OLTRE LA LINEA” A CURA DI S.BISI E N. R. PORRO – Qatar 2022. Il football nel deserto: un calcio al pallone e uno ai diritti
di NICOLA R. PORRO ♦
Mondiale amaro per noi italiani. Per la seconda volta consecutiva la squadra nazionale, campione d’Europa in carica e fra le tre più titolate al mondo, mancherà l’appuntamento con il torneo più prestigioso. Rassegnati a tenere a riposo la passione, ci concediamo il lusso di qualche riflessione. Sin dalla stagione della prima “mondializzazione” del grande sport – quella compresa fra le due guerre del Novecento – si era resa evidente la dimensione politica, ideologica e simbolica di uno sport di squadra come il calcio. Questo mondiale dall’ambientazione inconsueta, in pieno deserto e lontano dalle terre d’elezione del football – l’Europa e l’America latina -, merita perciò una riflessione adeguata. Quella che non ha fatto seguito ai Mondiali di Russia di quattro anni or sono e che è mancata al tempo dell’assegnazione della manifestazione al Qatar.
Putin e i suoi avevano assegnato ai Mondiali del 2018 una funzione dichiarata. Bisognava demolire vecchi stereotipi trasmettendo l’immagine di un Paese intraprendente e accogliente, dinamico, efficiente e tollerante. Un Paese che il suo leader andava guidando con la baldanza dello sportivo praticante verso traguardi ambiziosi. La Russia “era tornata” e, grazie al grande calcio, avrebbe dato visibilità alla propria rinascita come superpotenza di ritorno. L’Occidente distratto e opportunista, sempre indaffarato a calcolare costi e benefici monetizzabili pronta cassa, stette al gioco. Qualcuno si illuse addirittura che lo sport potesse aiutare davvero a infondere un po’ di democrazia in quella che rappresentava invece una consapevole strategia di modernizzazione autoritaria. La stessa filosofia che si sarebbe sforzata di legittimare la repressione del dissenso in patria e poi addirittura l’avventura imperialista ai danni dell’Ucraina.
Quella lezione non è servita a nulla. I cacicchi dello sport planetario, una casta autoreferenziale che amministra il più grande business commerciale del pianeta, hanno dato seguito senza scrupoli e senza rimorsi all’assegnazione al Qatar dei Mondiale 2022. Era stata decisa dieci anni prima fra le riserve di molti e le proteste di pochi ma agguerriti e documentati “testimoni del tempo”. Dopo novantadue anni dalla celebrazione dei primi Mondiali di calcio (si svolsero in Uruguay nel 1930 con la partecipazione di appena tredici squadre nazionali) e ottantotto da quelli organizzati dall’Italia fascista, essi saranno per la prima volta organizzati da un governo che, alla data dell’assegnazione, non era stato eletto da nessuno. Le prime consultazioni, relative a due terzi dei componenti di una Camera priva di poteri esecutivi, si sono svolte in Qatar nel 2021, in regime di democrazia “minima” dato che furono ammesse al voto solo le famiglie residenti in Qatar da prima del 1930. Per la prima volta, inoltre, il più grande evento del calcio mondiale sarà ospitato da un Paese privo di qualunque tradizione calcistica. Nel quale, al momento dell’assegnazione, esisteva un solo stadio in cui fosse possibile giocare il calcio di competizione. Come afidare all’Egitto i Mondiali di sci alpino…
Ne erigeranno otto di stadi, ma il loro destino è quanto mai incerto In tutto. In Medio Oriente il calcio non ha ancora messo radici significative. Israele conquistò l’accesso alla fase finale dei Mondiali nel 1970, l’Arabia Saudita conquistò il secondo turno nel 1994. Complessivamente tutte le squadre nazionali mediorientali hanno sino ad oggi segnato 26 goal subendone 67. Tutto qui. Non proprio il palmarès di uno sport di massa. La cui diffusione è ostacolata anche da obiettive ragioni ambientali e climatiche. Siamo reduci da un viaggio nel vicino Oman: so di cosa parliamo, trattandosi di un Paese dalle temperature estreme, tanto che per la prima volta l’evento si disputerà in autunno e con il ricorso a mastodontici e costosissimi sistemi di climatizzazione degli stadi. Ben più inquietanti sono però le questioni irrisolte in materia di diritti umani. Parliamo dei diritti delle donne (che solo di recente hanno conquistato il diritto di guidare), degli omosessuali e della comunità Lgbt+. Parliamo di violazioni gravissime e documentate dei più elementari e universalmente riconosciuti diritti dei lavoratori e della tutela ambientale. Dall’Asia meridionale sono stati letteralmente deportati centinaia di migliaia di migranti che hanno consentito l’allestimento degli impianti nei tempi previsti sottoponendosi a un regime inumano di sfruttamento in condizioni lavorative raccapriccianti per gli standard internazionali. Solo le proteste dei sindacati europei hanno costretto l’Emirato a riformare, due anni fa e in tutta fretta, un codice del lavoro ispirato alla kafala islamica, che consentiva di fatto un regime schiavistico di impiego della forza lavoro.
