IL DONO
di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦
Il pensiero della fine della vita indugia oltre la misura. Forse per la continua inesorabile sequela di esseri che ne sono privati per guerre, terremoti, annegamenti.
Mi è difficile prenderne le distanze da questo pensiero e provo un evidente turbamento. Ma, poi mi chiedo: è così tanto imbarazzante aver di fronte lo stesso pensiero? E se questa petulante monotonia si rivelasse un modo per costruire un senso più vero della vita?
Quei bambini inghiottiti dal mare in tempesta, quelle madri che prima della loro stessa morte hanno dovuto sopportare l’atroce disperazione di non poter fare nulla. Tutto questo mi ha mosso a reagire. Reagire alla morte tentando, vanamente ma tentando, di indebolire il suo aculeo atroce. Un esercizio di fantasia, ancora una volta. Mi perdoneranno gli scettici, i disincantati, i “realisti” ad oltranza, i possessori di verità: forse sono solo un povero illuso che trova allettante trovare rifugio nelle favole. Forse è così. Comunque, almeno so di non esser certo di nulla ma non per questo di rinunciare ad indagare.
Un sogno ad occhi aperti mi ha condotto presso un amico recentemente scomparso. Così ho lasciato che la chimica del profondo esalasse i suoi umori e contaminasse la ragione.
Riflettendo su quella scomparsa ho avvertito un senso di colpa per essergli sopravvissuto.
Ho avvertito lo sgomento nel semplice pensiero che il mondo si era per lui, improvvisamente, spento, spento del tutto. Constatazione fin troppo ovvia ma in quel momento il fatto mi appariva nella sua piena assurdità. Perché?
Ed ecco che un demente desiderio cominciava ad infiggere nel mio animo la sua inquietante dimora ed io non potevo che seguire il suo richiamo.
Sapevo quanto i suoi occhi in vita distribuivano amore sulle espressioni che la Natura ci mostra. Sapevo bene come egli amasse i nostri Monti della Tolfa. I suoi lecci, le sughere, i faggi, gli arbusti fitti, le pietre emergenti, le discese repentine, le cupole trachitiche.
Di colpo ho raggiunto con la mente il luogo, un luogo colmo d’affetto. Il monte Piantangeli mi stava salutando come si saluta l’ ospite antico che non ha rinnegato il passato.
Ero lì, confuso ed incerto. La nebbia stava cedendo al calore del sole mattutino lasciando che lo sguardo contemplasse il fondovalle solcato dal fiume. Laggiù, intravedevo Passo Viterbo e sotto a strapiombo il Baldone, cui seguivano le Coste del Marano e, poi, nascosta e pudica l’agile ninfa Vesca che incontrava il suo placido e verde Mignone. E, d’improvviso Luni, sull’estrema sinistra , la nostra vetusta dimora di scautismo archeologico.
Ora io vedevo tutto questo ma….un pensiero si faceva spazio. Potevo io vedere un paesaggio pur senza la mia presenza?
A questa domanda contraddittoria non può che seguire una sola risposta: è possibile solo se il mio vedere sia un dono reso ad altri, un mio vedere perché “altri” vedano.
Un’idea certo bislacca che invadeva tutta la mia coscienza. Come un bagliore che s’accende improvviso compresi che i miei occhi potevano macchiare la luce di quel mondo pieno di ricordi e di amore. Potevo fare qualcosa di inaudito, potevo tentare di non contaminare con la mia vista quel mondo. Potevo ritirarmi come coscienza e lasciare il posto ad un altro, a lui. Potevo offrire i miei occhi a lui e concedergli, per un attimo il ritorno al mondo della vita.
Mi ricordai (come non potevo) dell’omerica nekya e della possibilità di Odisseo di far parlare le anime attraverso il caldo sangue della vittima immolata.
Io potevo, come coscienza, farmi da parte e lasciare che un altro prendesse il mio posto. Io offrivo tramite i miei occhi la possibilità che quello spirito amico potesse scaldarsi alla vista dei luoghi che lo avrebbero commosso, estasiato. Io mi ritiravo perché lui potesse entrare in contatto, tramite il mio corpo, con ciò che più lo attraeva.
Un ‘idea folle ma che potevo, in ogni momento, porre in atto nella realtà togliendola dal nimbo della fantasia.
Ora solo avverto, dopo ciò che ho descritto, che tutto quello che io tocco, vedo, gusto, odoro, sento, tutto questo lo avverto come un atto di ingiustizia. Come se io privassi di questi atti chi, un tempo, poteva usufruire della vita.
Ancora una volta, un assurdo concetto come assurda era l’idea di ingiustizia anassimandrea che noi commettiamo nel nascere privando altri di avere la vita. Eppure, è possibile il miracolo: l’assurdo ci risveglia dal sonno esistenziale del nostro tempo gabellato come epoca di benessere.
Non è il cimitero il luogo dove cercare. Siamo noi il sepolcro di chi abbiamo amato.
. . .
Chi elargirà il dono a quelle povere vittime, come io ho potuto sognare di fare per il mio amico, a quei fanciulli privati della meraviglia dell’infanzia, a quelle donne piene di speranza, a quei padri che pensavano ormai di aver dato sicurezza alla famiglia.
Volendo evitare di aggiungere riflessioni alle tante che in modo esemplare sono state prodotte sulla stampa, denunciando lo scandaloso comportamento governativo, mi limito, con queste righe, a gettare un fiore su quelle bare.
CARLO ALBERTO FALZETTI
Un atto poetico bellissimo che non ci riscatta completamente dalla dura realtà
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Carlo, sei riuscito a dire ciò che è indicibile.
Con affetto Paola.
L’amore per l’amico, per i naufraghi sono enigmi, che possono portare alla follia, senza la pacatezza della ragione (Platone).
Senso, non senso, assurdo(Camus).
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Carlo, sei riuscito a dire ciò che è indicibile.
Con affetto Paola.
L’amore per l’amico, per i naufraghi sono enigmi, che possono portare alla follia, senza la pacatezza della ragione (Platone).
Senso, non senso, assurdo(Camus).
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Questo, infine, è un chiedere perdono per essere sopravvissuti . Che altro possiamo fare?
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