OLTRE LA LINEA” A CURA DI S.BISI E N. R. PORRO – Il neoliberalismo, la globalizzazione prêt-à-porter e una spruzzata di sociologia
NICOLA R. PORRO ♦
La voce dell’arpia è professionale e suadente. Il prefisso è 02. Come quasi sempre, viene da Milano la periodica intervista telefonica sadicamente condotta all’ora dei pasti da qualche agenzia specializzata nella tortura a distanza di vittime innocenti. Stavolta devo eleggere i tre sociologi contemporanei che saranno ricordati fra cinquant’anni… Essendo impegnato a soffriggere aglio e olio per i miei spaghettoni, me la cavo sbrigativamente, senza trascurare le ragioni della geopolitica. «Touraine, Giddens, Habermas: va bene?» «Grazie, professore bla bla…». Dopo aver emesso la sentenza, fra gli effluvi del tegamino ansioso di abbracciare i miei ottanta grammi di pasta Voiello, vengo assalito dal dubbio. E dal rimorso. Perché ho così sbrigativamente rimosso dal Pantheon tutti gli americani? Certo: quella parte minoritaria della sociologia nord-americana che si autodefiniva sociologia critica ha cessato già da qualche decennio di annunciare l’imminente tracollo dell’ordine sociale capitalistico e di celebrare il fantasma dell’American Dream. Le grandi figure di riferimento – i Lynd, i Riesman, i Wright Mills – hanno lasciato il posto a modesti esegeti o a improvvisati profeti di sventura. Eppure, ripensandoci, almeno uno avrebbe meritato di sopravvivere al naufragio. Si chiama Richard Sennett e mi chiedo quanti lo conoscano fra i non addetti ai lavori. È infatti uno studioso atipico, un sociologo purosangue ma interessato a una sana contaminazione con le discipline affini, soprattutto la psicologia sociale e la storia contemporanea. I suoi lavori, inoltre, prestano attenzione a fenomeni rilevanti ma poco editorialmente fotogenici: le trasformazioni urbane, gli effetti dell’innovazione tecnologica sul lavoro e sui sistemi di welfare, i cambiamenti dell’’istituto familiare.
Attivo in concreti progetti di intervento sociale, Sennett incarna come pochi l’esempio di uno studioso “sul campo”, politicamente impegnato e intento a indagare quella che definisce l’involuzione neoliberista del capitalismo. Il suo linguaggio concede poco alla stilistica dei nuovi media e ricorda piuttosto quello della vecchia e più austera “critica sociale”. La sua è però una provocazione salutare. Fotografa una perdita – quella di una rappresentazione collettiva delle disuguaglianze – e descrive una deriva: quella che associa il dominio incontrastato delle imprese e la crescente solitudine degli individui. [1] Per Sennett l’onda lunga della globalizzazione, ritirandosi, svela la natura socio-culturale di un processo complesso e controverso che la sociologia ha spesso banalizzato e il pensiero politico progressista ridotto a slogan di pronto impiego. Sembra infatti a Sennett che sia improprio parlare di fallimento della globalizzazione. Essa, caso mai, ha tradito le attese della maggioranza mentre ha offerto straordinarie opportunità alle élite dominanti. Paradigmatici i casi rappresentati dal dramma inatteso (la pandemia) e da quello, noto ma disatteso e quasi del tutto ignorato dalle politiche: il mutamento climatico. Nel loro combinarsi, questi due choc sistemici hanno posto in cruda evidenza la distribuzione diseguale delle risorse a scala mondiale. Milioni di vaccini sono stati buttati via mentre interi Paesi ne erano del tutto privi. Un processo generato dalla ferrea quanto perversa razionalità di quel Sistema Mondo che abbiamo indebitamente e sbrigativamente ricondotto alla formula, buona a tutti gli usi, di globalizzazione.
Come analista dei sistemi urbani, Sennett ritiene invece che la pandemia abbia molto da insegnare non solo alla ricerca sociale ma anche alle strategie di intervento su tessuti metropolitani sempre più intricati e sempre più fragili. La pandemia , insomma, indica soprattutto la necessità e l’urgenza di cambiare le città. Essa ha mostrato con quanta facilità le nostre confortevoli residenze urbane possano trasformarsi in carceri “private” che, senza i vaccini, si sarebbero potute mutare in sterminati obitori. Città prodotte dall’iperpianificazione urbanistica si sono rivelate vulnerabili perché perfettamente funzionali alle logiche dell’edificazione ma prive di flessibilità di fronte a fattori ambientali non previsti. Secondo Sennett, dunque, le nostre case andranno ripensate, riconfigurate e rese funzionali a circostanze impreviste. Rischiamo altrimenti di rivivere l’incubo dell’autocarcerazione vissuta nella stagione pandemica nel perimetro claustrofobico delle nostre residenze. Analogamente, e con la stessa urgenza, occorre per Sennett posare uno sguardo lungo sul cambiamento climatico che interessa l’intero pianeta con conseguenze virtualmente catastrofiche per l’ecosistema. Conseguenze che sono prevedibili a lungo termine, ma imprevedibili sul breve periodo. Le società, infatti, non sono preparate a convivere con le emergenze, tendono a rimuoverle scaramanticamente e non sanno farle occasione di apprendimento e trasformazione. Avremmo imparato, altrimenti, a costruire quegli spazi pubblici che gli urbanisti chiamano riconfigurabili: spazi ampi e facilmente accessibili, più alberi e meno parcheggi. La maggior parte degli edifici costruiti sono invece scatole sigillate di vetro e acciaio. Dove è difficile persino risparmiare elettricità, perché chi abita in un grattacielo non può nemmeno aprire la finestra per far circolare l’aria. La sfida del cambiamento climatico è in sostanza una sfida culturale. Dovremmo immaginare ed edificare strutture più piatte, più porose e che possano più facilmente interagire con l’ambiente naturale. Il quale non va colonizzato dall’habitat umano ma reso permeabile e molto più adattabile a esigenze mutevoli. Altrimenti saremo sempre più vulnerabili a fronte anche di brevi stagioni di siccità o, viceversa, di precipitazioni intense. Le une e le altre, anche se non devastanti, possono provocare eventi micidiali, come ai primi di luglio ha dimostrato in Italia la tragedia della Marmolada.
