“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI –UN’ASSENZA CHE PARTE DA LONTANO
di STEFANO CERVARELLI ♦
Dunque, per la seconda volta consecutiva, stiamo assistendo ai Mondiali senza la presenza dell’Italia che storicamente, tra l’altro, non potrà dire di aver partecipato a quella che, speriamo, sia l’unica e ultima edizione svoltasi in inverno. Da molte parti si è detto che un Mondiale non è tale senza l’Italia, una squadra cioè che il Mondiale l’ha vinto quattro volte, campione d’Europa; chiare opinioni di parte queste, perché ci sono altre rappresentative che, al pari dell’Italia, potrebbero affermare la stessa cosa; poi perché, con tutto il rispetto e l’orgoglio per i titoli conquistati, non sono questi che ti portano alla fase finale del Mondiale. La presenza te la devi conquistare sul campo e non, come addirittura qualcuno in uno slancio di puro nazionalismo aveva affermato, che una squadra campione d’Europa non può non partecipare ai Mondiali
Al di là di queste affermazioni o altre (tipo “siamo vittime di una formula sbagliata” dimenticando le scialbe prove offerte in più occasioni e l’incapacità di superare avversari decisamente più deboli) che vorrebbero esaltare un valore che è tutto da dimostrare, sarebbe necessaria una riflessione un poco più obiettiva, liberata dalle giustificazioni di comodo, sul perché i nostri campioni sono a casa mentre moltissimi loro colleghi sono nel Qatar.
Con questo articolo non voglio certo fare un processo ai presunti responsabili di questa disfatta (di questo si tratta), sarebbe un’operazione lunga e complicata che finirebbe per annoiare chi ha l’abitudine di frequentare questa Agorà.
Però alcune situazioni che stanno alla radice dell’eliminazione non bisogna ignorarle; situazioni, queste sì, che ritengo opportuno portare a conoscenza degli amici lettori, soprattutto con un pensiero
a chi non ha molta dimestichezza con le cose calcistiche.
Questa seconda consecutiva eliminazione si deve a molte cose e si compone di tanti frammenti, che rendono difficoltosa e lunga un’analisi completa; per prima cosa bisogna sgomberare il campo da qualsiasi obiezione tipo: se Jorginho non avesse sbagliato il rigore con la Svizzera a Roma (per la verità ne sbagliò uno anche nella partita disputata in Svizzera).
Certo, sarebbe bastato l’esito diverso di quell’episodio come di altri, (mancata vittoria contro Irlanda del Nord) perché cambiasse l’intero scenario.
Ma questo può valere anche per molte altre nazionali che si sono viste private dell’accesso ai Mondiali per via di singoli, e magari banali, episodi.
Di Jorginho ricordiamo il rigore sbagliato – questo può succedere – ma non ricordiamo che la Macedonia del Nord ha segnato, mentre lui, invece di rincorrere l’avversario, stava fermo a protestare per un presunto fallo e questo non ci può stare: assolutamente. Una protesta puerile che non ti aspetti da un giocatore candidato al Pallone d’Oro nel corso di una partita determinante.
L’analisi dei singoli episodi sarebbe forviante e per di più ci impedirebbe, cosa più grave, di vedere la realtà delle cose.
E’ alla somma dei piccoli, o meno piccoli fattori mancanti, che bisogna guardare, quelli che stanno alla base del tonfo del nostro calcio.
In Italia ci sono sessanta giocatori, a dir tanto, da Nazionale, non di più; sono anni che importiamo giocatori stranieri “vecchi” e bolsi che non danno il contributo sperato e per di più tolgono spazio ai nostri giovani, molti dei quali si trasferiscono in altri Paesi dove trovano, paradossalmente, possibilità di giocare.
Il segnale di allarme nella partita persa contro la Macedonia del Nord è stato che, per provare a vincere, Mancini si è visto costretto a far scendere in campo Joao Pedro, un brasiliano trentenne, segno evidente che in Italia di talento ce ne è molto poco, perché si è smesso di coltivarlo.
Perfino le squadre giovanili sono intasate di stranieri.
Perché accade questo?
Il motivo è, manco a dirlo, di natura economica; formare un giovane calciatore costa tempo e soldi; bisogna investire nello scouting per prendere il ragazzo a 11 anni (!) e garantirgli almeno un periodo di sei-sette anni con allenatori all’altezza, strutture adeguate con la speranza che, una volta maggiorenne, possa tornare utile, ricompensando quindi dell’investimento di tempo e denaro.
Ecco quindi che si preferisce prendere la scorciatoia che consiste nel fare arrivare ragazzini stranieri rimasti senza contratto nella loro patria (che non certo tra i migliori), liberi dai 16 anni di andare dove vogliono, perché l’Europa garantisce la libera circolazione dei lavoratori, con un contratto giovanile, fino ai 18 anni.
Per le società questo stato di cose costituisce un grande vantaggio in quanto le spese sono limitate al solo vitto e alloggio; unica condizione è farli giocare.
Succede anche che questi ragazzi vengano inseriti dagli agenti come pedine in operazioni più grandi, faccio un esempio: se una società vuole un giocatore bravo, ad un prezzo accettabile, deve farsi carico anche di tre ragazzini.
Cosa spinge i club ad accettare questo? La speranza che un giorno l’operazione possa garantire plusvalenze.
Accade quindi che oggi, nelle categorie under 17, ci sono squadre con tre-quattro ragazzini provenienti dall’estero.
Per non dire poi della categoria primavera (quella immediatamente prima della serie A), qui gli stranieri sono il 33%; in questa situazione è chiaro che i calciatori di formazione italiana trovano sempre meno spazio, proprio nell’età decisiva per la loro crescita.