Parliamo anche della cortina di omertà che ha avvolto la richiesta di chiarimenti in materia di lotta alla corruzione e di riciclaggio internazionale dopo che già dieci anni or sono erano circolati sospetti, mai fugati, sul mercato del voto che avrebbe consentito al Qatar di aggiudicarsi l’assegnazione ai danni di concorrenti più titolati. I soldi non mancano di certo a un piccolo Paese (tre milioni scarsi di abitanti) in possesso di immensi giacimenti di idrocarburi i cui proventi sono massicciamente investiti proprio nel business calcistico. È di proprietà della casa regnante un club leader europeo come il Paris Saint-Germain, imbottito di fuoriclasse pagati come nababbi. È costato cifre astronomiche in diritti televisivi l’allestimento di una rete televisiva a pagamento, denominata BeIn Sports, dedicata a tutti gli sport – ma specialmente al calcio – e promotrice essa stessa di eventi agonistici di prima grandezza. Un’efficace strategia di soft power, insomma, per sostenere l’immagine del sovrano e influenzare la politica mediorientale dove il Qatar gioca un’ambiziosa partita diplomatica, strategica e militare.
Anche buttarla sull’antropologico aiuta poco. Non scopriamo adesso di avere a che fare con un Paese di islamismo fondamentalista (wahabita), del tutto insensibile a temi che, nel tempo della globalizzazione, non possono essere considerati prerogativa “snobistica” della cultura occidentale, tanto nella sua versione laica di matrice illuministica quanto in quella ispirata all’etica giudaico-cristiana. La tutela dei diritti umani è responsabilità dell’intera umanità, ai sensi della stessa Carta dell’Onu, e il loro rispetto rappresenta il requisito imprescindibile per appartenere a tutte le istituzioni sovranazionali, comprese quelle sportive come la Fifa. La quale ha invece assecondato una candidatura scriteriata favorendone il successo nella speranza forse di prendere due piccioni con una fava: lucrare pronta cassa copiose risorse materiali e accreditarsi come paladina della “buona globalizzazione”. Il tutto però a beneficio di un regime impresentabile e a costo di infliggere una ferita profonda all’etica sportiva. C’è solo da sperare almeno che una parte dei proventi lucrati – solo il mercato dei diritti televisivi vanta cifre astronomiche – venga destinata a risarcire le famiglie dei lavoratori caduti, vittime di un sfruttamento cinico e di una sfacciata indifferenza alle ragioni della sicurezza. L’autorevole Guardian già nel febbraio 2021 aveva stimato 6.500 lavoratori migranti morti. Calcolo per difetto perché riferito ai soli dati resi pubblici dal regime senza calcolare quelli relativi a lavoratori provenienti da India, Bangladesh, Sri Lanka, Pakistan e Nepal, alle vittime provenienti da Kenya e Filippine e a quelle, non computate, che avevano perso la vita già nella seconda metà del 2020. 5.927 sono infatti i decessi documentati ufficialmente, cui canno aggiunti gli 824 segnalati di recente dal Pakistan. Quasi certamente, le vittime effettive hanno superato le 6.700 unità: un bilancio paragonabile a quello di una devastante calamità naturale o o di un’intera guerra civile!
