LA CITTÀ SENZA PIAZZE
di FRANCESCO CORRENTI ♦
Eventi del secolo scorso: la Mostra “Natura e architettura, opere recenti di Paolo Portoghesi” e “La piazza come luogo degli sguardi”, Civitavecchia, Sale del Maschio del Forte Michelangelo. Inaugurazione, 14 novembre 1996.
Presentazione di Francesco Correnti
C’è qualcosa di sottilmente erotico, nel titolo di questa mostra, quasi che la piazza “come luogo degli sguardi” sia uno spazio della città deputato agli incontri tra persone che abbiano, come unico modo di comunicare tra loro, quello di guardarsi, di guardarsi negli occhi (naturalmente) e trasmettersi così messaggi, silenziosi ma certo eloquenti.
Il mondo d’oggi è dominato dal senso della vista in modo del tutto diverso da quanto avveniva in passato. Non sappiamo più guardare e vedere quello che ci circonda, siamo diventati ciechi a quanto non percepiamo attraverso lo schermo televisivo. Solo lì i fatti ci appaiono reali, solo quello che lì accade assurge a evento memorabile. Anche i giornali inseguono e ripetono quanto è stato già conosciuto, visto, attraverso il mezzo televisivo.
Così, abbiamo perduto la capacità di essere attori (come i passanti/attori della piazza/teatro di cui parla Paolo Portoghesi) e anche quella d’essere spettatori, di assistere, di partecipare, presenziare ai fatti. Siamo solo telespettatori e quindi vediamo le cose da lontano, da una lontananza però che, contraddittoriamente, non ce ne dà la prospettiva.
Così, il nostro modo di veder le cose è piatto, privo di spessore, senza rilievo, senza profondità, in tutti i sensi che queste parole hanno nella nostra lingua, per quanto anch’essa sia ormai banalizzata e impoverita. Forse, non sappiamo più nemmeno distinguere le sfumature tra guardare, vedere, osservare, contemplare, esaminare, fissare, scrutare, scorgere… O tra mirare, rimirare, ammirare, notare, guatare, adocchiare, sbirciare, squadrare, percepire, intravedere, sogguardare, avvistare, travedere e, appunto, distinguere. Abbiamo un atteggiamento inerte, lo sguardo spento, la vista debole. Non sappiamo più apprezzare (nel senso di saper percepire e valutare, oltre che di ritener pregevoli) gli accorgimenti costruttivi nei templi greci (l’entasis delle colonne o l’incurvatura dello stilobate e della trabeazione), per correggere le distorsioni ottiche.
Assuefatti a questa visione passiva (e il voyeurismo prevale in tutte le espressioni di oggi: nella moda, nella pubblicità, nello sport, nella politica …), apparentemente non soffriamo del fatto di essere immersi in un ambiente dove tutto è disperatamente, irrimediabilmente, squallido, degradato, inquinato: città e campagne, monti e mari, fiumi e laghi.
In questa generale dissoluzione dell’ambiente fisico dei territori italiani, dove il termine fisico ha perduto il suo significato etimologico che lo faceva sinonimo di “naturale”, il fatto che questa mostra che oggi si inaugura qui a Civitavecchia abbia per tema Natura e architettura non è provocatorio, come potrebbe sembrare, a prima vista, a chi conosce la città.
Certo, da Civitavecchia, natura e architettura sono scomparse da tempo: sotto i bombardamenti del ’43, nella ricostruzione successiva, nella ricerca insensata d’uno sviluppo di tipo industriale che non ha avuto altro orizzonte che i depositi di petrolio, le ciminiere delle centrali e del cementificio, i tralicci dell’alta tensione.
