“OLTRE LA LINEA” A CURA DI S.BISI E N. R. PORRO – IL PAESE DEI DIRITTI TRADITI. PROTESTA E DEMOCRAZIA NEGLI USA

di NICOLA R. PORRO ♦

Esattamente mezzo secolo fa discutevo la mia tesi di laureaL’argomento apparteneva all’area della sociologia politica (all’epoca ancora accademicamente mimetizzata nel magma della “sociologia generale”) e riguardava il confronto fra i movimenti di protesta europei, gemmati dal fatidico Sessantotto, e quel magma, indistinto e per noi ideologicamente inafferrabile, rappresentato dalla New Left nord-americana.

Il confronto istituito fra culture, dinamiche di leadership e strategie di azione così diverse, malgrado la comune appartenenza a quell’incubatrice del ciclo di protesta che fu la mobilitazione contro la guerra vietnamita, mi intrigava e sarebbe stato oggetto delle mie prime pubblicazioni. Mi è venuto spontaneo, in questi giorni e a distanza di tanto tempo, riflettere sulle passioni generate da quelle lontane mobilitazioni per i diritti – oltre Oceano erano gli anni di Martin Luther King e da noi quelli della “nuova resistenza” contro i rigurgiti fascisti – e il panorama offerto dalla democrazia americana contemporanea.

Uno stimolo ad aggiornare criticamente la riflessione viene dalla recente sentenza con la quale la Corte Suprema Usa ha di fatto rinnegato il diritto all’aborto conquistato dal movimento delle donne sull’onda della pacifica rivoluzione culturale degli anni Settanta. Un osservatore attento della vita americana come Sergio Fabbrini ne ha parlato come di una vera e propria controrivoluzione costituzionale (S. Fabbrini, «Costituzione Usa e i danni del ritorno alle origini», Il Sole 24ore del 23 luglio 2022). In perfetta sintonia, uno dei nostri maggiori costituzionalisti, Sabino Cassese, ha osservato come: “… Nel Paese in cui è stato maggiormente enfatizzato il ruolo creativo dei giudici, dove si insegna che il diritto è quello che stabiliscono i tribunali, piuttosto che quello che decidono i parlamenti, proprio i giudici supremi si sono spogliati del proprio potere e l’hanno delegato ai cinquanta parlamenti degli Stati” (S. Cassese, «Costituzione Usa e i danni del ritorno alle origini», Il Corriere della Sera del 23 luglio 2022).

Per effetto di questa sentenza la Corte suprema americana si è invece vantata di avere “ridato il potere di regolare o proibire l’interruzione volontaria della gravidanza al popolo e ai suoi rappresentanti eletti”. In forza della quale uno Stato potrà costringere una donna a portare a termine una gravidanza indesiderata anche a prezzo di insostenibili costi personali e familiari e persino se il feto presenti le più gravi anomalie o sia il frutto di uno stupro o di violenza incestuosa. Ce n’è abbastanza, mi sembra, per liberare la questione dalle capziosità giuridiche e restituirla alla sua natura squisitamente politica. Negli Usa, in sostanza, una maggioranza di sei giudici (su nove) – tutti provenienti dalle fila dei conservatori e dei radical-conservatori di osservanza trumpiana – ha potuto colpire al cuore un intero sistema delle politiche dei diritti. Per passi successivi, sentenza dopo sentenza, la Corte suprema ha infatti cancellato in pochi anni non solo il diritto federale all’aborto, ma anche le limitazioni statali all’acquisizione delle armi da parte dei privati, i poteri regolatori assegnati all’Agenzia per la protezione ambientale – poco incline a compromessi con le grandi centrali dell’inquinamento industriale -, i diritti delle comunità indigene alla gestione autonoma delle riserve, la neutralità religiosa delle scuole pubbliche. Il giudice Clarence Thomas, punta di diamante dello schieramento filotrumpiano, si è spinto a proporre come prossime priorità da inserire nell’agenda della Corte la messa al bando del matrimonio tra persone dello stesso sesso e l’uso di contraccettivi da parte persino delle coppie sposate. Sessismo e sessuofobia sembrano insomma costituire i capisaldi ideologici della nuova destra radicale, a dispetto delle trasformazioni della cultura sociale e del costume intervenute negli Usa come in tutti i Paesi dell’Occidente.  C’è allora da interrogarsi sul rapporto fra diritto e cultura sociale nel Paese leader dell’Occidente, sempre pronto a farsi retoricamente paladino della democrazia per legittimare in suo nome l’uso della forza militare qua e là per il pianeta. È però necessario richiamare in via preliminare le caratteristiche proprie di quel sistema politico-giudiziario. Gli Usa non costituiscono infatti uno Stato federale nell’accezione europea del termine (si pensi alla Germania o alla Svizzera), bensì un’unione di Stati dotati di sovranità, ma caratterizzati da una dialettica non di rado conflittuale fra il Centro federale e gli Stati federati. Ciò in omaggio a quel principio fondante della “separazione multipla dei poteri” che ispirò la costituzione del 1787. Gli architetti e gli esegeti della democrazia Usa, da Madison a Tocqueville, ne esaltano soprattutto l’obiettivo di prevenire la “tirannia delle maggioranze” che ai loro occhi mina gli Stati nazione europei legittimando conflitti centro-periferia e fra i poteri locali. Dopo la Guerra civile (1861-65) si affermò una costituzione materiale fondata sul ruolo delle élite politiche e sulla capacità di vigilanza, di indirizzo e di mediazione della Corte suprema. In Europa solo la Svizzera si avvicina un po’ al modello Usa. Tutti gli altri Paesi hanno per ispirazione la fusione dei poteri, che si traduce nella ricerca di un equilibrio negoziabile fra le maggioranze parlamentari e il governo in carica. Quando i conflitti sono di difficile composizione si fa da noi ricorso alla consultazione elettorale, chiamando i cittadini a indicare in forma diretta (eleggendo il governo) o indiretta (sulla base di un accordo postelettorale), una possibile maggioranza. Negli Usa, al contrario, i rappresentanti delle varie istituzioni vengono eletti con modalità e scadenze diverse e con differente durata del mandato. La Camera si rinnova ogni due anni; il Senato ogni sei e il Presidente ogni quattro anni e per un massimo di due mandati. Questa formula sottintende che eleggere una potenziale maggioranza di governo non è competenza diretta degli elettori attribuendo alla  Corte suprema funzioni molto diverse da quelle assegnate in Europa alle corti costituzionali. La sua pratica dominante è chiamata checks and balances perché impone regole del gioco informali ma rigorose nella nomina (a vita) dei membri che vengono scelti dal Presidente in carica, previa approvazione del Senato che, in quell’architettura istituzionale, dovrebbe rappresentare gli interessi degli Stati.

