I CANTASTORIE TRADITI — COME SI DISTRUGGE IN CINQUANT’ANNI E SPICCI UNA CIVILTÀ COSTRUITA IN TREMILA ANNI.

di EZIO CALDERAI ♦

Capitolo 17:  Poeti, artigiani e artisti. Il Vaso di Eufronio e la scoperta del Teatro. Gli uomini greci.

Chi legge si sarà accorto che la critica letteraria non è il mio mestiere, quindi, meglio abbandonarla per tornare alla cronaca, compito già complesso e velleitario per chi, come chi scrive, s’improvvisa scrittore per innamoramento senile della civiltà greca, che si è perpetuata per millenni.

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Il VI secolo a.C., per usare una metafora musicale, è il preludio sontuoso della sinfonia da tutti attesa nel mondo greco e la cui trama troverà eco nei secoli e nei millenni a venire.

In tutto il mondo conosciuto e in quello al tempo non ancora conosciuto, come dimostreranno le ricerche archeologiche successive, non c’è un popolo che abbia raggiunto il livello di vita e il grado di civiltà di quello greco. Dall’asia minore alle coste del mediterraneo, quasi ad arrivare alle Colonne d’Ercole, passando per l’Italia, la Francia, scavalcando la Sicilia verso sud, la Libia, la lingua che si parla è il greco.

L’espansione, diversamente da quanto accade da che mondo è mondo nelle terre dove convivono popoli diversi, non si realizza con la forza, con le armi, ma grazie alla laboriosità, alla saldezza delle istituzioni, alla cultura ed è la politica a dominare la vita di uomini liberi, anche se dobbiamo accettare che la cultura del tempo ricorresse alla schiavitù e relegasse le donne a ruoli subalterni.

La politica è il perno intorno al quale ruota il funzionamento della polis, dal selciato stradale ai rapporti tra le città-stato, dai contatti con le colonie alla sorveglianza di popoli e imperi considerati ostili all’intraprendenza e al modello di vita dei cittadini della polis.

Non che in precedenza nelle poleis la politica non ci fosse, solo che era acerba, incerta sulla sua stessa latitudine. Ancora non si era pervenuti alla concezione della politica come scienza in sé, indipendentemente dalle applicazioni pratiche.

Con lo sviluppo delle città, con l’aumento dei traffici, con la partecipazione crescente di strati sociali anche modesti alle ricchezze generate da un benessere sempre più diffuso, una civiltà giovane si pone il problema non della conservazione, ma dell’espansione, del miglioramento delle condizioni di vita, materiali e morali, dei suoi figli.

Si giunge così alla convinzione che scopo della politica non sia favorire un gruppo piuttosto che un altro all’interno della stessa comunità, ma di raccogliere il massimo delle energie, di convogliarle per conseguire il bene comune, per garantire il futuro alla comunità stessa.

Se poi il sistema è democratico, è solo il consenso a contare, perché genera continuità nell’esercizio del potere e con esso la possibilità di attuare la visione che si ha di una città, di uno Stato, del suo destino nel mondo.

I politici del VI secolo, in tutta la Grecia, ma principalmente ad Atene, hanno obiettivi a lungo termine. Una volta giunti al potere non si lasciano lusingare dalle simpatie, dall’opportunismo, la demagogia viene rifuggita come la peste, pensano che le città debbano avere regole certe, adatte ai tempi, sistemi di difesa efficienti, navi sempre più sicure per dominare i commerci.

Certo, si può anche perpetuare il potere per accumulare ricchezze, ottenere privilegi personali e familiari, onori immeritati ed effimeri, è successo da che mondo è mondo. Atene che prima di ogni altra comunità organizzata sperimenta la democrazia è fortunata: nei cento anni che precedono le guerre persiane ha avuto governanti di straordinaria levatura, tutti accumunati dalla visione del destino della più straordinaria città realizzata dall’uomo nel primo millennio a.C., quattrocento anni prima della Roma di Augusto, che, però, al tempo non era una città, ma la capitale di un impero.

Persino uomini per i quali il potere era una droga, come Pisistrato, protagonista di imbrogli inenarrabili per impadronirsene, fino ad arrivare a sospendere la democrazia per instaurare la tirannide, fu un governante avveduto, saggio, capace, difensore degli interessi della città e delle leggi introdotte da Solone. Commise un solo imperdonabile errore, pensare che il potere della tirannide si potesse trasmettere per via ereditaria. Un disegno destinato a fallire.

Quando ce ne sarà bisogno ad Atene la democrazia porterà al potere gli uomini migliori.

