“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – LA FERRARI ARRUGGINITA
di MICHELE CAPITANI ♦
«Tu sei zingaro, perché parli con tuti i zingari!», e io, a sentirmi così definire, provo un inedito e divertito orgoglio; però insieme a me è venuta Valentina, e dopo ci raggiungerà Mario: questo per dire che non sono l’unico non-nomade, “diversamente rom”, che è presente stasera.
Ci troviamo in un’inverosimile situazione: in pieno centro storico, ma dentro un ex-carcere abbandonato, abitato da qualche tempo da una decina di persone, dopo lo sgombero delle loro baracche da un fosso di periferia.
«Non sono mai andato in galera in vita mia, e ci devo andare mo’ per abitarci…» commenta amaramente Viktor.
Io invece provo una specie di invisibilità: frequento questo quartiere da trentacinque anni, ma non avevo mai veduto le vie e i palazzi da questa angolazione: è come volare, non so, è come trovarmi nella mia consueta città, però vederla rimescolata.
Stasera si festeggia il battesimo del bimbo di Viktor, una specie di salsiccia umana, bellissimo, tanto quanto ne sono contenti e fieri i genitori. La tavola è allungata nel corridoio (che era dell’appartamento del direttore del carcere); c’è un magnifico cero bianco a capotavola. Ci esortano a più riprese a sederci, ma tergiversiamo perché non ci sono ancora tutti gli invitati; preferiamo chiacchierare con gli altri, anche alcuni che non sono zingari né ci risultava conoscessero i “padroni” di casa (di reclusione). Il cuoco è Fabius, uno di quelli che raccatta metalli in giro, ma a valutare l’aspetto delle pietanze, l’abbondanza e i profumi provenienti dalle cento padelle e casseruole, ha di certo un mestiere di riserva.
Singolare che, trovandoci a casa di rovistatori di cassonetti, il tanfo in verità venga dai cassonetti di fuori…
Intanto mettono musica balcanica, con dei video discretamente tamarri. I parenti arriveranno alle undici, in un battaglione innumerabile, di ogni fascia di età, alcuni dal grugno patibolare e con inquietanti cicatrici, altri rassicuranti e timidi, e bambini silenziosi che si addormentano presto davanti alla tivù.
La cena inizia con la frutta, a proposito di stranezze; le sarmale sono le migliori che si siano mai mangiate. E si finirà ben presto sul ballare. Uno degli adolescenti, dall’espressione fiera, letteralmente rapisce Valentina che potrà ballare solo con lui (previo permesso chiesto sussiegosamente al sottoscritto!).
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Oltre a questi “carcerati” al centro, nella periferia verso la zona industriale vivono poi due altre famiglie rom installate in cadenti prefabbricati a poca distanza da un disastrato stradone; una delle due coppie, Doru e Paula, ha sei bambini, tra uno e undici anni.
Qualcuno ha detto loro che devono andarsene perché quella zona dev’essere ripulita. Ma pulire da cosa? In questa estrema periferia incolta, lontana da tutto e topograficamente accidentata, cosa mai può venire fuori? Inoltre, come sempre: chi si è presentato? Come si sono qualificati? Possibile che qualcuno pensi di andare a sloggiare una famigliola con molti bambini, così, con una parola? Che tesserino esibivano, e che carte hanno mostrato? Doru aggiunge che ultimamente passano spesso polizia e carabinieri, che guardano severi e se ne vanno via; forse potrebbe una frequenza di visite cresciuta per via delle prostitute che hanno iniziato a stazionare proprio nello stradone.
«Ma cosa vogliono sapere? Qui ormai mi conoscono tutti, lo sanno benissimo che non facciamo niente di male».
Per ora, oltre che rassicurarli genericamente e dire che resteremo loro vicino, e raccomandare di farsi esibire qualche carta dai prossimi che si presenteranno, non possiamo fare molto.
Passeremo con loro certe serate struggenti o divertenti, guardando le lucciole (perché solo in periferia si lasciano ammirare) e ascoltando le loro intense e ancestrali canzoni. Finché un giorno Doru e Paula anticiperanno tutto e tutti, carte vere o presunte, e forze dell’ordine, per tornare una volta per sempre nel loro misterioso paese.
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Vi sarete già avveduti che evito i i discorsi generali sulla povertà, sui rimedi, sulle politiche nazionali, perché ciò che conosciamo meglio e di cui ci occupiamo è la polvere delle strade della nostra città. Sicuramente però sappiamo che per risolvere qualcosa si dovrebbero compiere, come minimo, alcuni primi passi, ineludibili.