Ma ormai, Civitavecchia non è diversa dalle altre città di quest’Italia che, in cinquant’anni, ha trasformato e distrutto il proprio paesaggio, quel paesaggio naturale e architettonico celebrato, tutto da vedere, tutto da godere, in virtù del quale, nei secoli passati, aveva preso il nome di Belpaese per antonomasia. Se, per molto tempo, ci siamo lamentati, o forse forse compiaciuti, di vivere in una delle città più brutte della penisola, oggi possiamo tranquillamente costatare che questo triste primato non ci appartiene più.
È comunque significativo il fatto che questa bella mostra sulle piazze abbia luogo in una città che non ha mai avuto piazze nel suo tessuto urbano storico. Qui, il termine piazza indicava – secondo l’uso dell’epoca – il luogo fortificato sede di guarnigione: la piazza di Civitavecchia era la città nel suo insieme.
Nessuno dei tipi di piazza che il professor Portoghesi elenca nella presentazione della mostra era rintracciabile qui a Civitavecchia:
- non la piazza religiosa, la piazza/sagrato: l’antica piazzetta di santa Maria era un piccolo slargo di fianco alla chiesa parrocchiale, senza alcun rapporto con essa. Vi si teneva in certi giorni il mercato del pesce ma non era neppure il secondo tipo di piazza,
- la piazza commerciale, perché non ne aveva le dimensioni né l’animazione, l’atmosfera, l’importanza economica: i pescatori non erano civitavecchiesi, ma pozzolani e gaetani, napoletani. Venivano dal Regno di Napoli e avevano fretta di portare il pesce migliore alle “Case nuove” (verso l’attuale largo Caprera), dove potevano venderlo a buon prezzo ai mercanti che rifornivano Roma;
- tanto meno esisteva la piazza civica, consacrata alle adunanze del popolo, perché solo alla fine del Seicento la città ebbe un palazzo comunale, che tuttavia era espressione e sede del Governatore prelato, più che dei rappresentanti della Comunità democraticamente eletti.
La stessa tradizione di Leandro ci dice che anche i cittadini di Cencelle non si adunarono in una piazza per assumere quell’ottimo consiglio che sappiamo, bensì in un campo, sotto la mitica quercia. Perché, e questa è un’altra costante di Civitavecchia, non c’erano, qui, né giardini né viali alberati. Invano Jean-Baptiste Labat e Antigono Frangipani hanno raccomandato di piantare alberi di “mori gelsi” o comunque frondosi sui rampari della cinta bastionata. Fino al 1836, quando l’ingegnere Paolo Emilio Provinciali, con il materiale di demolizione d’un tratto delle mura del Sangallo, ampliò la spianata dove giungeva la via Aurelia da Roma, piantandovi quattro filari di alberi e creando quello che doveva rimanere fino ad oggi il viale della passeggiata domenicale, non si trovavano altre piante in città oltre a quelle, talmente rare e preziose da essere ricordate nella toponomastica: un olmo, un olivo, forse un lauro e un oleandro, se è questa l’origine del nome della platea Leandri. Anche nei dintorni, le esigenze militari e l’uso civico del legnatico avevano fatto piazza pulita di mortelle e sugareti, di uliveti e altri alberi rimasti solo nel ricordo delle denominazioni di qualche località.
Solo negli stemmi pontifici, “piazzati” un po’ dappertutto su mura, palazzi e moli, si poteva ammirare qualche vegetale: il rovere di Giulio 2°, i gigli di Paolo 3°, la castagna di Urbano 7°, i cipressi di Gregorio 14° e lo sbilenco alberello sradicato di Innocenzo 9°.
Tornando alle piazze, quella che si vuole intitolata a Leandro, l’unica del borgo medioevale, è nata come spazio di risulta tra l’abitato e la cinta castellana, forse in qualche tempo con funzioni di mercato. Successivamente ristretta dalle case costruite a ridosso delle mura divenute inutili e con funzioni di servizio ai forni camerali lì situati, era destinata al va e vieni degli animali da soma, per portare i sacchi di farina dai magazzini e non è mai stata un luogo di ritrovo pubblico dei cittadini.
