I CANTASTORIE TRADITI — COME SI DISTRUGGE IN CINQUANT’ANNI E SPICCI UNA CIVILTÀ COSTRUITA IN TREMILA ANNI.
di EZIO CALDERAI ♦
Capitolo 18:Le guerre persiane e la pietas dei grandi poeti tragici.
Siamo alla vigilia del trionfo di Atene e della sua caduta. Sia solo permesso un piccolo passo indietro, una cinquantina di anni, un battito di ciglia nei millenni che vi ho promesso.
***
Nel 546 a.C. Ciro il Grande non contento di un impero sterminato, spazza via dall’Anatolia tutti i popoli che gli sono ostili, cancella il Regno di Lidia e il suo mitico re Creso, assedia le colonie greche affacciate sull’Egeo, le sottomette e le assoggetta a pesantissimi tributi, sostituisce i governanti con satrapi persiani di sua fiducia. Solo Mileto resiste, riuscendo a strappare misere concessioni.
***
L’alba del V secolo sorge squassata da terribili venti di guerra.
La rivalità fra i greci e la Persia divenne aperto conflitto nel 499 a.C., quando le poleis della Ionia insorsero contro gli eccessivi tributi imposti da Dario.
Nel 499 a.C. scoppia improvvisa una rivolta di tutte le città greche dell’Asia Minore, insofferenti al governo dei tiranni nominati dai persiani, all’esosità dei tributi, alle difficoltà frapposte al libero commercio in cui eccellevano. In un lampo, la rivolta provocò un incendio che si propagò in tutta l’Eolide, in Doride, fino a spingersi a Cipro e in Caria. Nel 498 a.C. gli Ioni, sostenuti da piccole flotte di Atene e di Eretria conquistarono e misero a ferro e fuoco Sardi già capitale del regno di Lidia e tra le città più importanti dell’impero persiano.
L’Imperatore Dario non poteva tollerare i rovesci che avevano scosso la sua autorità e l’abilità nel commercio dei greci dell’Egeo era una spina nel fianco. Il momento della resa dei conti era venuto.
Gli Ioni avevano già subito grosse perdite di ritorno dalla battaglia di Sardi; poi, dopo uno stallo delle operazioni, nel 494 a.C. i persiani assediarono Mileto. L’orgogliosa città greca venne rasa al suolo e i suoi abitanti ridotti in schiavitù. Nel 493 a.C., represse le ultime resistenze, la rivolta fu definitivamente soffocata e Dario fu padrone di tutte le coste bagnate dal mare Egeo.
Le piccole flotte di Atene ed Eretria non furono in grado di competere.
La sottomissione delle colonie greche costituì il prologo delle guerre persiane.
***
Il Gran Re non era soddisfatto. La soggezione di tutte le colonie greche e la distruzione di Mileto non gli bastavano. Atene ed Eretria dovevano essere punite per aver aiutato le città greche ribelli, ma, ormai era chiaro, il suo obbiettivo era la Grecia. Mandò ambasciatori in tutte le città greche, invitandole a sottomettersi; molte presero tempo, altre accettarono, solo Atene e Sparta rifiutarono sdegnosamente, esagerando quando giustiziarono gli ambasciatori. Una brutta storia.
Dario non perse tempo, assicuratosi della fedeltà del vassallo macedone, nel 492 a.C. iniziò i preparativi per il trasferimento delle truppe e dei cavalli, ma il naufragio della flotta di supporto sotto il Monte Athos consigliò di rinviare la campagna militare.
Nel 490 a.C. partì una nuova spedizione. La possente flotta persiana[1], scendendo verso l’Attica, assediò e diede alle fiamme Eretria. La prima vendetta si era consumata. Poi, proseguì per sbarcare sulla spiaggia di Maratona a una quarantina di chilometri da Atene.
La prima guerra persiana era iniziata.
***
Non c’era molto tempo, ma gli ateniesi presero in fretta le decisioni necessarie alla difesa.
Un esercito di 9.000 opliti venne allestito e inviato a Maratona al comando di Callimaco di Afidna, guerriero valorosissimo e vincitore di un’olimpiade, uno dei 10 strateghi nominati dalla bulè.
Messaggeri vennero inviati verso numerose città per chiedere aiuto, tra essi l’emerodromo[2] Filippide, ritenuto il più veloce degli uomini greci, che, correndo giorno e notte, percorse i 240 chilometri che separano Atene da Sparta in un solo giorno.
