“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – QUANDO LA FOLLIA È ACCATASTATA. Avventura con Ulisse (prima parte)
di MICHELE CAPITANI ♦
Preparatevi a un viaggio incredibile: un viaggio dentro la follia.
Non spaventatevi, l’incurabilità della follia è problema apparente, perché spesso si cura eccome, pur se pochissimi hanno la ventura di guarire del tutto. È già un vero problema lo “stigma”, vale a dire il segno che il pazzo (psicotico, scemo-del-villaggio… fate voi) si porta appresso suo malgrado, un segno incisogli addosso dalla collusione collettiva della società che spesso lo riconosce come diverso, lo disapprova, comunque lo considera “altro” da sé.
Forse discende da ciò il problema maggiore, cioè il misconoscerla: il popolino ignorante non vuole pensare che ci sono diverse patologie, diagnosi, dinamiche e gradazioni (non sarà un caso se i manuali di psichiatria constano di migliaia di pagine). Secondo le folle, normalmente il matto è matto. Punto. Ed ecco la vastità e indefinitezza del lessico che i profani usano: maniaco, scemo, mentecatto, ritardato, spostato, squilibrato.
Eppure in taluni casi aiuterebbe sapere che la pazzia è anche misurabile: a volte è dato proprio un volume, una massa, una cubatura… uno spessore, pertanto stimabile e soppesabile. E io stesso, in uno spessore delimitato, quantunque gigantesco e allucinante, entrai un giorno, ma non in un reparto psichiatrico del nostro nosocomio, né giù giù nel tetro cocìto d’un ospedale psichiatrico giudiziario, bensì in un appartamento di un casamento di case popolari, dirimpetto al negozio del padre di una mia ex alunna, e proprio sopra un frequentatissimo supermercato.
Per farla breve: tra di noi.
***
La prima volta che il signor Ulisse viene ai servizi per i poveri è alle docce del sabato mattina: nella folla dei poveri della nostra città, e nella piccola transumanza settimanale che col treno regionale porta da Ladispoli alcune decine di uomini sporchi da una settimana, quell’uomo che c’entra? Tra questi senza-dimora che vengono anche da lontano per lavarsi, sbarbarsi, far colazione, ma prevalentemente per assaporare per due ore l’atmosfera di casa (perché la doccia sa di casa), che cosa c’entra questo alto e distinto signore, niente affatto trasandato, taciturno, e molto sulle sue?
Per alcuni sabati resterà un enigma, anche perché gli altri hanno sempre mille impellenze, igieniche, alimentari, mediche, burocratiche, e umane: compagnia e desiderio di parlare dopo giorni di mano tesa a mendicare. Lui invece si dovrà attendere che venga ai colloqui d’accoglienza per chiedere il pacco alimentare e i vestiti, ed è a quel punto che me lo metto davanti, ormai con una curiosità che nulla potrebbe sconfiggere: mi proponessero pure di prendere l’aperitivo col Papa, esiterei ad accettare, perché Ulisse ora è tutto per me!
Eccolo. Un uomo dalla mimica sedata e dal portamento lentissimo, forse immobile; anzi, ora che ci ragiono, non l’ho mai veduto camminare: sempre statico, seduto con le mani sulle ginocchia, o in piedi con le mani dietro la schiena, ma mai che si sposti o arrivi o se ne vada: è come se comparisse d’un tratto, si materializzasse non veduto. Completamente inespressivo, e con un accento toscano placido e in fondo inespressivo anch’esso.
Ride poco. No, non ride mai. Né afferra le battute.
Questa è la cifra stilistica di Ulisse: l’impenetrabilità. Non è una persona cattiva né malmostosa, è solo che non è facile entrarci: in lui, nella sua storia, nella sua casa. Se non per gradi, e scoprendo una confusione che a ogni passo si dilata a dimensioni allarmanti.