L’ampliamento della città nelle aree tra la prima e la seconda cinta, quella cinquecentesca dei bastioni del Sangallo e di Francesco Laparelli, ha dato finalmente qualche spazio meno angusto ai civitavecchiesi. Ma nessuno di questi ha avuto origine come piazza vera e propria, come entità spaziale significante, architettonicamente concepita secondo una scenografia urbana meditata, con funzioni aggreganti o per manifestazioni collettive.
D’altra parte, come ci ricorda il Padre Labat, Civitavecchia avrebbe meritato il nome di Processionopolis, per le continue, innumerevoli cerimonie liturgiche che vi si svolgevano ad ogni ricorrenza, e per tali cortei non servivano piazze, portentosi snodare ottimamente e con più suggestivi effetti lungo le strette strade del borgo.
L’attuale piazza Luigi Calamatta era la piazza d’arme per le esercitazioni della truppa presidiaria; di forma irregolare, strozzata dalle vecchie mura prima, poi invasa da edifici di scarso decoro sorti di traverso, ebbe i soli momenti di gloria quando Pio 9°, dal balcone della Rocca, vi benediceva la folla e il battaglione francese, durante le sue visite alla città.
Piazza san Giovanni, oggi Aurelio Saffi, è sorta quando Alessandro 7° consentì l’edificazione tra le due cinte ed i nuovi fabbricati, allineandosi, delimitarono questo spazio allungato tra essi e le mura turrite, che formavano una rientranza con al centro la porta dell’Archetto. È forse l’unica che ha visto svolgersi, almeno nel Settecento, vere e proprie manifestazioni di folklore locale. Per la festa di santa Fermina, si cospargeva di sabbia, vi si montavano attorno dei palchi per gli spettatori e per la magistratura civica e due squadre di cavalieri vi disputavano una specie di palio, un carosello o giostra del Saracino, con grande partecipazione di popolo. E ancora, nell’ottava della festa, venditori ambulanti di triaca e di altri rimedi, ciarlatani, astrologi e saltimbanchi vi richiamavano una gran folla di curiosi e di creduloni.
Piazza Antonio Fratti, nel nuovo borgo edificato nel Settecento entro l’ampliamento a tenaglia di papa Barberini, previsto come ghetto per una comunità ebraica di cui Innocenzo 12° Pignatelli auspicava l’insediamento nella città portuale per dare impulso al commercio e divenuto, invece, il quartiere dei lavoratori più poveri – pescatori, lavandaie, vetturini (come scrivono le cronache del tempo) – è oggi uno spazio irregolare e disorganico, prodotto dai vuoti lasciati dagli edifici distrutti dai bombardamenti e non più ricostruiti. In origine, il modesto slargo tra le case era quasi completamente occupato dal grande fontanile coperto, di cui una vecchia foto ci ha lasciato l’immagine, una di quelle immagini preziosissime per scoprire una Civitavecchia che non abbiamo conosciuto e che non sarà più com’era.
Altre piazze e, soprattutto, piazzette, han trovato posto nella toponomastica cittadina nel corso del tempo. Che alcune, come la piazza Gregoriana, non fossero vere piazze ma solo pretesti celebrativi del pontefice o del potente del momento, lo dimostra il fatto di essere poi scomparse, declassate a semplici vie. La piazzetta Santa Maria, di fianco alla chiesa matrice, era ingombra di qualche bancone in marmo, dove si vendeva il poco pesce che i pescatori, tutti “stranieri, genovesi e napoletani”, non mandavano a Roma.
