In quale chiave guardare al futuro ?

di PAOLO BANCALE

Chi riesce a sfuggire le tifoserie politiciste dei talk show e intende la Politica (quella con la P maiuscola) intesa come polity, come teorie e pratiche per orientare la società, deve necessariamente adottare un’idea di futuro. Oggi non è semplice farlo, ma è necessario almeno sforzarsi di delineare qualcosa che vada oltre l’immediatezza.

Nell’antichità classica si credeva di vivere un inesorabile declino (dall’età dell’oro a quella del ferro); il Cristianesimo ha mantenuto lo schema del declino nella cacciata dal paradiso terrestre e ha inserito la speranza in un futuro migliore, ma nella vita ultraterrena; il Rinascimento e l’Illuminismo hanno secolarizzato la speranza, come fiducia nel progresso e nell’autodeterminazione.

L’ideale liberale di libertà e uguaglianza inizialmente si è concretizzato solo per i possidenti maschi bianchi; il pensiero socialista ha sostenuto la necessità di rendere sostanziali questi ideali; vari movimenti (femministe, lgbt+, ecc.) hanno evidenziato i limiti e le contraddizioni nell’applicazione di questi ideali, contribuendo a articolare un’utopia concreta, un’idea di futuro verso cui tendere.

Il postmodernismo ha contribuito a criticare le ingenuità e gli schematismi (talvolta tragici) di queste speranze nel futuro, ma ha “buttato il bambino con l’acqua sporca”. La preconizzata fine delle ideologie, delle metanarrazioni, ha favorito l’affermazione dell’ideologia del pensiero unico, della presunta fine della storia, della società liquida in cui sono annegate le grandi e piccole speranze (dall’universalismo del welfare al lavoro stabile e dignitoso di un giovane).

La perdita di speranza ha favorito l’affermazione di una matrice culturale apocalittica, soprattutto, ma non solo, in materia di ambiente. Il surriscaldamento climatico è stato ampiamente esaminato dalla comunità scientifica e servirebbero misure profonde e urgenti di contenimento e di adattamento; non è difficile capire che non tutti hanno le stesse responsabilità e che le conseguenze non sono uguali per tutti; ma se parliamo genericamente di salvare il pianeta, ci limitiamo a dire che siamo nella stessa barca, senza distinguere i piloti dai rematori.

Più in generale. Se usiamo il termine oppressione, diciamo implicitamente che c’è un oppresso e un oppressore, indichiamo una relazione, che ci richiama un termine semanticamente contiguo, l’egualitaria solidarietà, cioè lottare insieme per rendere esigibile un diritto. Invece, se usiamo il termine fragilità, sparisce l’oppressore e resta una condizione di debolezza, semanticamente associata alla carità, alla cura, alla compassione, che confermano l’asimmetria di potere.

L’ideologia del pensiero debole e postmoderno dichiara la fine delle ideologie politiche e delle speranze laiche connesse; ci spinge a accettare l’esistente (sia pure debolmente) perché there is no alternative; il vuoto delle speranze laiche viene riempito (sia pure debolmente) da forme di comunicazione religiosa che cercano di sacralizzare la natura.

La diade catastrofe/cura è uno dei prodotti di questo processo: sconfitta la Politica e la speranza in un futuro migliore, senza alternative praticabili, resta un generico umanismo etico, senza oppressori perché i responsabili siamo noi stessi, a causa della nostra superbia, per i nostri peccati contro il pianeta: entità metafisica, sacralizzata, che richiede gesti simbolici (tipo chiudere il rubinetto lavando i denti), materialmente poco rilevanti ma utili a consolarci, perché se siamo tutti ugualmente responsabili, alla fine nessuno è responsabile.

PAOLO BANCALE

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