La prassi è stata sempre sostanzialmente rispettata sino al 2017, quando Trump e la maggioranza repubblicana al Senato hanno nominato in un colpo solo tre nuovi giudici, tutti della loro parte politica, senza neppure confrontarsi con la minoranza democratica. [1]  Non solo: tutti gli Stati repubblicani del sud hanno in anni recenti modificato le leggi elettorali penalizzando i votanti non-bianchi, storicamente più vicini ai democratici. Il grande politologo Robert Dahl (1915-2014) ha parlato in proposito di una «tirannia delle minoranze» (bianche e radical-conservatrici) che hanno eletto alla Corte suprema giudici sostenitori della teoria costituzionale denominata originalism. Essa propugna un’interpretazione letterale e immodificabile della Costituzione del 1787, elaborata nell’ottica esclusiva delle élite bianche di due secoli e mezzo fa e totalmente estranea alle istanze di una evoluta società contemporanea, multietnica e multiculturale. Ciò anche in dispregio di molteplici sentenze delle Corti supreme del passato, che avevano via via riconosciuto, tutelato ed esteso i diritti delle donne, delle minoranze etniche, linguistiche e sessuali. I pronunciamenti del 2017 e del 2020 della Corte di nomina trumpiana hanno così degradato la massima istituzione di garanzia del Paese al ruolo di pedina di un gioco sfacciatamente politico. Nella sostanza, tornando all’argomento di Cassese, proprio nel Paese che assegna maggiore autonomia ai giudici, affermando un’idea evolutiva dei diritti, la Corte suprema – contro il parere del suo stesso Presidente – ha scelto di rinunciare alle proprie prerogative storiche. Esse sono state delegate  ai cinquanta parlamenti degli Stati federali ribaltando una sentenza emessa dalla stessa Corte suprema del 1972 e riconfermata nel 1992.

La Corte americana ha preferito così assomigliare a un Parlamento invece che a un organo di giustizia.  Le fedeltà politiche hanno prevalso sui ragionamenti; nessun tentativo di mediazione o composizione è stato neppure tentato. È significativo, in proposito, come tutti i sondaggi confermino la crescente sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti della Corte suprema. I suoi componenti, tutti di nomina politica, sono però nominati a vita e lasciano la carica solo per morte o dimissioni. In questo modo ogni giudice può scegliere se e quando lasciare libero il posto, in favore di un successore di identico orientamento politico. La nomina a vita, ideata per garantire l’indipendenza dei giudici, si è trasformata nello strumento di un ferreo controllo politico. Con maggiore preveggenza, i costituenti italiani avevano previsto una composizione mista della Corte costituzionale, nominata per un terzo dei suoi membri dal Presidente della Repubblica, per un terzo eletti dal Parlamento e per l’altro terzo dalle supreme magistrature.

La disciplina di un tema così sensibile come il diritto all’aborto si basa perciò negli Usa su un solo pronunciamento, emesso dalla Corte Suprema nel lontano 1973. In Italia si è invece prodotta una decisione ponderata, che ha coinvolto attori diversi. Già nel 1975 si era pronunciata la Corte costituzionale. Il Parlamento aveva approvato tre anni dopo la legge 194. Infine, l’intero corpo elettorale si era espresso con i due referendum del 1981. La stessa Corte costituzionale si è pronunciata nuovamente con la sentenza numero 35 del 1997. Invece, come ha concluso Sabino Cassese in un articolo del 27 giugno 2022… “la Corte suprema americana, con questo atto eversivo, rovesciando una sua decisione di mezzo secolo fa e contestando sé stessa, ha ammesso che i giudici non hanno quel ruolo supremo o finale che viene illustrato in tutte le “Law School” americane, perché esso spetta ai rappresentanti dei cinquanta Stati (creando così forti diseguaglianze tra i cittadini appartenenti alle diverse zone del Paese), ed ha anche contribuito alla disgregazione della federazione, stabilendo che una questione tanto importante, su un diritto fondamentale, non va presa a Washington”. [2]

Non si potrebbe dir meglio: parliamo di un tradimento dei diritti.

NICOLA R. PORRO

[1] I repubblicani, per di più, rappresentavano una minoranza dell’elettorato perché la composizione del Senato e del Collegio elettorale che elegge il presidente sotto-rappresenta gli Stati più grandi e popolosi, tradizionalmente democratici. Si spiega così perché tanto George W. Bush nel 2000 e Donald Trump nel 2016 siano stati eletti dal Collegio elettorale pur avendo ricevuto dall’elettorato meno voti dell’avversario democratico. 
[2] S. Cassese, «Aborto: perché la Corte suprema ha sbagliato», Corriere della sera del 27 giugno 2022.
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