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Il V secolo a.C. è il tempo della stabilità, della continuità, della sicurezza, della specializzazione.

Si vive meglio di quanto l’uomo avesse mai fatto in precedenza e il miglioramento raggiunge tutti gli strati della popolazione, il lavoro non manca, gli artigiani diventano sempre più bravi e a volte non si riesce a distinguerli dagli artisti. « »

Si pensi ai lavori in ceramica, in Grecia già nel IX secolo sono di eccellenza assoluta, ma nei secoli successivi saranno esportati in tutto il mondo antico come «preziosi» alla pari dei gioielli in oro. Tutti abbiamo visto in giro per i musei i vasi dipinti con figure rosse o nere e siamo rimasti rapiti dalla perfezione della tecnica e dalla bellezza delle scene, che raffigurano gli eroi omerici e i protagonisti dei miti, a volte la vita di tutti i giorni.

A Cerveteri siamo stati decine di volte e spesso abbiamo visitato la Necropoli, probabilmente abbiamo camminato sopra il vaso, meglio dire Cratere, di Eufronio, il più straordinario, insieme a quello detto di François, trovato nella Necropoli di Chiusi, mai scoperto in Italia nelle innumerevoli campagne di scavo.

Il Cratere ha avuto una storia rocambolesca, che, caso più unico che raro, può essere ricostruita nei particolari. Venne modellato nella bottega del più grande vasaio di Atene alla fine del V secolo e dipinto da un pittore celeberrimo, Eufronio appunto. Arrivato in Italia almeno 25 secoli fa, ha ornato la casa di un nobile etrusco, che non se ne è voluto separare neppure con la morte.

Il cratere e l’etrusco che tanto l’amava hanno riposato insieme per 25 secoli, fino a quando intorno al 1960 i tombaroli di Cerveteri lo riportarono alla luce, interrompendo la sacra simbiosi.

Capirono di aver fatto il colpo della vita. Le leggende metropolitane narrano che ricevettero un compenso di 100 milioni di lire, non pochi soldi all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso. Nulla rispetto ai guadagni dei mercanti d’arte che avevano pilotato il trafugamento.

Il Cratere non l’aveva visto nessuno, tranne ovviamente i tombaroli protagonisti dell’impresa.

Ricomparve negli anni ’70 al Metropolitan Museum di New York. Nel frattempo, i Carabinieri del Nucleo per il recupero delle opere d’arte avevano avviato le indagini, riuscendo a riportarlo in Italia nel 2008, anche perché i tombaroli si erano vantati dell’impresa in mezza Europa. Quindi, questa ineguagliabile opera d’arte ha attraversato il mediterraneo, poi l’atlantico avanti e indietro e per una seconda volta il mediterraneo. Purtroppo, non ha trovato ad aspettarlo l’Etrusco che tanto l’amava.

Il cratere ha altre stupefacenti caratteristiche. Presenta due scene, su un lato la morte di Sarpedonte, figlio di Zeus, raccolto per le onoranze funebri da Sonno e Morte vicini a due lanceri alati, sull’altro, guerrieri ateniesi che si preparano per la battaglia.

Ebbene, non solo il cratere reca la firma del vasaio e del pittore, ma, come in una didascalia, sono riportati i nomi dei protagonisti della scena.

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Non solo vasi, crateri, ceramiche, il V secolo è un’esplosione di attività, iniziative, di progresso senza pari della cultura. Naturalmente Atene fa storia a sé. I bambini a sette anni vanno a scuola, la loro formazione passa dalla logica alla danza, dalla musica all’addestramento fisico.

La scuola non è pubblica, ma la polis paga per i figli dei caduti in battaglia.

Non mancano storie, purtroppo frammenti, sulla pratica delle arti e addirittura sulla progressione nella composizione delle opere d’arte, i nomi degli architetti, dei pittori, degli scultori che vi figurano sono innumerevoli e compaiono anche negli steli funerari con l’indicazione della professione, nei frammenti che li criticano o li esaltano. Purtroppo, nulla si sa delle loro opere, ma la prova del loro passaggio in questo mondo è testimoniata dallo splendore di Atene.

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I cantastorie faranno la loro parte e sarà una parte straordinaria. Come al solito.

Fino a quel momento si erano esibiti nelle piazze e negli slarghi alle periferie delle città, ma piazze e slarghi non bastano più. Il cantastorie capisce che gli spettatori vogliono più movimento, più vivacità ed allora comincia a interpretare più parti, secondo le scene cambia i costumi. C’è bisogno di un posto più comodo per il cantastorie e per gli spettatori. Da lì a passare a spettacoli con diversi attori è un attimo e non ci vuole niente per capire che gli spettatori non solo debbono stare comodi, ma debbono sentire e vedere bene, anche se distanti.