Il primo è usare la testa, rinunciando alla stupidità: la stupidità di colui che sa solo quello che vede, il cittadino che se un giorno al mercato vede quattro rom invece di due si allarma e protesta sui giornali urlando all’invasione. Poi però rimane con lo sguardo vacuo quando lo informi che in realtà sono diminuiti, perché uno dei campi è stato sgomberato, quindi per quei due in più che ora stanno al mercato, altri dieci sono partiti.
È vero, ci sono difficoltà e differenze culturali da ricomporre, come anche idee inutili da lasciarsi alle spalle, noi e loro. Esempio: Doru e Paula hanno quattro bimbe in età di scuola elementare, così proponiamo loro di iscriverle. Vivendo loro così remoti, ci sono molte difficoltà e lungaggini nell’andarli a prendere (nullatenenti: non hanno neanche una bicicletta). Un paio di noi, che sono insegnanti, si mettono di buzzo buono a smuovere preside colleghi assessori segretarie maestre anche oltre gli orari di lavoro, ottenendo collaborazione, e l’iscrizione per le bimbe e la mensa gratuita, chiedendo materiali e rassicurando gruppi di genitori: una volta in classe le bimbe non cercheranno più metalli nei cassonetti. Una sfilza di rogne che i due eroici affrontano, per poi sapere, dopo un mese di scuola, che tutta la famiglia aveva preso baracca e burattini ed era partita, letteralmente dalla sera alla mattina!
Delusione forte, inutile dirlo… Poi, a mente fredda, abbiamo ragionato, riconoscendo che la scuola non è una priorità per tutti, per quanto ciò sembri assurdo (ma sappiamo, desolatamente, che non lo è nemmeno per molti genitori non-zingari…). Da quel che abbiamo capito, i “nostri” rom sanno che noi abbiamo questa fissazione della scuola, che però a loro non interessa; il timore dei Servizi sociali (spesso gonfiato dai media), la distanza, la povertà, eccetera, sono scuse, sono maniere gentili per risponderci; altrimenti non si spiegherebbe come mai nessuno in questi anni, nemmeno i loro parenti, nemmeno quelli di altri insediamenti, abbia mai iscritto a scuola neppure mezzo figlio. E se pure avessimo compiuto l’impresa di mandarli sui banchi (altrove in Italia ci sono riusciti), siamo consapevoli che forse la loro frequenza forse sarebbe stata altalenante, e interrotta senza troppi complimenti, anche per mesi. Abbiamo un po’ mancato anche noi di rispetto, trascinandoli secondo le nostre priorità, proiettando su di loro certi valori che non sono loro.
La sensazione che mi rimane è di aver offerto un Brunello a un astemio.
Non capiamo, ma anche un nomade non può capire come noi possiamo darci in pasto a strozzini o banche (non sempre c’è differenza) e pagare tasse e stratasse sulla casa, all’infinito, ad mutuo saeculorum.
Non prendetemi per superficiale: ci colpisce questo evitamento della scuola quando avviene qui da noi, sotto i nostri occhi, ma ciò avviene purtroppo in mezzo mondo, ed è solo uno dei problemi, una delle tante questioni che sembrano pratiche ma vanno pensate nella profonda e arcaica diffidenza reciproca, non solo tra italiani e rom, ma tra stanziali e nomadi, diffidenza che ha un’età preistorica, che nacque quando alcuni sapiens si fermarono per coltivare mentre altri proseguirono per il loro cammino… ecco perciò che il forestiero è automaticamente infido, sporco, fintamente povero (e se è ricco lo è alle nostre spalle), mangia i bambini o comunque li rapisce, si ubriaca, maltratta le donne, e ruba. Poi se chi ci ruba gli stipendi, le pensioni, la salute, la vita, è chi ci governa, sarà comunque peggio il nomade, non si sa perché. E se anche non lo fosse, è irregolare, quindi sospetto, e ciò lo rende potenzialmente abile a commettere ogni abominio.
Perché? Perché trovare un nemico fa comodo, per sfogarsi, per convogliare le colpe, per riscuotere successo giornalistico o crescita elettorale, e per far finta che le cose complicate siano semplici, e le soluzioni siano semplicissime, mentre in realtà è tutto complesso, sempre. Non è antropologia da quattro soldi, anzi è storia vecchia: se si mette a nanna il cervello, nasce un mostro nella stanza accanto. Settant’anni fa l’Europa si addormentò, partorendo un incubo che si chiamava porrajmos: semmai, furono gli zingari a essere rapiti in massa: nei lager ne assassinarono mezzo milione.