Quando l’esercito ateniese arrivò a Maratona trovò soltanto mille opliti inviati dalla polis di Platea, nessun’altra città aveva risposto all’appello. Sparta fece sapere che i suoi uomini erano impegnati in giochi rituali in occasione di una celebrazione religiosa, al termine avrebbero raggiunto Maratona.
L’esercito dei difensori poteva contare su diecimila opliti e di qualche centinaio di volontari con scarsa esperienza e armi leggere. Di fronte un esercito di almeno 30.000 uomini, mille dei quali a cavallo e un numero imprecisato di arcieri.
Qui subentrò il genio strategico di Milziade, che convinse gli altri strateghi a non attaccare e di limitarsi ad azioni di disturbo per poi riparare nella boscaglia dietro la spiaggia, dove i cavalli non potevano entrare, e al riparo dalle frecce. Questa tattica durò cinque giorni, poi quando Milziade vide che i persiani stavano riportando i cavalli sulle navi, probabilmente convinti di perdere tempo, vincendo il parere di molti tra gli strateghi, che ritenevano fosse meglio aspettare gli spartani, Milziade convinse Callimaco a dare l’ordine di attaccare.
Gli Opliti, con le loro potenti corazze, si lanciarono sui persiani come una valanga. In pochi minuti rimasero sul terreno 6.400 persiani, mentre i greci persero 192 uomini, tra essi Callimaco.
La flotta venne rimessa in mare dai persiani nella confusione.
L’impresa di tanti uomini liberi e valorosi non era conclusa: di nuovo Filippide venne incaricato di correre verso Atene per annunciare la vittoria e l’esercito a tappe forzate raggiunse Atene, temendo che la flotta persiana potesse attaccarla dal mare. Gli ateniesi, però, schierarono a difesa del porto la propria flotta. Tanto bastò perché i persiani, ormai con il morale sotto i calzari, giunti davanti al Pireo, prendessero la via del ritorno.
Resta la leggenda di Filippide. Non è certo che sia stato lui, dopo l’impresa della corsa verso Sparta, a correre per i fatidici 42 chilometri e 195 metri che separano Maratona da Atene, tanto meno è certo che esalò il suo ultimo respiro dopo aver dato l’annuncio della vittoria. Ci piace pensare che fosse proprio lui, che gli ateniesi ricoprirono non di viole funerarie, ma di corone d’alloro e di rametti d’ulivo, perché nessuno più di lui merita l’intestazione della gara più prestigiosa delle olimpiadi moderne: la maratona.
Degli spartani neppure l’ombra.
***
Della battaglia di Maratona nei 2500 anni successivi parlarono innumerevoli storici, primo tra tutti Erodoto, che, nato nel 480 a.C. era ancora in grado di parlare con i reduci, non si contano i romanzi, i dipinti, le statue, i film. Si può dire che gli storici fecero a gara per ricostruire la composizione delle forze in campo, le ipotetiche tattiche e strategie, le armi usate dai due eserciti, le protezioni in battaglia, con l’evidente superiorità delle corazze degli opliti e la tecnica della falange.
Forse qualcuno avrà pure tentato di contare il numero delle lance e delle frecce, altri si sono accapigliati per capire il motivo per cui i persiani imbarcarono i cavalli. Nulla è stato trascurato.
Sono sicuro che se ne continuerà a parlare all’infinito ed è giusto che sia così ed è pure giusto che Maratona sia diventata luogo di pellegrinaggio, visitato da decine c decine di milioni di persone.
La gente semplice, più ancora degli intellettuali, interessati principalmente a mettere insieme i tasselli del mosaico degli avvenimenti, capì che la Battaglia di Maratona era più della lotta tra valorosi combattenti, ma uno scontro di civiltà.
Mille miglia passavano tra i fanti persiani, provenienti da satrapie disperse in tutta l’asia centrale, che non conoscevano se non l’ubbidienza cieca di ordini che non capivano, anche perché spesso e volentieri parlavano lingue diverse, e gli opliti, uomini generalmente colti e, prima ancora, liberi, che magari, dopo la battaglia, se ne andavano nelle palestre per gli esercizi fisici o per parlare di filosofia, e la sera a teatro.
Ancora più di mille miglia passano tra l’esercizio del potere di un re o imperatore, unto dal signore, e quello dei rappresentanti delle poleis, specie gli ateniesi, che insieme ai cittadini combattono per proteggere le proprie famiglie, i propri beni, la propria condizione sociale.