Non so chi sia stato l’architetto che per primo ha concepito quel posto mirabile dove la voce rimane e si amplifica, dove gli spettatori stanno comodamente seduti, avendo sotto di sé l’orchestra, quel che noi chiamiamo palcoscenico, ma tutti vedono perfettamente lo spettacolo perché siedono su gradinate.

Il nome di quell’Architetto non lo conosciamo, ma è sicuro che fosse un genio, tra i più grandi che il genere umano abbia mai avuto: ha inventato il teatro.

Già, perché mai come in questa occasione l’organo ha creato la funzione.

In poco tempo i teatri spuntano come funghi in tutta la Grecia e nelle colonie, si pensi al capolavoro del teatro di Siracusa, usato ancora ai nostri giorni.

Gli autori, epigoni di Tespi e del suo carro leggendario, stipato di costumi, maschere, attrezzi di scena, si scatenano, scrivono e rappresentano tragedie, commedie, delle quali non c’è rimasto nulla, ma annunciano gli autori sublimi che stanno per calcare le scene teatrali ad Atene.

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Tre uomini caratterizzano il secolo ed essi non solo hanno lasciato un segno indelebile nella storia dell’uomo, ma ci sono familiari ancora dopo 25 secoli: Solone, Pitagora e Pindaro.

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Solone ancora oggi lo conoscono tutti, anche chi con il mondo della Grecia antica non ha consuetudine. Quando, ammiriamo o sparliamo di qualcuno che si è messo in mostra per la sua cultura e per le sue capacità diciamo che è un Solone, in senso elogiativo o con ironia, a seconda dei casi.

Il nostro Solone colto lo era per davvero e sarà tra le figure determinanti dell’ascesa di Atene.

Nasce intorno al 638 a.C. da una famiglia nobile e ricca, in grado di dargli un’educazione che pochi altri al tempo potevano permettersi.

Ancora adolescente dimostra un talento fuori del comune per la poesia, frequenta e parla con i filosofi, ma, con qualche sorpresa, le sue prime esperienze sono nel campo mercantile. Fonti del tempo, non controllabili, raccontano che la sua famiglia aveva perduto le proprie ricchezze a causa della generosità del padre, facile alla beneficienza, ai limiti della dissipazione.

Solone non si perde d’animo, comincia a viaggiare e si rivela un ottimo mercante. Uomo versatile come pochi sa cogliere le occasioni. I viaggi, la conoscenza di altri popoli, di altre città gli daranno un bagaglio invidiabile di conoscenza ed esperienza. La vivacità del commercio sarà per lui una palestra straordinaria per quando deciderà di dedicarsi alla vita pubblica e alla politica.

Quando si affaccia al V secolo è già famoso e circondato da stima universale ad Atene.

Si mise in evidenza per la battaglia, prima politica e poi sul campo, che fece per riguadagnare ad Atene l’isola di Salamina a lui particolarmente cara. L’isola per secoli era stata contesa tra Atene e Megara, e all’alba del V secolo era nelle mani dei megaresi. Gli ateniesi non volevano saperne di riprendersela, avevano promulgato addirittura una legge per impedire che qualcuno ci provasse.

Il talento oratorio riuscì a cambiare quell’orientamento e Solone con una astuzia diabolica, rivelandosi così abilissimo stratega, si riprese Salamina senza colpo ferire.

Solone viene nominato Arconte con il compito di scrivere le leggi di Atene. Un legislatore compare in Grecia per la prima volta. Per la verità ce n’era stato un altro, Licurgo, cui viene attribuito il più astruso e complicato ordinamento di tutti i tempi, quello che reggeva la città di Sparta.

Quell’illustre antenato, però, non sembra reale, ma piuttosto una figura mitica; non si riesce neppure a stabilire quando sia nato e abbia operato, comunque, tra il XII e il IX secolo a.C. Si favoleggia dei suoi mirabolanti viaggi in tutto il mondo conosciuto e oltre, insomma uno dei tanti meravigliosi miti greci, favorito forse dagli spartani, che volevano dare un’ascendenza nobile al proprio inguardabile ordinamento.

Solone, invece, è reale e di straordinarie capacità, qualcuno addirittura sostiene che le sue leggi erano scritti in versi.

