“OLTRE LA LINEA” A CURA DI SIMONETTA BISI E NICOLA R. PORRO. La libertà e la forca. Ricordi di un viaggio in Iran e qualche riflessione sul presente.
SIMONETTA BISI e NICOLA R. PORRO
Nel marzo 2019 cogliemmo al volo l’opportunità di un viaggio in Iran. Paese sconosciuto a entrambi che ci riempiva di curiosità. Lo attraversammo per un paio di settimane con una brava guida e una comitiva di amici. Il Paese è in buona parte semidesertico ma le città sono un gioiello di architetture tradizionali ben conservate, pulsano di una vita quotidiana frenetica con orari, lavori e standard di vita quasi occidentali e scorci improvvisi di una cultura antica diversa, di costumi estranei e suggestivi per chiunque nutra un pizzico di curiosità “antropologica”.
Tutte le compagne di avventura – persone di istruzione superiore, abituate a viaggiare e di idee aperte – si adattarono di buon grado, con un pizzico di ironia che traspare dalle immagini qui riprodotte, al dress code locale, assai inusuale per gusti e abitudini della nostra metà del mondo. La prendemmo sorridendo, anche se la guida locale ci spiegò che coprirsi il capo non rispondeva a una usanza, adattabile a gusti e abitudini stranieri. Quella coranica non è una semplice consuetudine in forma di norma: è una legge che non si può trasgredire e nemmeno criticare.
In realtà, soprattutto per il gruppo di donne, l’esperienza di contatto con le ragazze locali fece toccare con mano l’esistenza di una consolidata insofferenza alle regole imposte dal regime, anche se ancora repressa. Belle, truccate, con folti capelli neri ben curati, le ragazze coprivano (più o meno) i capelli con sciarpe e foulard di seta che – ovviamente – scivolavano con facilità, e le mani che li riportavano al loro posto indugiavano per rallentare la forzata copertura delle chiome. Durante i viaggi in pullman, nessuna portava il foulard (in realtà, tranne che per le visite alle moschee e ai luoghi sacri, anche le nostre viaggiatrici si limitavano a una bella sciarpa morbida), comprese le iraniane, salvo coprirsi rapidamente se avvisate della probabile presenza della famigerata “Polizia morale”.
Per le strade non trovammo donne velate vestite di nero, tranne che nei villaggi e nelle campagne (cfr. l’articolo di Simonetta Bisi su SpazioLiberoBlog del 9 aprile 2019: Iran: Il Velo Non Copre Il Desiderio Di Libertà Delle Donne), ed era palpabile il desiderio di conoscenza e di “viaggiare”, come ci dissero due giovanissime che, dopo averci seguito per un po’, riuscirono a fermarci e a chiederci notizie sulla vita oltre l’Iran. Un altro ricordo: una sera sul tardi, scesi a fare una passeggiata, ci inoltrammo verso un porticato da cui sembrava provenissero delle note musicali (perché in Iran è vietata la musica). Un gruppo di tre ragazzi suonava la chitarra, ben nascosti in un anfratto della galleria. Appena sentirono avvicinarsi i nostri passi, presero la fuga nonostante cercassimo di far loro capire che eravamo stranieri.
Ovviamente nelle situazioni aperte, nelle incursioni nei tenebrosi stupendi bazar, nei contatti con le persone incontrate in quei luoghi – tutte molto gioviali e simpaticamente curiose –, non si intuiva il dramma sociale in corso sotto i nostri occhi. Perché rassegnarsi al silenzio è ciò che impone ogni regime: il potere dei senza-potere risiede nella parola. Che la nostra fosse una comunicazione mutilata era chiaro. Impossibile entrare in una relaziona che apparisse in qualche modo sospetta. Come è prassi nelle dittature, il silenzio si fa lo scudo che nasconde la ferrea logica di un regime che non esita a uccidere, incarcerare, fustigare come nelle memorie macabre delle antiche dittature. Totalitarie in senso letterale: impegnate a esercitare un controllo totale, su chiunque e su qualunque aspetto della vita pubblica e persino di quella privata. Questa invasione della sfera privata distingue del resto le dittature teocratiche – che si ritengono investite da poteri superiori legittimati da una qualche “missione” – dai fascismi secolarizzati e dagli altri regimi autoritari dell’Occidente.