Come di consueto, nell’opinione pubblica sportiva sembra però prevalere una rassegnazione venata di indifferenza… les jeux sont faits! In capo a pochi giorni le ragioni ideali e. morali della protesta cederanno silenziosamente il posto all’epifania del “gioco più bello del mondo”, all’ammirazione per qualche astro nascente, ai commenti riservati a un risultato a sorpresa, al rimpianto per l’occasione mancata dagli azzurri di Mancini. Svanirà presto l’eco dell’’appello al boicottaggio lanciato dalle maggiori organizzazione internazionali dei diritti umani. Eppure potrebbe rappresentare l’occasione per quella riflessione che mancò nel 1976 quando prevalse la tartufesca decisione di disputare la finale di Coppa Davis nel Cile di Pinochet- Senza tuttavia nasconderci che i boicottaggi si sono rivelati il più delle volte strumenti inadeguati: quando gli Usa nel 1980 ritirarono la squadra olimpica dalle Olimpiadi di Mosca per protesta contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, l’evento non sortì alcun effetto significativo. Bisognerebbe chiedersene la ragione senza reticenze, rinunciando a una rappresentazione edulcorata e ipocrita del sistema sportivo. E senza nemmeno rimuovere i pochi precedenti edificanti. Come quando cinquant’anni fa il Sud Africa dell’apartheid fu messo al bando dalle competizioni internazionali di rugby e cricket ancor prima che il Cio ne decretasse l’espulsione. Lo sport accese allora i riflettori del mondo su una vergogna dimenticata. I razzisti impararono che il rifiuto della storia e dell’umanità ha un costo e non è retorica ritenere quella vicenda il momento di decollo della mobilitazione internazionale che avrebbe piegato il governo dell’apartheid. Un evento che sarebbe stato consegnato al mondo da un’immagine sportiva di straordinaria potenza: quello dello sportivissimo Presidente Nelson Mandela che nel 1994, nello stadio di Johannesburg, acclama entusiasta e sorridente i suoi Bafana Bafana. Nulla è impossibile: memorie emozionanti ed esempi virtuosi possono aiutare lo sport a riappropriarsi di se stesso.
NICOLA R. PORRO
Complimenti. Articolo di una potenza descrittiva devastante.
Da condividere ovunque.
Quello che sta accadendo è pericolosamente vergognoso e sfrutta in maniera ipocrita l’indifferenza generale coperta da gambe ipertrofiche, sfere rotanti tra linee bianche e campi verdi.
Campi sul deserto. Campi sopra il sangue.
Grazie, Nicola.
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Articolo condivisibile sotto tutti i punti di vista
tranne un errore storico: la finale della Davis del
1976 non fu una decisione tartufesca, ma molto
discussa fra le parti del SI e del NO. Una situazione
di stallo risolta da Berlinguer che apri a quella finale
sulla spinta del dissenso cileno che gli scrisse:
“Venite a sconfiggere il dittatore”. Lo dichiara
Nicola Pietrangeli in un bellissimo documentario
visibile su Sky e fu una scelta ben ripagata. Portare
la coppa in Italia dopo averla sottratta al dittatore che
dopo la vittoria a tavolino della semifinale già
pregustava di vederla in bacheca.
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Diciamo che per l’Italia del tennis (e non solo) rappresentava un’occasione irripetibile e rinunciare era psicologicamente più pesante per noi che non per le grandi potenze tennistiche. La decisione fu frutto di un compromesso non privo di ragioni ma pur sempre un compromesso.
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