Davvero non è possibile fare un quadro, sia pure sommario, della straordinaria novità dell’opera legislativa di Solone. Le leggi concepite come motore di sviluppo della polis, privilegiando il mondo produttivo, noi diremmo la classe media, rispetto alle oligarchie parassitarie; come raccordo tra le varie categorie di cittadini; come occasione per eliminare regole arcaiche ripugnanti (si pensi alla abolizione della sanzione di riduzione in schiavitù del cittadino che non era riuscito a pagare il proprio debito); come semplificazione istituzionale e amministrativa.

Gli ateniesi offrirono a Solone la carica, per farmi capire, di Arconte unico e a vita, ma egli rifiutò[1], anzi disse che avrebbe fatto un lungo viaggio e sarebbe tornato dopo dieci anni per verificare se il suo sistema avesse tenuto, lasciando intendere che nessun ordinamento può e deve essere considerato eterno. Lo stesso principio che fecero proprio i padri della costituzione americana, esattamente il contrario di quello che succede da noi, che pretendiamo di ingessare, in una costituzione eterna, peraltro osservata secondo le convenienze, le generazioni future.

[1]  «(…)Avrei voluto altrimenti dominare, acquistare immensa ricchezza, anche in un sol giorno d’Atene esser tiranno e poi esser scuoiato e che la mia schiatta fosse distrutta» (Plutarco, Solone, 14.9)

Forse è opportuno aggiungere che Solone guidò la politica ateniese e introdusse le sue riforme con polso fermo, mai con autoritarismo, sempre con autorevolezza.

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Il mio primo incontro con Pitagora risale a quando avevo 5 anni e 2 mesi, in prima elementare.

La maestra, mostrandoci le tabelline dei numeri, ci parlò di tavole pitagoriche, aggiungendo che erano state inventate da un grande filosofo dell’antica Grecia.

Un piccolo errore, ma io ne ero innamorato, mi sembrava più bella della Beatrice di Dante e quando parlava la seguivo a bocca aperta. Più tardi mi resi conto che, evocando il filosofo di Samo, mi aveva schiuso un universo.

Pitagora nasce nell’isola di Samo tra il 580 e il 570 a.C. e muore all’alba del V secolo a Metaponto in Italia. Di lui non resta un frammento, una riga, ma non è escluso che fosse una sua scelta precisa, quella cioè di trasmettere le proprie conoscenze solo oralmente pur avendo coltivato tutte le discipline dello scibile umano, dalla matematica alla geometria – inventerà un teorema portentoso – dalla astronomia alla cosmologia, con idee che sembrano anticipare Galileo e Keplero, dalla filosofia alla pratica alimentare. Di lui sappiamo solo grazie all’enorme dibattito che aveva suscitato già tra i contemporanei.

Un genio, semplicemente un genio, il cui pensiero influenza lo sviluppo della scienza occidentale[2], nessuno prima di lui aveva intuito l’importanza della matematica per descrivere il mondo, nessuno aveva intuito la relazione tra matematica e musica.

[2] «Non so di nessun altro uomo che abbia avuto altrettanta influenza nella sfera del pensiero. […] Ciò che appare come il platonismo, si trova già, analizzandolo, nell’essenza del pitagorismo. L’intera concezione di un mondo eterno rivelato all’intelletto, ma non ai sensi, deriva da lui. Se non fosse per lui, i Cristiani non avrebbero pensato a Cristo come al Verbo; se non fosse per lui i teologi non avrebbero cercato prove logiche di Dio e dell’immortalità. Ma in lui tutto ciò è ancora implicito.” Bertrand Russel

La sua filosofia fu assolutamente originale. Per la prima volta l’animo umano diventa oggetto di indagine. Pitagora parla di metempsicosi, quindi di immortalità dell’anima.

Come tutti i geni fu uomo controverso. Numerosi sono i suoi detrattori, che addirittura l’accusano di pratiche esoteriche e taumaturgiche, ma di essi faranno giustizia Platone e Isocrate tra gli uomini più eminenti del IV secolo, e i moderni, tra cui Bertrand Russel, appena citato in nota.

Non sappiamo, tuttavia, se proprio a causa di questa malevola ostilità, lasciò la Grecia per trasferirsi in Italia, dove a Crotone fondò una Scuola multidisciplinare, prima e unica al tempo, attirando moltissimi discepoli provenienti da tutto il mondo greco.

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Con la mia maestra ho un altro debito, che non potrei estinguere campassi mille anni.