Da un lato sudditi, appena un gradino sopra gli schiavi, dall’altro uomini liberi, dai modelli di vita addirittura incomprensibili per qualsiasi altra società dell’epoca.
A Maratona gli ateniesi hanno scelto l’occidente e rifiutato l’oriente, con conseguenze incalcolabili nella storia del mondo.
La guerra non era ancora finita, altre prove cruente li attendevano, ma i greci avevano capito di essere in grado di respingere eserciti di dimensioni largamente superiori ai propri, sarebbe stato sufficiente impugnare oltre le armi, le proprie motivazioni, la propria cultura. Intanto, però, armarono una possente flotta da guerra e addestrarono comandanti di straordinaria capacità.
***
La seconda guerra persiana inizia nel 480 a.C.
Dario era morto e a lui era succeduto il figlio Serse.
Il nuovo re aveva represso una sommossa in Egitto, ma non pensava che all’umiliazione subita per mano dei greci. Dieci anni non gli bastarono per riflettere sulle cause della disfatta, come ho cercato di fare io, in modo sommario e ingenuo, e poi neppure tanto se la mia analisi somiglia a quella fatta dall’immenso Eschilo nel 472 a.C. nella tragedia “I Persiani” di cui parlerò più avanti, e, sia detto senza falsa modestia, la tragedia l’ho letta dopo aver scritto le mie considerazioni.
D’altra parte, un uomo come Serse I, autocrate assoluto, era destinato alla seconda disfatta; vedeva la guerra solo in termini di forze in campo, tanti di questo e tanti di quello; non dava ascolto ai suoi consiglieri, ammesso che ce ne fossero ad avere il coraggio di contrariarlo.
Eppure, questa volta aveva preparato molto bene la spedizione.
Fece realizzare un ardito ponte di barche per far attraversare l’Ellesponto all’esercito e condurlo in Tracia, da dove scese verso la Tessaglia, creando stazioni intermedie per i rifornimenti e per la sostituzione dei reparti all’occorrenza; puntando verso l’Attica molte città si arresero o trovarono con i persiani accordi per un’onorevole sudditanza.
L’esercito di Serse era veramente sterminato. Erodoto parla di 2,5 milioni di uomini, altri addirittura del doppio. Stime improbali, se non altro perché non sarebbe bastata la Grecia e le regioni vicine per garantire i rifornimenti a un numero tanto impressionante di soldati e dei reparti della logistica. Si aggiunga che sarebbe stato impossibile garantire condizioni igieniche appena appena sufficienti.
Più attendibili stime che vanno da 300.000 a 800.000 uomini, ma, anche se fossero stati al punto più basso della forbice, affrontarli in campo aperto sarebbe stato un suicidio.
I greci avvertirono il pericolo, erano in gioco il destino delle poleis e la libertà di tutti, bene per essi irrinunciabile. Mettendo da parte diffidenze reciproche, rivalità ancestrali, gelosie, si unirono per respingere l’invasore persiano, formando «l’alleanza ellenica».
Ancora una volta la migliore conoscenza del territorio e la superiore capacità strategica avrebbero orientato le sorti della guerra. In primo luogo, i generali greci capirono che bisognava rallentare in tutti i modi la marcia dell’esercito persiano verso Atene. Contemporaneamente decisero di sbarrargli il passo verso strade alternative che potessero aggirare l’obbiettivo principale. Costruirono così un muro a chiusura dell’istmo di Corinto, dopo aver distrutto le strade di accesso.
Il problema era il grosso dell’esercito persiano: per arrivare ad Atene doveva superare il passo delle Termopili e proprio lì l’Alleanza organizzò la prima linea di difesa; le Termopili più che un passo è una gola strettissima. I difensori sarebbero stati favoriti. Circa 7.000 soldati, guidati da Leonida, re di Sparta, con i suoi trecento opliti, presero posizione.
I soldati non riuscivano a penetrare quel collo di bottiglia e le perdite persiane furono enormi.
Fu l’imprevisto, come spesso accade nelle vicende umane, a rovesciare la situazione.
Un contadino della zona, tale Efialte, si vendette a Serse per i classici trenta denari o più, non lo sapremo mai. Gli rivelò che c’era sulla montagna un sentiero per aggirare la postazione greca.