Anche la vecchia piazzetta Santo Spirito, nella zona di ampliamento urbano progettata nel 1856 dal Genio militare francese, era solo un anonimo slargo alla confluenza delle vie Bernini e Frangipani. Il rimpianto di quanti oggi ne lamentano la trasformazione, con la demolizione delle “casette popolari” del 1925, è più che giustificato dal risultato dell’intervento attuato nel 1980. Non voglio difendere una soluzione urbanistica senza dubbio datata, anzi ancora legata alle scelte del piano regolatore di vent’anni prima, ma credo che il risultato sarebbe stato diverso se il piano di recupero e il progetto edilizio fossero stati rispettati e interamente compiuti. Uno strano destino, quello dei piani urbanistici di quella zona. Già il piano ottocentesco era stato disatteso nell’attuazione da parte della amministrazione fascista, quando la sequenza di grandi piazze quadrate, rettangolari e circolari prevista dagli architetti di Napoleone 3° all’interno della scacchiera viaria, era parsa evidentemente uno spreco di spazio per un quartiere che fu realizzato con grande modestia di mezzi e di idee. Se oggi ne apprezziamo il semplice decoro, è solo perché l’edilizia successiva non ha saputo creare un ambiente migliore, sostituendo a quei fabbricati senza pregi un tessuto urbano funzionale, ricco di significati o almeno di contenuti sociali e funzionali.
Ma è il momento di concludere. Restano ancora due luoghi della Civitavecchia scomparsa da ricordare. Li ho lasciati per ultimi, perché entrambi hanno, in certo modo, una suggestiva attinenza ai temi della mostra.
Piazza come luogo degli sguardi … Sguardo può intendersi anche come veduta, come vista panoramica: si pensi a toponimi come “Bellosguardo”. Ed ecco che un minuscolo angolo della città vecchia, la piattaforma sul terrapieno dell’ultimo baluardo posto a concludere verso sud la cinta bastionata esterna, fronteggiando la Fortezza dove ci troviamo, prendeva nella voce popolare il nome di piazzetta della Vista. Lo stesso baluardo, scrive Padre Guglielmotti nella sua imponente opera sulle fortificazioni della spiaggia romana, era indicato con il medesimo nome o con quello, affine, di Belvedere, oltre che con l’immancabile intitolazione religiosa, in questo caso a san Bastiano, dalla chiesetta fuori le mura sulla strada per Roma.
La piazzetta si affacciava sul porto e, quindi, faceva spaziare lo sguardo su quell’ampio “anfiteatro acqueo” (come non citare Rutilio?), racchiuso tra le quinte della Fortezza, a levante, e del Lazzaretto, a ponente, ed aperto sul mare con il tramite, verso l’orizzonte, dell’antemurale traianeo e della Lanterna di Paolo 5°. Quella denominazione popolare ci dà la misura e l’atmosfera della città di allora, circondata da mura che, se per un verso rappresentavano la difesa dal nemico e davano un senso di protezione, per l’altro verso chiudevano tutt’intorno l’abitato entro un recinto opprimente, dall’interno del quale lo sguardo poteva volgersi libero solo verso il cielo, tanto nella realtà urbana quanto nella condizione psicologica di quegli abitanti, considerati non già dei cittadini, ma dei sudditi ed ancor prima dei fedeli.
Quanto e quanti fossero consapevoli di tale costrizione sul piano delle libertà e dei diritti civili, non ci è dato sapere. Ma che il senso di oppressione fisica dato dalle mura fosse in ogni tempo diffuso e profondamente sofferto, lo possiamo cogliere da tanti episodi registrati dagli storiografi. Come interpretare lo “squarcio” nelle mura medioevali che Arcangelo Molletti dice essere stato aperto dalla popolazione, nel 1535, per accogliere Paolo 3° “con ogni maggior onore”, se non il tentativo, mascherato da devozione al sovrano, di eliminare almeno quella ormai inutile barriera interna alla città?
La stessa ansia, le stesse richieste pressanti, le ritroviamo ripetute per l’abbattimento del tratto dei bastioni rimasti tra la città e il borgo Sant’Antonio: inascoltate per due secoli, quelle richieste divennero, dal 1818, il principale obiettivo dell’amministrazione civica, che le pose con tale insistenza e costanza al governo centrale, da costringerlo finalmente ad accoglierle, dopo un braccio di ferro durato, comunque, fino al ‘36.