Ero in terza o in quarta elementare ed io ero sempre innamorato. Un giorno, dopo aver letto un mio pensierino, così allora si chiamavano i nostri piccoli componimenti, mi disse: “Bravo Ezio, non ci sono errori e mi è piaciuto molto, però, a volte fai troppi voli pindarici”.

Rosso come un peperone, quel complimento mi sembrò una promessa di fidanzamento, ma cos’erano i “voli pindarici”? La mia dolce fidanzata in pectore me lo spiegò, con gli occhi che le brillavano: “E’ uno dei tanti modi per definire la poesia di Pindaro. Quando sarai più grande capirai, sono passati 25 secoli ed io ne sono sempre innamorata”.

In quel momento la mia cultura s’arricchì, ma io avevo perduto il primo amore. Capii molti, ma molti anni dopo che non si poteva rivaleggiare con Pindaro.

Quel modo di dire, “voli pindarici”, per me fu lo spazio di un mattino, quello che separa la nascita dalla fine di un amore, per chi vivrà nei millenni successivi la strada più breve per dare a una persona dell’inconcludente, del disordinato, del fantasioso, del sognatore, a seconda dei casi.

Nella realtà i “voli pindarici” sono una delle innumerevoli modalità espressive di un genio, lo stigma della sua originalità. Pindaro non confonde gli argomenti, non perde il filo, spazia nell’universo tra realtà e mito, ma giunge alla conclusione che aveva chiara fin dall’inizio: il destino degli uomini.

Pindaro viene considerato il più grande poeta lirico dell’antica Grecia, come a dire di tutti i tempi, ma sappiamo quanto queste graduatorie siano prive di senso e improbabili. Tra Pindaro e Saffo, ad esempio, c’è un’unica differenza percepibile: della sublime poetessa di Lesbo sono rimasti pochi frammenti, di Pindaro ci è stata trasmessa quasi l’intera opera.

Di famiglia nobile e più che benestante nasce a Cinoscefale un villaggio vicino Tebe in Beozia. Di lui, fatto più unico che raro, sappiamo l’anno ed il mese precisi della nascita, Agosto 518 a.C.; è il poeta stesso a vantarsene, in un suo carme scrive di essere nato al tempo della 65a Olimpiade.

Un segno del destino, poiché nessuno come Pindaro celebrerà i vincitori delle olimpiadi e di molti altri giochi che si svolgevano in Grecia. Alle Olimpiadi dell’antica Grecia non ho dedicato una riga, accade ora rievocando Pindaro, perché il poeta di Tebe, al di là della civiltà di un’istituzione durata quasi 1200 anni, dal 776 a.C. al 393 d.C., ne è il cantore inimitabile.

I giochi si svolgevano di regola ogni quattro anni, sempre ad Olimpia, e per tutta la durata erano sospesi i conflitti tra le città greche. Ad essi partecipavano solo i cittadini liberi e da un certo periodo in poi anche le donne, che si sfidavano in una gara di corsa; in realtà, dovendo gareggiare gli atleti completamente nudi, alla corsa partecipavano solo le spartane, che fin da piccole venivano addestrate all’attività fisica, insieme ai maschietti, in costume adamitico, caldo o freddo che fosse.

Inizialmente c’era una sola gara di corsa, man mano si aggiunsero altre discipline.

L’anno scorso, vedendo le olimpiadi di Tokio, spesso e volentieri toglievo l’audio. Infatti, non solo i commentatori erano insopportabilmente noiosi, ma erano animati da un nazionalismo rivoltante e volgare. Così, riflettevo, oggi i partiti politici, a corto d’idee, si combattono a colpi d’insulti, e quelli più sanguinosi sono: populista, sovranista, nazionalista. Come ha potuto sopportare, allora, un paese come il nostro, che se ne dichiara esente, di celebrare un’orgia di populismo e nazionalismo?

Che differenza con Pindaro, che celebrava il vincitore, il suo valore da qualunque contrada venisse!

Non solo contese tra atleti, Pindaro è il poeta dell’integrità, di rare qualità morali, all’instancabile ricerca della ‘areté’, la virtù. Viene da molti rimproverato di volgere il suo intelletto e la sua ispirazione al passato, di ostilità alle nuove idee che si stavano facendo strada nell’Atene del V secolo, ma specularmente si potrebbe sostenere che aveva visto più lontano di altri intellettuali, che non avevano visto dietro il massimo splendore di Atene, il baratro del declino e la perdita della libertà.

Pindaro, dopo aver girato tutta la Grecia e la Sicilia ellenica, morì nel 438 a.C. ad Argo.

EZIO CALDERAI                                                                     (CONTINUA)

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