Leonida capì subito che stretti tra due fuochi non avevano speranza. Licenziò, allora, il grosso dello esercito per non indebolire le forze alleate e restò con i suoi 300 opliti e pochi altri volontari.
Il coraggio di quest’ultima resistenza ha qualcosa di sovrumano. Addirittura, quando stavano per essere sommersi dalla marea persiana, uscirono dalle postazioni per lanciarsi all’attacco.
Non ne rimase in vita neppure uno.
Mai sconfitta fu più celebrata e mai sconfitti vennero esaltati come purissimi eroi.
Mi viene in mente soltanto un caso che può rivaleggiare per valore, eroismo e spirito di abnegazione con la battaglia delle Termopili, quello della guarnigione inglese di stanza a Calais, che, nella Seconda guerra mondiale, sacrificò fino all’ultimo dei suoi 4.000 uomini, per consentire il salvataggio di 338.000 soldati britannici e francesi intrappolati a Dunkerque.
***
Dopo la notizia dell’esito infausto delle Termopili, per la fortuna dell’Alleanza, il comando venne assunto dall’ateniese Temistocle, che prese due decisioni, che capovolsero le sorti del conflitto: ordinò a tutti gli ateniesi di abbandonare Atene; trasferì lo scontro dalla terra al mare.
Aveva previsto tutto.
I persiani si lanciarono ottusamente su Atene e l’incendiarono, ma non ci trovarono nessuno, nel frattempo la flotta ateniese impegnò con successo quella persiana a Capo Artemisio, ma non era ancora quello che voleva Temistocle, che fece in modo di trascinarla nello stretto di Salamina.
La manovra riuscì e la battaglia si svolse nello stretto braccio di mare che separa l’isola di Salamina dalla terraferma. Temistocle sapeva cosa sarebbe accaduto. Le navi ateniesi, più piccole e agili, per questo con maggiore capacità di manovra, distrussero le più grandi e ingombranti navi persiane, che non riuscivano a muoversi.
Quel che accadde il 23 settembre del 480 a.C. nello specchio d’acqua avanti Salamina non può essere reso meglio di quanto fece Eschilo nella tragedia “I Persiani”, descrivendo le orribili asprezze della guerra e la desolazione di ciò che rimane:
“Il mare si era fatto invisibile, nascosto da ammassi di relitti, da corpi alla deriva e cadaveri, cadaveri senza fine sugli scogli della riva. Una fuga poi, senz’ordine, navi a battere di remi, quant’erano nell’esercito dei barbari; presi alla maniera di tonni, come una retata di pesci, battuti sulla spina dorsale, massacrati con remi spezzati, tavole di naufragio. Gemeva l’acqua salata e si inondava di pianto, finché l’occhio d’ombra della notte non impose il silenzio.”16.
Eschilo, aveva partecipato alla battaglia navale di Salamina.
La disfatta indusse Serse a tornare a Susa, lasciando a svernare in Tessaglia un esercito di 300.000 uomini con a capo il Generale Mardonio, contando di riprendere le ostilità l’anno successivo.
I greci, però, ormai sicuri della propria superiorità strategica, allestirono un esercito di 100.000 uomini, che marciò verso l’accampamento fortificato di Mardonio. Due cose successero rapidamente: Mardonio a conoscenza dei piani degli alleati portò l’esercito in Beozia nei pressi di Platea, ritenendo di trovare lì un terreno più favorevole; tra gli alleati ripresero le antiche rivalità, Atene minacciò di restare sull’Aventino, per anticipare un termine che sarà reso famoso dai Romani.
Così gli spartani assunsero il comando sia delle truppe di terra con Pausania, sia delle forze di mare con Leotichide. Fortunatamente i dissidi tra gli Alleati durarono pochi giorni. A Platea nell’agosto del 479 a.C., approfittando della convinzione sbagliata di Mardonio, che credeva che i greci si stessero ritirando, unità spartane e ateniesi lo aggredirono, uccidendolo. Alla morte del loro comandante i fanti fuggirono scompostamente e la battaglia si concluse rapidamente.
Praticamente negli stessi giorni gli alleati bruciarono le residue navi persiane nel mare sotto il Monte di Micale nell’Egeo.
Gli Ateniesi non deposero le armi. Nei tre anni successivi in Europa, nelle isole del Mar Egeo, sulle sponde dell’asia minore non rimase un solo soldato persiano.
EZIO CALDERAI (CONTINUA)