Quel sentimento che avevamo percepito negli sguardi, nei comportamenti e nelle poche, coraggiose frasi che qualcuna aveva pronunciato, è oggi esploso. A dare il via alla protesta, l’uccisione di Mahsa Amini, 22anni, morta per le ferite riportate in seguito a un arresto a Teheran da parte della polizia per “non avere indossato correttamente il velo”.
Questa morte assurda ha liberato la rabbia repressa e la volontà di riappropriarsi dei diritti negati, in una escalation che ha coinvolto e fatto uscire di casa uomini e donne, minoranze etniche e appartenenze religiose minoritarie. Alla misoginia dei mullah sta rispondendo una domanda inaspettata e travolgente di egalitarismo. Il Paese della modernità negata vuole riappropriarsi di diritti calpestati da sempre.
Inaspettata, non prevista, la rivolta non si ferma, dilaga nel Paese e “spaventa” il potere, come dimostra la sanguinosa e cieca repressione del dissenso che si è materializzata con un ritorno alle esecuzioni spietate dei presunti “nemici di Dio”. Mohsen Shekari, un rapper di 23 anni, accusato di avere bloccato il traffico il 25 settembre scorso durante le manifestazioni e ferito con un coltello un paramilitare basiji (i guardiani della morale), è stato il primo dissidente impiccato di questa inusitata forma di repressione che evoca le tenebre del nostro Medioevo: si va al patibolo perché colpevoli di «inimicizia contro Dio». Come Savonarola, arso vivo sul rogo… ma era il 1498…
Uccidere apertamente, e annunciare quello che finora le milizie compivano «in segreto» — o nelle celle di Evin — rappresenta il segnale che il confronto è diventato esistenziale. Di qua i ragazzi, che non vogliono più sottomettersi, con un coraggio e una radicalità incomprensibile per le generazioni appena più grandi. Di là il regime uscito dalla rivoluzione khomeinista, a cui quei ragazzi non riconoscono più né legittimità, né autorità, né futuro. Ma i suoi capi non hanno nessuna intenzione di lasciare la scena. Sono loro a gestire sia le rivolte interne (si parla di 400 giovani, perfino bambini, uccisi dall’inizio della rivolta, dato purtroppo in continuo aggiornamento) sia le relazioni esterne (come nel caso dell’alleanza con la Russia putiniana cui gli ayatollah forniscono i micidiali droni Shahed, con tutta evidenza particolarmente graditi ad Allah).
Il nascente blocco democratico sta sviluppando una rete di resistenza incomparabilmente più robusta e ramificata che nel passato. La contestazione delle donne del 2009, che sfociò nel Movimento verde, repressa con arresti e scomparse, durò poco. L’attuale ribellione, di sicuro più ampia ma anche, purtroppo, più cruenta, quanto potrà durare? Quanti dovranno ancora essere uccisi per le strade, impiccati senza tribunale, quante altre donne saranno sfregiate volutamente e ferite nelle parti intime, prima di sopraffare un regime che usa le armi contro la propria gioventù?
E cosa possiamo fare noi, per aiutarli?
Noi possiamo aiutarli sollecitando una chiara risoluzione parlamentare, come hanno fatto Francia e Paesi Bassi, dichiarando i pasdaran gruppo terroristico e chiedendo l’espulsione dell’Iran dalla Commissione Onu per i diritti delle donne, dove la Repubblica Islamica siede, a tutela di non si sa di cosa…
Ma soprattutto l’informazione, la cultura, la più ampia opinione pubblica occidentale devono ergersi a difesa del diritto e del valore della parola: l’arma più potente contro ogni abuso e contro ogni violenza, perché semplicemente li svela dissipando l’ombra del silenzio. In Iran straordinarie combattenti che difendono diritti umani, come la Nobel Shirin Ebadi o Nasrin Sotoudeh, continuano a difendere i loro assistiti persino dal carcere di Evin, reiterando l’appello all’informazione occidentale: «Scrivete la loro storia, perché salverete la loro vita». Anche Václav Havel e i più coraggiosi dissidenti dell’Est europeo, praticarono il potere dei senza-potere rappresentato dalla parola. La usarono come una leva e prepararono così il 1989, la rivoluzione democratica, il crollo del Muro, il ritorno all’Europa.
Rompere il silenzio è anche compito nostro.
SIMONETTA BISI e NICOLA R. PORRO
E per rompere il silenzio terribile cominciamo col condividere questo bellissimo racconto-denuncia.
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