OLTRE LA LINEA” A CURA DI S.BISI E N. R. PORRO – Connessi e smarriti. La generazione Zeta 

di NICOLA R. PORRO

Raccomando a tutti, anche ai non addetti ai lavori, la ricerca – di recentissima pubblicazione – condotta dall’Istituto Toniolo, che da dieci anni monitora le trasformazioni dell’universo giovanile, istituendo interessanti comparazioni a scala internazionale. [1]

È una radiografia di quella generazione Zeta, la prima nata nel nuovo secolo e la prima che entrerà nel mercato del lavoro dopo la pandemia. Una generazione non fortunata, esposta al rischio di trasformarsi in quella che i demografi hanno battezzato ghosting generation. Una popolazione di potenziali fantasmi sociali scaraventata nel gorgo della più imponente e imprevista crisi socio-economica del secolo. Confesso che mi fa un certo effetto pensare che a questa generazione appartengono i miei quattro nipoti: una femmina e tre maschi nati in rigorosa cadenza biennale fra il 2009 e il 2015. I miei fantasmi preferiti stanno crescendo in un Paese che, per una volta, non ha ignorato i segnali d’allarme che la statistica, l’economia e la demografia ci consegnano. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) è tutt’altro che una vaga dichiarazione d’intenti. Privilegia anzi la costruzione di una infrastruttura del sistema lavoro orientata a rispondere alle sfide legate alla transizione verde e digitale. Il suo limite consiste caso mai nella sottovalutazione dei fattori socio-demografici che possono condizionarne il successo. A cominciare da alcune cruciali considerazioni.

(i)             La ormai vistosa esiguità della popolazione giovanile. L’agenda politica e quella della ricerca sociale sono state monopolizzate da decenni dalla «questione anziana» ma non ci siamo accorti – lo segnalano i dati di Eurostat pubblicati nella scorsa primavera – di essere diventati il Paese più vecchio d’Europa. E non “per colpa dei vecchi”, ma per carenza di giovani…. Quasi ovunque i minori di trent’anni rappresentano almeno un terzo della popolazione. Solo in Italia si scende al 28.3%.

(ii)           Quella che stiamo affrontando è perciò la più rapida e radicale riduzione quantitativa della forza lavoro conosciuta nell’Europa postbellica. Da noi la fascia di età compresa fra i 30 e i 34 anni non arrivava nel 2021 ai due terzi di quella compresa fra i 50 e i 54. In Francia era al 90% e in Germania all’85%. Tutti i settori nevralgici del mondo del lavoro, a cominciare dalla produzione a più elevato contenuto tecnologico, sono interessati dal fenomeno. Quali conseguenze sociali potranno prodursi? Quali strumenti il cosiddetto Sistema Paese ha elaborato per farvi fronte?

(iii)         Ricorda Alessandro Rosina che il “degiovanimento” colpisce un Paese come l’Italia che si era formato come Stato Nazione contemporaneamente a una diaspora migratoria di proporzioni bibliche. Nei decenni post-unitari l’emigrazione (non esclusivamente ma prevalentemente alimentata dalla popolazione giovanile) aveva rappresentato la giolittiana «valvola di sicurezza» del Paese in formazione.[2]  Oggi, in una situazione rovesciata, le nuove generazioni non costituiscono più la soluzione bensì il problema, o meglio l’indicatore di un malessere demografico che presenta implicazioni sociali gravi e forse irreversibili. L’allarme lanciato dai ragionieri dell’Inps su chi coprirà, in capo a pochi anni, i costi delle nostre pensioni, è tutt’altro che infondato. 

(iv)          Lo scenario si presta a due prospettive opposte e speculari. Quella che chiameremo apocalittica giudica ineluttabile una regressione sociale e un drastico ridimensionamento del Welfare: meno Stato, più disuguaglianza, ridimensionamento dei cosiddetti diritti postmaterialistici. Chi pratica l’ottimismo della volontà invita invece a non considerare i giovani solo come il problema, bensì anche come una possibile soluzione. Ma a condizioni stringenti: occorre non solo formarli al meglio, ma anche inserirli nel mondo del lavoro dotandoli di strumenti avanzati di gestione e governo di aziende, istituzioni e organizzazioni. Si tratta insomma di supplire alla contrazione quantitativa degli ingressi con un salto di qualità dell’offerta di lavoro e una migliore programmazione della domanda.  È dagli esiti della sfida dell’innovazione che dipende – non retoricamente – il futuro del Paese.

