Quando la musa di Patrizia Cavalli si amusava..
di CATERINA VALCHERA ♦
Il titolo gioca con una poesia tratta da In questa grande confusione che fa parte della raccolta Vita meravigliosa, l’ultima della grande poeta tudertina scomparsa il 21 giugno dello scorso anno, alla quale desidero fare un tardivo omaggio, per onorarla ricordando le sue battute fulminanti in rima, i suoi epigrammi moderni, i suoi amori più o meno detti e dicibili, la sua musica. Ecco l’originale, senza titolo come quasi tutte le poesie di Patrizia Cavalli: Dovrò dare una paghetta alla mia musa,/ perché non smetta mai di amusarmi./Se non mi amusa più che scusa trovo/per le mie commediole e pei miei drammi? Basterebbe questa quartina di endecasillabi perfetti, classicamente costruiti, compreso il primo che è ipermetro, come sintesi della poetica di quella che oggi è considerata una delle voci più rappresentative della lirica italiana del secondo Novecento: lezione degli antichi e ritmica tradizionale si intrecciano con la concezione dionisiaca dell’arte poetica, in un gioco intellettuale che qui è risolto nel neologismo francesizzante e poi magicamente alleggerito dalla cantabilità dell’ultimo verso, dove commediole e drammi fanno cozzare registro alto e basso, tingendo il tutto di autoironia. E io ancora una volta provo il suo stesso amore fanatico e superstizioso, fatto di ammirazione, rispetto e fiducia per le parole, le SUE parole. Sono una dei suoi innumerevoli fan. La produzione di Patrizia Cavalli (che solo la critica più snobistica e “novecentista” può pensare di ridurre alla poetica dello scetticismo e dell’ironismo) sapeva mobilitare un pubblico vasto e trasversale, che correva all’Auditorium o ai teatri romani come si corre a uno spettacolo, a un evento musicale, per ascoltarla, per assistere alle sue performances. Queste avvenivano negli ultimi tempi quasi malgrado lei, che forse non voleva essere così popolare e che invece- come accadde a Baudelaire- era diventate una vera icona. Non amava le comparsate mediatiche e non apprezzava di certo la strategia editoriale della crestomazia, come chiarì in un’intervista: «Per far leggere poesia oggi si ricorre all’Antologia, un’offerta speciale dove hai una cinquantina di poeti al prezzo di uno. Basta il possesso, non bisogna mica leggerla. Come per i festival dove basta l’ascolto. In entrambi i casi, se non sono già lettori, non lo diventeranno.» Quanta consapevolezza. Ma di ironia non voleva sentir parlare, almeno non nell’accezione comune, poiché la riteneva un’attitudine di frigido distacco, dove si sa già tutto in anticipo. Frequentissima, anzi vera chiave di volta della sua scrittura, è invece l’autoironia: Che mi si prenda in uso non mi offendo/, mi sembra anzi un vero privilegio/essere usata essendoci di meglio. (in Settembre). Alla sua scrittura si adatta piuttosto la definizione di gioco, di recita, di “sempre aperto teatro” che è il titolo di una delle sue raccolte di versi. La loro apparente facilitas, non ingannò Elsa Morante (che nei primi anni ’70 andava subendo le critiche alla sua Storia da parte di una certa scuola storiografica), vera talent scout quando sentenziò: “Sono felice, Patrizia. Sei una poeta”, e le regalò il bellissimo titolo della prima silloge, quella del 1974: Le mie poesie non cambieranno il mondo. No, non lo avrebbero cambiato, ma sicuramente l’avrebbero reso più agréable, più commestibile, meno sconsolante e degno di interesse. Il sodalizio tra le due scrittrici fu saldo e insieme tumultuoso: Patrizia sapeva di godere di un posto privilegiato nella vita di Elsa, una volta ammessa nel suo Paradiso, in quel giardino delle delizie che poi riconfigura in versi apparentemente scherzosi. Elsa ogni tanto ci portava in paradiso./ E a chi chiedeva: ”A me mi porti?” “No”,/lei subito decisa, “Non c’entri tu.[..]/ “Patrizia ce la porti?“ E Elsa :”Sì,/ Patrizia può venire in paradiso”/ Ah come mi piaceva questo andare/ facile, sicuro, senza dover competere!/ Però, per non offendere, facevo/la distratta coi respinti. Anche se poi,/ tra discussioni e dubbi, un po’ alla volta/venivano alla fine tutti assunti. [..] La poesia- intitolata Con Elsa in Paradiso- prosegue offrendo un quadretto maliziosamente ammiccante di questo Eden senza neanche mezza schiera di beati i cui piaceri alti lasciavano spesso annoiata lei, la neofita prescelta chissà per quale grazia immeritata/ senza sapere che in realtà ero bella. La conclusione di sapore dantesco (l’eco di Piccarda Donati “non mi ti si celerà l’esser più bella) è il tributo alla bellezza della poesia e di chi la pratica con amore indefesso, scegliendo ogni giorno, ora dopo ora la parola giusta, sottraendo, limando il verso con vigore anche fisico perché- afferma la Cavalli- la poesia si fa con il corpo. Ci vuole una potenza propria del sangue che circola con impeto: […] Non c’è motivo di scrivere. C’è solo un empito[..] Quel che mi piace dello scrivere poesie è arrivare velocemente, in pochi versi, a una specie di colpo di scena che sorprenda anche me. Empito, impeto, colpo di scena. Urgenza e forza fisica, entusiasmo e predilezione per l’aprosdóketon, il finale che non ti aspetti e che spesso è autoironico fino all’autolesionismo, alla cancellazione di quanto il testo poetico ha costruito: il sigillo impresso dal creatore alla sua creatura. Ogni sette anni del suo poietikós bíos Patrizia Cavalli raccoglieva i suoi figli cartacei che aprivano finestre sorprendenti sul mondo, sia su quello privato -dominante-, che su quello degli altri: amori sempre in transito, precari e inconcludenti, amici, gatti e gattare, folli, mendicanti, compagne di viaggi, persone che diventano, grazie alla penna fulminea, personaggi indimenticabili, colti negli interni delle case e accostati agli oggetti più comuni, oppure osservati per le strade intorno a Campo dei Fiori durante le sue flâneuries, per farli entrare a passi felpati nel meraviglioso teatro della vita. Vita meravigliosa fino allo spegnersi delle luci. Quello di Patrizia Cavalli è sguardo folgorante e veloce, morbido e sinuoso come le sue parole, spesso è specchiarsi: un occhio che dietro le lenti (i caratteristici occhiali che sono, insieme alle valigie, una ricorrenza poetica) scruta il mondo con stupore e ne restituisce la recita con entusiasmo, non tanto per bisogno comunicativo, né ancor meno, per la malizia pubblicitaria di chi vuol farsi intendere alla prima lettura (cosa peraltro non così disdicevole). Patrizia scrive per capire, per indagare. La sua poesia -come suggerisce lei stessa- potrebbe definirsi tragicomicodiagnostica: in questo composto l’aggettivo finale, inaspettato, evoca sul piano della realtà corporea le sue patologie, oscillanti tra ipocondria, depressione, cefalea e meteoropatia, ma indica anche lo sforzo di mettere in fila i sintomi del disagio esistenziale, di analizzarli alla luce del vigore speculativo che certo non le manca, anche se lo dissimula per non cadere nella trappola del cerebralismo, della teoresi filosofica. Ciò non legittima però nei suoi confronti il frettoloso giudizio di poeta minimalista; al più è possibile ascriverla alla linea anti-novecentista, quella di Saba, Caproni, Penna, Morante. Una buona compagnia, direi, a meno che non si voglia sostenere ideologicamente che solo la poesia difficile, sperimentale ed ermetica sia degna di esistere, di chiamarsi tale e di offrirsi come verbo a pochi eletti. Nella parola sempre sorprendente della Cavalli, una parola melodiosa e cantabile (riprendendo Verlaine anche lei intende “torcere il collo all’eloquenza) domina Eros : amore non come condizione, ma come persona che di volta in volta lo incarna in diversi modi, con gesti sempre nuovi accompagnati dagli oggetti mitico-simbolici del vissuto. Un amore in genere paradossale o contrastato: Ti odio perché non ti amo più, / perché non posso perdonarti/ di non riuscire più ad amarti ( in Il Cielo). Un amore che, in un voluto contro-canto catulliano, così esprime: Cerco l’amore e mi tormento sempre,/ ma non voglio l’amore veramente./ Cerco l’amore e non mi tormento affatto,/ non verrà mai il cuore mio sopraffatto. Cerco l’amore per essere punita,/ così in anticipo vinco la partita. Eros, come nella scrittura di Philip Roth, sembra volere essere la vendetta contro la morte, quella morte preannunciata dalla lunga, estenuante malattia, verso la quale la Cavalli si volge con il consueto stupore, scegliendo un asse metaforico tradizionalmente femminile, ma anche evocativo del sublime, del mitico “lavoro” delle Parche. E me ne devo andare via così?/ Non che mi aspetti il disegno compiuto/ ciò che si vede alla fine del ricamo/ quando si rompe con i denti il filo/ dopo averlo su se stesso ricucito/ perché non possa più sfilarsi se tirato./ Ma quel che ho visto si è tutto cancellato./ E quasi non avevo cominciato. Ultimo gesto di lotta contro la tortura del tempo lineare, quello che era il suo nemico, che aveva cercato di confondere per ostacolarlo, senza riuscire però né a vincerlo né a ignorarlo….
CATERINA VALCHERA
Sognatrice di parole perché sognatrice è la poetessa. Una Reverie fantastica mi riporta a quegli anni vissuti a Roma, Campo dei Fiori, via Giubbonari, la Storia di Elsa Morante, fondamentale, e so che la casa di Patrizia era un via vai di grandi persone. Grazie Caterina, per aver fatto conoscere la Sua poesia!
Libera la mente!, ❤️
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Mi donò “Sempre aperto Teatro” anni e anni fa una mia collega, prof di Matematica e Fisica del Galilei , sede di SantaMarinella.Ricordo che lo lessi con grande e soddisfatta curiosità ed ora…lo rileggo!
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