SILVIO, TI RICORDI…

di NICOLA  R. PORRO  ♦

Con Silvio Serangeli ci eravamo conosciuti al Liceo. Lui nella sezione B, quella solo maschile, ubicata a Via dei Bastioni; io nella A, la classe mista. Le ragazze in esilio nella remota Via Matteini. Altri tempi.  La nostra innocua rivoluzione si materializzò nel tentativo di dar vita a un giornalino studentesco, la Tarantola,emancipato dalla vecchia, insipida goliardia ma condannato, per ragioni legali, a cambiare denominazione a ogni numero. Ettore Falzetti presidiava il ruolo strategico di presidente del comitato studentesco, altri amici davano una mano rubando qualche ora alla preparazione della maturità. Silvio non era votato al protagonismo, però c’era sempre. Il mentore votato ad assecondare le nostre buone intenzioni e a ispirare le buone letture di cui avevamo bisogno era soprattutto Andrea Barbaranelli, un intellettuale di razza che ci introdusse alla scoperta del teatro e alla pratica del dialogo. Facevamo ingresso all’università quando nacque il Piccolo Teatro: ci buttammo nella mischia provando ad animare in qualche modo la povera scena culturale cittadina. Non senza qualche provocazione: Brecht o Majakovskiy erano figure sconosciute, ma bastavano quei nomi impronunciabili a mettere all’erta i cultori di Pitigrilli. Allargammo il raggio d’azione: promuovemmo i primi cineforum, ci scambiavamo qualche libro, Andrea organizzava domestiche “letture a tema”. Non era ancora il vento del ’68, ma qualche brezza si stava levando. Nei giorni del Vietnam scoprimmo Aristofane: mettemmo in scena La Pace e assaporammo l’attualità di una cultura classica ben più stimolante delle declinazioni dell’aoristo apprese al Liceo.

I nostri anni universitari, da studenti di facoltà umanistiche in permanente stato di mobilitazione, furono segnati dalla politica: il Vietnam, il Maggio francese, don Milani e la Scuola di Barbiana, l’idea che “ribellarsi è giusto”.  La convinzione un po’ naif, non priva di una salubre punta di arroganza, di stare “dalla parte giusta”. Un percorso comune e Silvio c’era, come sempre, senza remore o ambiguità, pur non essendo lui, per temperamento, un barricadero

All’epoca i giovani maschi erano ancora sottoposti all’anacronistico rito di iniziazione all’età adulta rappresentato dal servizio militare. Imperscrutabili ragioni fecero sì che, nel giugno 1972, Silvio ed io ci ritrovassimo commilitoni nell’84° reggimento di Fanteria al Car di Siena. Condividere un’esperienza in scarsa sintonia con le nostre sensibilità ci aiutò non poco. Ce la cavammo, ci facemmo nuovi amici, attingemmo all’arma formidabile dell’ironia per descrivere quel piccolo mondo estraneo. Appioppammo a ciascuno un soprannome irriverente, la sera commentavamo i fatti più ridicoli della giornata, qualche volta esploravamo le bettole odorose di ribollita nei vicoli attorno a Piazza del Campo. Poi le nostre strade si divisero: a me toccò traslocare a Legnago, fra le nebbie dell’Adige a costruire ponti di barche. Con Silvio rimanemmo in contatto epistolare. Alla fine dell’estate del 1973 ci ritrovammo dalle nostre parti finalmente militassolti

Dopo il Piccolo Teatro era iniziata l’avventura delle radio libere che avrebbe più avanti gemmato una costellazione di emittenti tv locali unica in Europa fra cui la nostra Telecivitavecchia. Alla stagnante politica locale si opponeva la vivacità della Camera del Lavoro che aveva trovato una leadership carismatica in Fabrizio Barbaranelli. Ci tuffammo nell’esperienza sindacale senza rinunciare alle nostre velleità culturali. Silvio era lontano: insegnava in una cittadina del Veneto. Ci saremmo ritrovati dopo alcuni anni quando fece ritorno, felicemente accasato e deciso a rientrare in partita. 