Siamo consapevoli che un tale discorso mal si adatta alla nostra politica, gridata, scandalistica, facilona; sembra un discorso troppo raffinato e razionale, e quindi poco popolare. Ma bisogna partire da qui…
… per arrivare nel nostro minuscolo di cittadina di provincia.
Con loro si è in un mondo strano, talvolta denso di sospetto (vicendevole), spesso poverissimo, sicuramente marginale, ma noi, prima di tutto, questo sappiamo: che quelli che conosciamo sono poveri cristi che girano con cigolanti carrellini, cercando metalli ai cassonetti, anche la sera, anche la domenica. Non hanno automobili, né rubate né comprate: non ce le hanno e basta. Ah: non rapiscono bambini. E poi ci sono anche meticci, cioè figli di zingari e gagè (non-zingari). C’è insomma da compiere un’azione, per giustizia verso di noi e verso di loro, per iniziare come minimo a vedere i problemi in un occhio realistico: bisogna smitizzare i rom, essi sono uguali a tutti; non è generico buonismo ma è così nel concreto: per esempio litigano fra di loro: la sacralità dell’unione familiare sarà pure forte, ma tra i “nostri” zingari assistiamo a faide, lacerazioni, di una ferocia proprio come tra noi gagè. Abbiamo visto case materialmente devastate da liti familiari, e gente sparire dalla circolazione quando arrivano i fratelli.
Risentimenti incomponibili, come tra i figli dell’uomo, da sempre, accade.
A parte il fatto che i “nostri” manco sembrerebbero zingari: non s’è mai vista una gonna a fiori, e di violini uno solo, per suonarci in centro e tirare a campare, e talvolta per festeggiare tra loro, che stanno in insediamenti irrilevanti, talvolta di due sole persone, e che nemmeno pallidamente si possono definire “campi”.
Bisogna distinguere, insomma.
Una sera accade questo: alcuni di noi volontari vanno ai “piloni”, a trovare tre rom pacifici e sorridenti che vivono in due baracche costruite addossate ai piloni sotto la superstrada. Pochi giorni prima ci si sono installati (come ospiti non invitati e indesiderati) alcuni altri, criminali a detta di tutti, ceffi incisi da cicatrici che nemmeno nei film. Noi andando là quella sera non sappiamo che ci imbatteremo anche in gentaglia simile, e dunque l’atmosfera inizia a scaldarsi: alcuni tra i manigoldi, forse sotto effetto di alcol, cominciano a minacciare i nostri, ma soprattutto le nostre… Siamo penetrati proprio nel covo degli evitati, quelli che gli dài una moneta più per tenerli lontani che per fargli l’elemosina. Siamo aggredibili e derubabili, chiedendoci come sempre perché ci pensiamo troppo tardi, una volta arrivati fin qui, arditi e incoscienti.
La nostra consueta, sconsiderata, audace ingenuità.
Per miracolo riusciamo a svignarcela in auto.
«Allora lo vedi che i rom sono pericolosi!» si dirà comodamente. No, lo erano quelli di quella sera, ma forse che non sono rom le vittime, gli altri poveracci sfollati da quei quattro tagliagole? Va posto come base: qui non interessa chi è rom e chi no, interessa chi è povero e chi no. Chi è vittima, chi è bisognoso.
Vengono prospettate, in alti livelli, soluzioni che sembrerebbero efficaci se solo non dimenticassimo che nella storia, finora, a quanto pare non hanno prodotto nulla. Eppure i politici dallo slogan facile (forse per venire incontro al ridotto utilizzo del comprendonio da parte dell’elettorato) continuano a mostrarsi sicuri dell’efficacia di ciò che urlano.
Boh, sarà. A noi piuttosto sembra che le verità sull’uomo si imparino guardandolo in faccia, e noi vediamo Radu che sempre sorride, lieto anche quando non ha da mangiare, quando con la chitarra fa il buffone per divertire le nipotine; e gente che sopravvive con tecniche stupefacenti, come quelle baracche addossate agli enormi piloni della superstrada, di una solidità e impermeabilità che proprio non diresti.