Infatti: come mai è venuto da noi? Perché (siamo in gennaio) ha avuto l’ordine di sfratto dalla casa popolare, per settembre. Già una volta era riuscito a farlo rinviare, per interessamento dell’ex vescovo presso l’ex presidente dell’ente; ora non sa a chi rivolgersi, tutte le cariche sono cambiate: vescovo, sindaco, presidenti eccetera.
«Mi hanno detto ‘he non ho diritto alla casa perché a suo tempo non ho fatto l’ingiunzione, no, come si dice…»
«Forse congiunzione o qualcosa di simile? O locazione?»
«Ecco, sì, mi sa ‘huella»
Io so poco di case popolari, ma immagino che, similmente alla reversibilità della pensione, si possa chiedere qualcosa del genere per la casa.
«Io ci ho abitato per 20 anni, ma dihono che non ne ho diritto»
Poi aggiunge che si era interessata, a titolo personale, una dottoressa del Centro salute mentale, però dopo ammette che dal Centro, in effetti, viene proprio seguìto, «Per la mia nevrosi…»
Si aggiunga: non è nemmeno residente qui; ma come si è data la casa popolare a un non residente?! E manco si sa il motivo per cui gli negano la residenza. Io gli dico che una via che Sant’Egidio potrebbe tentare è l’iscrizione anagrafica, come si fa alle volte per i senza-dimora, ma è tutto complicato dal fatto che lui si ricorda le cose a macchia di leopardo, e sfortunatamente un leopardo insonne e che si muove di continuo. E complicato anche dal suo comunicare, proporzionato a lui, parco di racconti e facile al monosillabo. Quando io e Alessia, un’altra volontaria, prendiamo a ricostruire seriamente la faccenda, infatti, scopriamo che il giovedì se è bel tempo va da amici, ma dove? Prima diceva Grosseto, poi ho capito che era Orbetello, anzi «vicino Orbetello» (in casa scopriremo un poster di Porto Ercole, e lui dice che è proprio lì che va). Lo chiediamo per sapere se c’è qualcun altro a cui fare riferimento, perché avrete già compreso che aiutare questo personaggio non è facilissimo, e per vari motivi. Tanto per dire, non tornano nemmeno le cronologie…
«Sto qui da 20 anni; per un periodo ero tornato su con la residenza, però ora qui non me la fanno riprendere» (“su” sarà in Toscana).
«Mamma è morta nel 2007, credo, anno più, anno meno»
«“Credo”?!»
«Eh, ‘un mi rihordo…»
«Ma perché era venuta quaggiù?»
«Mah, non lo so…»
***
E se ritenevamo che la sua storia fosse incredibile e nebulosa, e il modo di ricostruirla richiedesse titanici sforzi mentali e diciamo epistemologici, una volta riuscito a penetrarne la casa capisco quanto è vero che la casa raffigura chi ci sta dentro.
Una mattina di sole di febbraio vado a trovarlo, e già questo è memorabile perché io e Alessia abbiamo durato le fatiche di Ercole per convincerlo. Forse aveva paura a farmi entrare in quel buco nero, luogo da cui nulla esce, neppure la luce, e che attrae ogni cosa mostruosamente.
La porta di casa non si apre del tutto, io entro un po’ contorcendomi e rimanendo subito sgomento: dentro casa si riesce a entrare solo in due persone per volta, ne basta un’altra in più per rendere obbligatorie acrobazie e norme della precedenza per andare da una stanza all’altra: c’è una quantità fiabesca di cose accumulate l’una sull’altra, tanto che per ambulare Ulisse ha creato dei camminamenti tipo trincea.
Ma io, oltre che sbalordito, sono ammirato, perché assisto a un fenomeno scriteriato e folle, sì, e però unico, inedito, e comico. Sono stupefatto di una curiosità permanente su quali cose e immagini posso incontrare ogni volta che poso lo sguardo da qualche parte: le montagne di roba sono oggetti, scatole, riviste, giornali, tutto pressato a creare pareti e stratigrafie verticali e compatte. Non c’è neanche una fessura, i muratori incas non avrebbero fatto di meglio. Potrebbe farsi assumere dai cinesi per stipare jeans nei container.