Si comprende, allora, il perché di quel provvedimento per noi assurdo e miope, che vide – a Civitavecchia come in tante altre città d’Italia – la demolizione delle antiche mura, all’indomani dei plebisciti unitari. Forse, però, solo qui l’operazione fu ipocritamente giustificata dalle “mutate necessità di difesa”.
Ancora una riflessione va fatta sulla piazzetta della Vista. Oggi, quell’angolo dei bastioni esiste ancora, sia pure ridotto a marciapiede, ed è il tratto del lungoporto vicino al “Gobbo”. Purtroppo, però, il panorama è molto mutato, anzi è scomparso: la mostruosa barriera dei sili «dell’ultimo orizzonte il guardo esclude» e l’incredibile accozzaglia di terrazzini, cassoni, volumi tecnici, antenne e stenditoi sulle coperture della Capitaneria di Porto ha sostituito il maestoso ventaglio dei tetti dell’Arsenale chigiano.
Spostiamoci di qualche decina di metri e portiamoci in quella che ora è considerata la piazza principale di Civitavecchia, intitolata a Vittorio Emanuele 2° e un tempo a san Francesco, dove pure, in un certo periodo, hanno convissuto il municipio (abbattuto dalle fortezze volanti) e la cattedrale, ma che non potremmo in alcun modo assimilare alla piazza bipolare della tipologia enunciata dal professor Portoghesi.
In origine, si trattava d’una spianata in leggera pendenza verso la cortina sulla calata portuale, dove una rampa scendeva attraverso una porta, dando accesso al moletto d’attracco delle navi, che chiamavano la piazzetta dello Sbarco. A metà del Seicento, la cortina fu sfondata, il terrapieno scavato e nell’area fu incastrato il famoso Arsenale, riducendo l’ampiezza della spianata. Chi veniva da Roma, valicato il ponte di legno sul fossato e varcata la Porta Romana con il suo corpo di guardia, l’attraversava per entrare in città. Carlo Fontana ne studiò inutilmente la sistemazione, per conferirle una funzione urbanistica e un decoro architettonico: fu uno dei tanti progetti per Civitavecchia rimasti, in ogni tempo, sulla carta.
Lasciata alle spalle la Porta con lo stemma e l’epigrafe di Pio 5°, il viandante si trovava a mancina l’insolita infilata di volumi cilindrici formata dalle dieci absidi dei cantieri berniniani (d’effetto ben diverso, vi assicuro, dagli attuali sili, pur se la descrizione geometrica può ingannare), a dritta, preceduta da una breve scalinata, la modestissima chiesuola dei francescani e sullo sfondo le mura castellane con la seconda Porta nella Torre del Barone, da cui si entrava in prima strada e si era finalmente nella “terra” di Civitavecchia.
È proprio Carlo Fontana, nei suoi disegni, a darci un’informazione curiosa e divertente. La parte più elevata di quell’area tra le due porte urbiche, che poi era appunto il sagrato di San Francesco (dove si rifugiavano, dopo una corsa trafelata, gli evasi dalla vicina prigione per invocare l’immunità garantita dal diritto d’asilo), è chiamata monte delle Ciarle, nome certamente sentito dal nostro architetto sulla bocca degli indigeni e scrupolosamente trascritto.
Mi ha sempre affascinato e intenerito questa annotazione riferita all’unico luogo da cui era possibile, sormontando con lo sguardo gli immensi tetti convergenti dell’Arsenale, vedere la linea dell’orizzonte, tra mare e cielo, come non avveniva da nessuna altra parte della città. Quel nome rappresenta un ulteriore segno della mancanza di altri luoghi per ritrovarsi, per incontrarsi, per parlarsi, per socializzare. Oltre alle chiese, dove la partecipazione, pur corale, alle funzioni religiose impediva ogni rapporto interpersonale, non esistevano altri luoghi di riunione, di convegno, di scambio delle idee.