La proposta di far giocare, almeno in Coppa Italia due under 23 che abbiano trascorso almeno sei anni nel proprio settore giovanile, non trova molto riscontro; nel campionato di serie A quindi ci ritroviamo con squadre formate, quasi completamente, da giocatori stranieri e non certo perché siano migliori degli italiani, ma solo perché vengono a costare il 25% in meno; da anni la Federazione assiste al triste spettacolo di società che non esitano a riempire le loro squadre primavera di stranieri utili, come detto, solo per le plusvalenze.
All’indomani della eliminazione del 2017, avvenuta perché in 180′ non siamo riusciti a fare un gol alla Svezia, pervasi dalla furia rinnovatrice, fu approvata l’istituzione delle seconde squadre, formate da giovani giocatori italiani che avrebbero potuto partecipare al campionato di serie C; era un modo come null’altro per far giocare di più i giovani.
Soltanto la Juventus ha raccolto l’invito partecipando con una squadra giovanile e non è certo un caso se oggi la squadra bianconera può schierare in serie A alcuni validi elementi di quel gruppo.
Questo, in proiezione nazionale, cosa ha portato?
Che in azzurro abbiamo avuto il centravanti dell’ottava squadra in classifica; diversi di questi giocatori nazionali nella squadra che vinse l’ultimo mondiale nel 2006 difficilmente avrebbero trovato posto; nelle prime squadre del campionato non abbiamo italiani nei ruoli chiave; questi tra gli effetti principali.
Ci sarebbero poi diverse altre annotazioni puramente tecniche, ma non intendo assolutamente tediarvi.
Due cose vorrei invece dire. La prima, che esprimo con poche parole: penso che sia visibile a tutti e non sono certo io a scoprirla è che i bambini hanno perso la spontaneità del gioco del calcio, la fantasia dell’inventare giochi con il pallone. A questo si è sostituito l’inquadramento delle scuole calcio, che non dico assolutamente non siano utili, ma che incanalano i bambini in esercizi e giochi predefiniti, che il bambino devono eseguire disciplinatamente, direi meccanicamente
Tra l’altro le scuole calcio, come per la verità altri centri di addestramento per piccoli, stanno diventando luoghi di ” baby sitteraggio” con le mamme sedute sugli spalti che vanno in ansia se il proprio figlio cade o si fa leggermente male.
Seconda cosa. Non so voi ma io ho notato un certo clima di assuefazione alla mediocrità (e non solo nel calcio) che ritengo preoccupante. Senza assolutamente avere rimpianti per gli eccessi che ci furono (la maggior parte di noi ricorderà i pomodori lanciati agli azzurri al ritorno dopo la sconfitta contro la Corea del Sud e come nel 1970 la Nazionale Italiana di Valcareggi venne accolta al ritorno dai Mondiali in Messico: ci fu una violenta contestazione perché fu ritenuta colpevole di aver perso in finale contro il Brasile di Pelè e pensate che quella era la squadra protagonista della vittoria sulla Germania per 4-3 nella partita più famosa del secolo.
Ora, con il massimo rispetto per la Macedonia del Nord, che rimane sempre una squadra paragonabile a un compagine della nostra serie B, le due sconfitte, per di più una in finale e l’altra nei play-off hanno indubbiamente dimensioni diverse.
A questa inverosimile sconfitta gli italiani hanno avuto una reazione, abbastanza contenuta, che appunto sa tanto di assuefazione.
Voglio sperare che sia un principio di presa di coscienza sull’effettiva importanza del calcio che, nonostante tutte le implicazioni che lo contraddistinguono, rimane sempre un gioco.
STEFANO CERVARELLI
Totalmente condivisibile!
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Stefano, mi sono “bevuta” la tua acuta e vera analisi…il calcio giovanile in Italia è scomparso. Ed era quel settore di certosina ricerca , con i suoi attenti e, perché no, ruvidi scout che ci fecero amare Rivera, Mazzola, Baggio etc etc
L’avidità ha spazzato via un mondo romantico fatto di sudate in Oratorio , partitelle su campi di periferia, spogliatoi sudati da cui ogni tanto emergeva un campione in erba.
Romanticherie fuori moda, forse ricordi fuori tempo, ma che bello era sentire il mago Helenio sproloquiare e azzardare riti segreti in un italiano avventato.
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Sarà un caso, ma mai come negli ultimi tempi mi sono appassionato a nazionali italiane di altri sport! Atletica, pallavolo, pallacanestro…
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Michele, sta capitando a molti: la disaffezione dal calcio ha molte origini, prima fra tutte l’essere, il calcio, ormai completamente colonizzato da interessi economici, basti pensare alle Presidenze “esotiche” ( ah, i tempi meneghini dei Moratti …),corrispondenti ad investimenti finanziari completamente avulsi da qualunque legame.
Certo, i conti devono tornare, il calcio non può essere, per chi investe, in costante perdita, ma ora c’è solo il calcolo che ha prodotto il “Fozza Indaaa” di qualche anno fa, perfino stampato sulle magliette di alcuni buontemponi di fede nerazzurra.
L’interesse per altri sport meno “nazional popolari” forse nasce dal sentirli più liberi dell’urgenza economica, sperando che restino tali almeno fino a quando l’ineludibile legge di mercato non li renderà appetibili.
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Esatto, infatti non li reputo di per sé più belli o brutti del calcio, valendo naturalmente il “de gustibus” (al limite li si può definire più o meno televisivi, ma questo è un altro discorso).
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