Lo catturammo subito per la neonata Telecivitavecchia. In capo a pochi mesi ne sarebbe diventato una colonna portante. Osservatore disincantato del nostro “vissuto collettivo”, si rivelò un intrattenitore nato. Le sue chiacchierate in studio con i più diversi interlocutori diventarono presto un appuntamento fisso per un pubblico a suo modo fidelizzato

Nacque una piccola e un po’ bizzarra comunità. In redazione, sul più bello, faceva irruzione il vocione del mio condirettore Pino Grasso esortandoci a inventare, in una serata povera di notizie, un c… di qualcosa che incuriosisse gli spettatori e magari li facesse litigare. Rita Busato era la voce professionale dei nostri tiggì. Un nocchiero come Giampiero Romiti garantiva la pagina sportiva. Maurizio Campogiani gestiva la regia della baracca. Maurizio Colaiacomo, Nando Mori e altri volontari assicuravano la gestione quotidiana dei programmi. Avevamo uno staff tecnico all’altezza. Silvio cominciava a sperimentare una personale strategia comunicativa. I suoi servizi erano “sempre sul pezzo”: anche la cronaca minuta bastava a suggerirgli una riflessione, un’idea da rilanciare. Coltivava questo talento alternando brucianti interviste a personaggi e testimoni della cronaca locale (e non solo) a gustose divagazioni sul tema. Faceva audience alla sua maniera come un maestro dell’undestatement. Allo “strillo” preferiva l’argomentazione e una narrazione del quotidiano che con discrezione illuminasse anche il dimenticato, il “non detto”. Amava frugare fra le memorie dei suoi interlocutori per recuperare una più vasta e coerente memoria collettiva. I fatti, sosteneva, non andavano drammatizzati. Bastava raccontarli, magari concedendosi a commento una battuta impertinente che spiazzava la prosopopea debordante di qualche trombone. Era garbato ma non faceva sconti, gli era estraneo il servilismo strisciante che accompagna spesso le interviste all’“ospite d’onore”. Preferiva dar voce a cittadini desiderosi di denunciare un problema, un torto, una preoccupazione. 

Non so se lo ritenne un complimento, però una volta gli dissi che possedeva l’occhio sociologico. Intendevo l’attitudine a captare l’evento, l’episodio, il personaggio che ti fanno ripensare ciò che ci sembra scontato, prevedibile, acquisito. Tante piccole (o meno piccole) denunce hanno trovato voce con le interviste di Silvio: passo passo era diventato una specie di difensore civico. La “nostra” Telecivitavecchia, insomma, faceva quello che gli studiosi di comunicazione chiamano agenda setting: scovare il caso, evidenziarlo, renderlo noto, aprire la discussione. Non è solo una strategia giornalistica: è informazione a servizio della democrazia.

Silvio era diventato popolare senza pretendere contropartite, remunerazioni, candidature. Gli bastava dare voce a chi non ha voce. Nemmeno amava vestire i panni del fustigatore di costumi: da buon professore preferiva suscitare interesse, stimolare curiosità, insinuare il socratico dubbio maieutico che scuote abitudini e conformismi. 

Lo avremmo ritrovato in prima linea nell’ultima impresa che abbiamo condiviso. Incanutiti ma non domi, con gli amici di sempre e le nuove leve. Era nato spaziolibero, il blog che ospita queste righe. Quel luogo dove “scambiare opinioni” che per noi avrebbe (anche) rappresentato l’approdo di un itinerario generazionale. 

Non so immaginare se – dopo Silvio, senza Silvio – ce ne saranno altre, di sfide da raccogliere. So solo che, se fosse accaduto, ci saremmo ritrovati. Non ci saremmo tirati indietro, come sempre: e insieme avremmo fatto “quel che si doveva”. È il pensiero che mi aggredì quel giorno di fine marzo aprendo la nostra chat e scorrendo le prime righe del messaggio con cui Fabrizio ci comunicava “…. la notizia che non avrei mai voluto darvi”…

Sapevamo che Silvio non stava bene. Nessuno però – a cominciare da me – aveva percepito la serietà della situazione. Ci si informava con discrezione, con una punta di pudore. Con gli amici comuni ci si scambiavano al telefono rapidi aggiornamenti. E il protrarsi della malattia, come capita, diventava un placebo emozionale: alimentava l’illusione che… “vedrai, non può succedere, non deve succedere, no”. Anche Silvio no… Dopo Sandro, dopo Maurizio, dopo Ennio, dopo Nando…  ogni volta brandelli di storia comune strappati come carne viva da una memoria condivisa. E poi ritrovarci, noi, gli altri, nella chiesa gremita di S. Gordiano per l’ultimo saluto. La famiglia di Silvio, gli amici smarriti come noi. E tanti sconosciuti che avevano sentito il bisogno di dirgli almeno “grazie”. 

E allora di nuovo “grazie”, Silvio: da me, da tutti noi.

NICOLA R. PORRO

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