Attaccati alle cataste e quel poco che si vede dei muri, intristiscono post-it d’ogni genere e colore, con numeri di telefono (Asl, Cgil, Enel, Ater, ricevute Sisal, Compro-oro, numeri privati) e foglietti rattrappiti e scoloriti, e calendari vecchissimi ancora appesi, e pacchetti di stelle filanti, o, nella stessa scatoletta, una candela da motore, evidenziatori, pomate, e cento altre piccole e illogiche cose e cosettine, appoggiate nelle mille cenge e logge formate dalle sporgenze delle cose agglomerate.
Il materasso poggia su un blocco di oggetti cementati, come sabbia che con le ère geologiche è divenuta arenaria.
Le imposte sono rovinate e ciondolanti, e vedo roba anche negli spazi tra le finestre e le serrande. Anche visioni surreali, come l’ammasso di cera sciolta, di chissà quante candele, in un angolo sul davanzale, con un termometro cementatovi dentro.
Mi vengono in mente quei due fratelli newyorkesi e il loro grattacielo inzeppato di roba ammassata (per dire, c’erano diciotto pianoforti), che morirono per il crollo causato dal peso; o peggio: quello che teneva la madre mummificata al piano di sopra.
Ancor più incredibile, forse, è il fatto che le medicine che ancora usa (unguenti, sonniferi, antidepressivi, eccetera) non sono più o meno in una certa zona di questo bailamme, no! Ne vedi una qua, una là, sulle mensoline formate dall’accatastamento di roba dal pavimento fino anche a due metri d’altezza.
Tutto mirabile: anche la scarsità di polvere e di cattivi odori. Insomma, ho varcato una porta spazio-temporale trovandomi come in un regno immaginario, con popoli e usanze e animali estinti, che non vedo l’ora di andare a raccontare.
«Ma come mai tieni tutte queste cose?» (mentre lo dico mi rendo conto che non c’è vera espressione per definirle, tutto è riduttivo).
«Mia madre aveva un disturbo, come si chiama…»
«Acervazione? Disposofobia?»
«Eh, non so»
«Eh, signor Ulisse, cerchi di ricordarla qualche parola ogni tanto!»
Lui forse sorride, ma millimetricamente. Almeno credo. Almeno spero.
Allora lo lodo per l’ordine malgrado l’accumulo, e per la pulizia e la carenza di polvere, ed è la verità. Poi invento: ammiro la cura di ogni dettaglio, o il legame con gli oggetti di una persona cara che è morta, ma lo faccio per non farlo sentire in difficoltà, e per captatio benevolentiae al fine di non farmi rifiutare lo scatto di qualche foto.
Gli chiedo di parlarmi degli esorcismi che ha ricevuto, a cui mi aveva accennato il giorno dell’accoglienza, e mi dice che ha anche un foglio che gli aveva lasciato il prete, ma ora, c’è bisogno di dirlo?, non lo trova. Pare dispiaciuto a non potermelo far vedere, e mi assicura che me lo mostrerà, quando l’avrà trovato. “Se” l’avrà trovato, rifletto dentro di me…
Vedo anche un farmaco per la schizofrenia, che scopriremo essere di quelli che in farmacia li devi ordinare, o che vengono dispensati solo da centri specializzati. È chiaro che sono penetrato letteralmente all’interno della follia, mai tanto densa, tattile e percorribile. Quello che impressiona è che mi ci trovo materialmente dentro, e che possa essere raffigurata così tangibilmente, in quanto espansione della mente di una persona, e corrispondente a un numero civico e a una cubatura e a un codice da catasto.
Già, una follia accatastata, in entrambi i significati di questo termine.
Ma questo è solo l’inizio della nostra avventura nella vita di Ulisse…
MICHELE CAPITANI (1 – continua)