Forse, come ha sostenuto qualche storico, non esisteva neppure un locale per le adunanze del consiglio della comunità: alcune deliberazioni sugli statuti, nel 1484, risultano adottate nel convento dei domenicani (non nel chiostro, come alcuni hanno scritto, perché costruito più tardi) e altre volte l’assemblea, che non superava le venti persone, si svolgeva addirittura in case private.
Mi torna in mente un brano della bellissima prefazione di Le Corbusier, scritta nel ’51, agli atti dell’ottavo C.i.a.m. (Congressi internazionali di architettura moderna) nel libro “Il Cuore della Città: per una vita più umana delle comunità”: «Ahimè, voi non sapete che farne delle vostre mani, delle vostre gambe, della vostra testa, della vostra voce, perché non avete un luogo, dei locali per poter fare rumore – per far disordine – per stare in silenzio – per star soli – per stare insieme.»
Dunque, il posto che, dal nome, mi piace immaginare come il preferito dagli abitanti per darsi convegno, per trascorrere insieme un po’ di tempo a chiacchierare, a scambiarsi notizie ed opinioni, era uno spazio esterno alla città vera e propria, un ambiente all’aperto privo di qualità intrinseche, non progettato, non attrezzato, messo là casualmente, tra le mura e gli spalti, senza un nesso urbanistico con le funzioni degli edifici all’intorno e con le attività della popolazione. Una popolazione, peraltro, assai ridotta, essendo ben più numerosi degli abitanti i militari della guarnigione, i marinai della squadra navale e i rematori delle galere, composti da bonavoglia, forzati e schiavi turchi.
Sembra di vederli, quegli abitanti, verso il crepuscolo, al termine del lavoro, uscire alla spicciolata dalla porta turrita e andarsi a sedere sui gradini della chiesuola fuori le mura. A goder della brezza e della vista del mare, in quell’ora lucente dei mille riflessi del sole al tramonto e del cielo infuocato, per un momento lontani dagli affanni quotidiani, distesi e sereni.
Sembra di sentirli, quegli uomini e quelle donne, con le loro voci sonore, chiamarsi per nome – meglio, per soprannome (quei soprannomi che ritroviamo, per i primi, anche negli atti amministrativi dell’epoca, er Panzetta, Sparapane, Cianca, Tromettino, Pernetto, Cucurrino…, generalmente gentili, senza le connotazioni offensive frequenti in altre regioni) – e scambiarsi domande e risposte sui fatti del giorno, sulle vicende del lavoro, mentre dal campanile della Matrice risuonano i tre tocchi dell’Avemaria: discorsi semplici, chiacchiere, pettegolezzi, ciarle, appunto. Eppure importanti nella monotonia e nella fatica della loro giornata, trascorsa nel porto, nelle botteghe, nelle campagne.