Alcuni Interventi sono stati già sperimentati. A Londra sono state edificate le prime abitazioni flessibili, di metratura ridotta e di struttura adattabile. Ci sono realizzazioni significative a Stoccolma e in altre città nord-europee. Qualche esempio è in corso di realizzazione e Barcellona. Lione è più avanti di Parigi, ancora impegnata, come Roma, a inseguire il sogno irrealizzabile di una città dei quindici minuti. Sogno per privilegiati, ironizza Sennett: …”se sei povero devi viaggiare per due ore e non hai scelta!”. La questione che sorge è dunque riassumibile in un interrogativo: di fronte a sfide di tale portata e in presenza di una classe media impoverita, chi assumerà il ruolo di trasformazione che essa ha esercitato in Occidente nel corso del Novecento? Forse nessuna forza sociale saprà surrogare il ruolo che le borghesie novecentesche avevano assolto nell’edificazione delle vecchie metropoli. Il neoliberismo, per giunta, ha accelerato l’indebolimento delle relazioni collettive. I contratti di lavoro sono divenuti sempre più a breve termine demolendo antiche solidarietà e creando relazioni divisive e competitive fra gli stessi lavoratori. Difficile persino valorizzare la produzione di competenze e il miraggio della “carriera”: Amazon non si preoccupa della carriera dei suoi dipendenti, bensì delle loro mani o della loro rapidità di risposta al telefono. Nella crisi delle vecchie istituzioni collettive (esemplare il caso dei partiti politici e dei sindacati) sparisce intanto la società civile. Non sappiamo più nemmeno definirla fuori dai vecchi assiomi ideologici. La società neoliberale è metaforicamente rappresentabile come una metropoli deserta, priva di una riconoscibile organizzazione sociale e mutilata dei suoi simboli.
Il panorama è fosco, ma la fantasia di quelli che chiama la gente comune (ordinary people) non è sopita ovunque. Proprio nei Paesi più poveri, ci segnala Sennett, prendono vita forme inedite di autorganizzazione comunitaria. A Bombay operano gruppi di azione civica per l’aiuto reciproco in condizioni di indigenza estrema. Si generano schemi inediti di azione collettiva che sembrano prescindere dalla politica oppure reinventarla. La classe politica si sta però quasi ovunque progressivamente degradando. Meno capaci sono quelli che entrano in politica, più sono egoisti e narcisisti. Si pensi ai leader occidentali contemporanei. Boris Johnson è stato votato per la sua promessa di chiudere il Paese all’immigrazione illudendo gli elettori di poter risolvere così tutti i problemi. Trump ha addirittura trasformato una estesa classe sociale in un’incubatrice isterica della rabbia culturale. In Italia l’innovazione politica ha vestito i panni di populismi incapaci di esprimere leader credibili e di elaborare progetti e strategie non subalterni alle più vicine scadenze elettorali.
Anche lo Stato sociale appare ovunque in crisi profonda: non fornisce più adeguati standard di benessere e funziona meno peggio, come nei Paesi scandinavi, solo dove al capitalismo neoliberista si oppongono ancora anticorpi robusti. Il welfare ha urgente bisogno di essere riformato e rigenerato. In Italia, come nel resto d’Europa, resistono come possono l’azione volontaria, forme di autorganizzazione dal basso che nascono da problemi concreti, talvolta l’azione delle comunità religiose. Troppo poco. È forse giunto il tempo di “progettare il disordine”, come recita il titolo del lavoro scritto da Sennett insieme all’urbanista Pablo Sendra? L’inquietudine di Sennett ci interroga: l’avrà vinta l’ottimismo dell’animatore sociale o il pessimismo del sociologo?
NICOLA R. PORRO
Bellissima presentazione di un autore e di tematiche così stringenti e appassionanti anche per noi profani.. Io ho svuto il privilegio di sentirne parlare e scrivere da Marina cui invierò il tuo magistrale intervento di oggi come un vero pacco regalo..Che piacere leggerti Nicola!!
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Oggi un rinnovato piacere di leggerti!
Farò mie le tue indicazioni di lettura!
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Grazie Nicola, interessante e utile come sempre
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Articolo interessante ed a questo proposito vorrei invitare a leggere anche i saggi di Serge Latouche , economista e filosofo francese che ha elaborato la teoria della decrescita. I suoi saggi pongono uno sguardo critico sul mondo, spingendo l’uomo ad abbandonare la mentalità capitalistica che governa l’occidente e rappresentare così una sfida alla mentalità del progresso a tutti i costi , alla globalizzazione : descrive l’alternativa attraverso una società i cui valori fondamentali siano sobrietà, frugalità e benessere, quindi decrescita come utopia concreta.
Forse nei prossimi giorni scriverò più approfonditamente di Latouche, chissà che a qualcuno interessi!
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Marina, Latouche, a mio avviso, ha fatto il suo tempo🤗🤗🤗
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Grazie, Marina. Ti leggerò con interesse. Alcune delle provocazioni intellettuali di Latouche meritano ancora di essere approfondite e discusse.
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