Solo potenziando la qualità del lavoro giovane possono svilupparsi e consolidarsi processi non rapsodici di sviluppo, innovazione e competitività. Arrestando, o almeno rallentando, la fuga dei più giovani verso l’estero sarebbe possibile dare forma a progetti di vita che, in un circolo virtuoso, potrebbe dare impulso alla natalità in picchiata e a nuove forme di socialità. 

(v)           Il panorama nazionale non è incoraggiante. Non disponiamo di politiche efficaci in materia di transizione scuola-lavoro e la pandemia ha accresciuto il numero già elevatissimo di giovani che non studiano e non lavorano (i Neet: Not in education, employment, or training). A monte c’è anche un deficit di formazione e di competenze che condanna molti ragazzi a uscire precocemente dal sistema dell’istruzione. Oltre alla preparazione culturale e tecnica, a fare la differenza tra chi rischia di trovarsi intrappolato nella condizione di Neet e chi, invece, trova la propria strada, la fa il possesso di quelle che vengono chiamate, con l’immancabile anglicismo, soft skill (o, più genericamente, life skill ). Il Rapporto giovani 2022 dell’Istituto Toniolo mostra, ad esempio, come la grande crisi sanitaria abbia eroso risorse di attività e di entusiasmo e diminuito la fiducia nelle competenze sociali a vari livelli. Si è contratta anche l’autostima: nei due anni di pandemia l’avere «un’Idea positiva di sé» è sceso fra gli intervistati dal 53.3% del 2020 al 45.9% nel 2022. Quanti dichiarano «Motivazione ed entusiasmo nelle proprie azioni» sono passati dal 64,5 al 57,4% e quelli che credono di saper «Perseguire un obiettivo» dal 67 al 60%. Dati ancora più allarmanti riguardano i contesti territoriali deprivati e con meno risorse socio-culturali di partenza, dove più sarebbe necessario sperimentare esperienze di socialità positiva che accrescano l’autostima invece di erodere quelle che abbiamo chiamato attitudini esistenziali (life skill). Il rischio è quello di una vera e propria diaspora silenziosa: si esce dai radar, ci si rifugia nel privato, si perde ogni ambiziosa progettualità di vita.

La generazione Zeta può diventare così una ghosting generation, demograficamente inconsistente, permanentemente connessa ma confinata nell’angolo buio dei rapporti sociali. E anche, a quel che illustrano i dati demoscopici, poco incline a una giusta dose di protagonismo, tentata da una sorta di fuga esistenziale che sembra lambire la sfera privata e la stessa affettività. È certo possibile formulare ipotesi di spiegazione sociologica: i più competitivi e meglio preparati potrebbero evadere da ambienti sociali e territoriali che deprimono le loro ambizioni. La pandemia, del resto, sembra aver rivoluzionato alcune priorità valoriali e comportamentali. Molti sembrano essersi riparati entro uno spazio strategico che ha progressivamente cambiato senso e valore attribuiti al lavoro. Non tutti i sociologi, tuttavia, si abbandonano al pessimismo. Lo stesso Rosina, ad esempio, non esclude che proprio la debolezza demografica dei giovani possa alla fine generare  un circolo virtuoso fra attivazione di competenze tecnologiche più avanzate e maggiore attenzione alle sensibilità culturali e alle «specificità antropologiche» della generazione Zeta. Valorizzando ciò che stimola l’interesse e l’autonomia senza conformarsi passivamente (e al ribasso) a regole del gioco elaborate in tempi e in condizioni troppo diverse. La scommessa della ghosting generation, a ben vedere, si gioca tutta qui. 

NICOLA R. PORRO

[1] AA.VV., La condizione giovanile in Italia – Rapporto Giovani 2022 (Il Mulino, 272 pagine, 22 euro). Si veda anche A. Rosina, «Generazione fragile, esigua e demotivata», sul Sole 24ore del 1 luglio 2022.
[2] Tra il 1861 e il 1985 dall’Italia sono partiti quasi 30 milioni di emigranti. Come se l’intera popolazione italiana di inizio Novecento se ne fosse andata in blocco. La maggioranza degli emigranti italiani, oltre 14 milioni, partì nei decenni successivi all’Unità di Italia, durante la cosiddetta “grande emigrazione” (1876-1915).
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