secondi per vedere con orrore che, sul sedile accanto, mi ha messo venti euro.

Capisco il gesto di questa donna e la sua gratitudine, ma dei soldi per aver aiutato tre poveracci, che sono venuti nel nostro paese per lavorare e mettere su famiglia?… Come faccio? Non sono soldi miei, non sono meritati, non voglio levarglieli…

Sono stato corrotto! O forse no, ma insomma, in quindici anni che insegno, non avevo mai preso soldi né niente altro di non dovuto per il mio lavoro. Né qualcuno ci aveva provato, finora giusto qualche mamma un po’ zoccola che mi faceva gli occhi dolci in periodo di pagelle, e nulla più.

Ma non riesco neppure a rigettar fuori quel denaro, verso la signora; ho la pelle d’oca, e sono bloccato: più forte del terrore di accettarlo sento il terrore di offendere questa brava gente. Se lo facessi, davvero non riuscirei più a guardarmi allo specchio.

Lei intanto va procedendo verso la stazione, a passo d’uomo invalido, reggendo per un braccio il marito rattrappito dall’ictus, col giovane ferito a tenergli l’altro braccio. Lei è la tartaruga, io l’Achille che non riuscirà mai a raggiungerla…

Infine, in macchina resto a tu per tu: io e un gigantesco groppo alla gola; mi sento lì lì per piangere come una vite tagliata.

Ma riesco in qualche modo a fare inversione sul piazzale, e continuo verso casa.

Entro, reggendo questa banconota fra due dita, la appoggio perché mi scotta, anzi brucia: emana forza, emana angoscia. È bluastra ma mai il blu mi era sembrato caldo come ora. Sì, un caldo rovente di dolore, una rettangolo di carta blu che racconta di mari attraversati, e di mari di lacrime versate.

Dovevo fare un po’ di spesa, ma tanto lo stomaco mi si è chiuso completamente.

MICHELE CAPITANI

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