E vediamo che nessuno di loro ha una macchina rubata. Anzi, quelli che conosciamo noi, se ce l’hanno, l’hanno modificata alla grande: forse hanno un poco esagerato visto che ormai le loro fuoriserie hanno l’aspetto di carrelli di supermercato o passeggini (trovati anch’essi accanto a cassonetti) coi quali girano per raccattare metalli da rivendere ai ferrivecchi. Anche l’iconico e suadente rosso Ferrari l’hanno rivisitato, tingendo la scocca di un bel color ruggine. Mirabile di queste “Ferrari” è anche il motore: si avverte giusto un leggero e quasi piacevole cigolio Un motore eccezionale, chissà che prestazioni! E quanto sborseranno di bollo e assicurazione? Saranno stramiliardari, dunque non c’è altra spiegazione: rubano e rivendono bambini. Certo, impaccati di soldi come sono, potrebbero anche evitare, come fa Fabian, di chiedere qualche euro per le medicine del figlio diabetico.
Strano che nessun bambino sia mai stato rapito nella nostra città; ma se anche mi dimostrassero che tutti i rom nessuno escluso, e in ogni luogo del mondo nessuno escluso, rubano e rapiscono bambini, noi non potremmo dimenticare che Radu ha bisogno di un po’ di metalli da vendere, e Anabela un posto qualsiasi, ma che sia un po’ meglio della stazione, per starci col figlioletto. Chi ruba giudichiamolo, ma chi non ruba magari no.
Comunque, di sicuro non sono intelligenti: spero di non arricchirmi rubando nelle case e rapendo bambini come fanno loro, perché se poi arricchirsi porta a vendere tartarughine di legno al mercato o raccattare metalli dai cassonetti come fanno loro… ben strani furti devono compiere costoro! Furti poco remunerativi perché su obiettivi mirati male, organizzati peggio, e condotti alla sanfasò, visti le grame o nulle refurtive che evidentemente li portano a dover tutti i giorni mettere insieme il pranzo con la cena.
E considerando anche cos’è che intendono per ricchezza: un giorno arriva al Centro per i poveri un simpatico gruppetto: due ragazze, (di quelle con la gonna a fiori), graziose e dagli sguardi furbi, con i due rispettivi figli, di cinque o sei anni. Sono serbi.
«Parlate romanès?»
«Sì!»
Si meravigliano che lo sappiamo, e ci tengono a distinguersi dai romeni. Del resto, non parlano né romeno né serbo, semmai l’italiano, anche discretamente. I figli sono nati qua e là in Europa, e l’ultimo a Roma, dove va a scuola. Infatti vengono da una borgata romana ogni giorno, per vendere oggettini al nostro mercato, e oggi che è sabato si sono portate anche i due bambini più grandi.
Dopo il colloquio e dopo aver rilasciato loro le tessere, vedo che i bimbi non smettono di curiosare in uno scatolone che è stato lasciato qui, con dentro varie carabattole e giocattoli. Le mamme tentano vanamente di tenerli buoni, ma io dico loro di scegliersi un giocattolo a testa. I due rimangono con gli occhi dilatati davanti a quel ben di Dio e a quella concessione: uno prende un’arma di plastica, l’altro un gioco in scatola.
Uscendo nel sole della piazza, uno dei due alza le braccia esultante e urla:
«Siamo ricchiii!!! È una miniera d’oro!!!»
(A me successe mai? Sì, una volta sì, quando da bambini scoprimmo mucchi di “Topolino” in un sottoscala della parrocchia; un tesoro, una sorpresa nel corso normale degli eventi… insomma, anche lì il denaro non c’entrava niente, e ricordo nitidamente che io e il mio amichetto esclamammo «Che vendemmiaaa!»).
E andandosene, le ragazze ci regalano due tartarughine dipinte. La mia la conservo ancora, in macchina.
Insomma, se abitassi in prossimità di un vasto e pericoloso campo rom forse anch’io sarei istintivamente contento quando qualcuno vi appicca il fuoco, ma qui in provincia il loro mondo è ciò che ho scritto: minuscole migrazioni e vita di fortuna.
Scampati a un genocidio, questo sono. Come me, del resto, e come te che leggi, tutti sfiorati dalla linea di sangue che ha colpito, per malattia o incidenti o delinquenza, molti nostri cari. La parola “rom” significa “uomo”: significa che qualcosa che ci unisce lo si trova, e non nelle quisquilie: ognuno di noi è uno scampato a un qualche sterminio, e, come tra il resto degli uomini, anche fra loro trovi i furbi e i laboriosi, i garbati e i protervi, i lamentosi e i dignitosi.
Ma niente niente… saranno esseri umani pure loro?
MICHELE CAPITANI
Stlupefacente, Michele, da tenere a memoria.
Confermo: tutte “giuste” le vostre azioni e considerazioni.
Grazie a Voi!
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Che bello! Che volontari siete?
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