Ho parlato di uomini e di donne, perché voglio augurarmi che, sul “monte delle ciarle”, i pur rigidi costumi del paese consentissero l’innocente promiscuità di quegli incontri come li ho immaginati e non fossero solo i padri e i mariti a potersi radunare e profittare di quella pausa di ozio serotino. Tanto più che quelle ciarle, e le amiche dell’Osservatorio Donne, promotrici della mostra, non mi accusino di maschilismo, vedrebbero bene come protagoniste le comari di via dell’Olmo o un gruppetto di ghettarole per l’appunto ciarliere…
Vorrei che anche i giovani di entrambi i sessi abbiano avuto la possibilità di ritrovarsi in quel luogo, oltre che alle funzioni religiose, e che lì, pur sotto il vigile sguardo dei parenti, i coetanei tentassero i loro primi approcci sentimentali, fatti naturalmente solo di timide occhiate. Ancora una volta ci soccorre l’arguzia di Padre Labat, là dove parla delle cerimonie nuziali in uso a Civitavecchia: «Non è necessario avvertire il Lettore che i giovani son o come in qualsiasi altro paese: si innamorano e, se la morale non li trattenesse, il desiderio li spingerebbe spesso a fare passi falsi a causa delle passioni molto accese e dell’intraprendenza di cui dispongono in abbondanza per eseguire quanto hanno intrapreso. Ma il profondo rispetto per i genitori li trattiene e li obbliga a sottomettersi volentieri ai loro desideri. Perciò è lo stesso ragazzo a indicare ai genitori «la personne sur laquelle il a jetté les yeux e, quando questo legame risulta di gradimento della famiglia, si fanno i passi necessari per ottenere il consenso della signorina e dei suoi familiari.» Anche se l’iniziativa sembra qui tutta maschile, credo che le ragazze civitavecchiesi non fossero diverse da quelle messinesi di cui sempre il Labat ci racconta i “colloqui con le dita” dalle finestre, per quanto protette da grate e rinforzate da gelosie di legno e da inferriate, con i loro corteggiatori, dandoci un quadretto delizioso di quelle «dita minute che fan passare un fazzoletto tra le fessure delle persiane, dando segnali accompagnati da uno sguardo molto vivo e in movimento» (*).
La mostra ci propone un luogo degli sguardi che è il risultato ammirevole dello studio, della fantasia, della capacità di un gruppo selezionato di architetti molto noti dei nostri giorni. L’antica Civitavecchia contrappone a quello qualcosa solo fisicamente diverso: un luogo delle ciarle, un ambiente anonimo, uno spazio senza connotati, un posto senza architettura, che tuttavia, se ho ben interpretato il suo nome, dava modo a quella gente semplice di stare insieme, di sentirsi amici, di confidarsi. Dunque, un tramonto, un cielo infuocato, un mare lucente, insomma la natura, può fare quello che a volte noi architetti non vogliamo o non possiamo o non sappiamo fare.
È stato proprio Paolo Portoghesi ad avercelo ricordato molti anni fa, nel suo studio magistrale “Roma prima di Roma”, condotto con Vittorio Gigliotti, per la mostra “Roma interrotta” esposta nel ’78 ai Mercati Traianei. La tipologia delle strade e piazze di Roma, degli “spazi pulsanti delle vie del quartiere del Rinascimento”, era accostata alle immagini delle forre dell’Alto Lazio, delle “strette valli racchiuse tra le muraglie di tufo”, e da questo confronto si traeva lo spunto per una ipotesi progettuale ispirata all’ambiente fisico originario e quindi rispettosa del genius loci, dimostrando quanto l’architettura, se non si contrappone alla natura ma ne fa modello e cornice, possa venire arricchita di suggestioni emotive.
NOTA
(*) Vitaliano Brancati (Don Giovanni in Sicilia, cap. V) scrive:
«Bisogna poi aggiungere che la storia più importante di Catania non è quella dei costumi, del commercio, degli edifici e delle rivolte, ma la storia degli sguardi. La vita della città è piena di avvenimenti, amicizie, risse, amori, insulti, solo negli sguardi che corrono fra uomini e donne; nel resto, è povera e noiosa. Del segretario della Provincia, Alberto Nicosia, morto nella vasca da bagno un pomeriggio di domenica, la signora Perretta, dopo cinque giorni di dolore forsennato, ricordò tutta la vita, e i rapporti che lo legavano a lei, con queste semplici parole: “Ah, come mi guardava!”
«Le donne ricevono gli sguardi, per lunghe ore, sulle palpebre abbassate, illuminandosi a poco a poco dell’albore sottile che formano, attorno a un viso, centinaia di occhi che vi mandino le loro scintille. Raramente li ricambiano. Ma quando levano la testa dall’attitudine reclinata, e gettano un lampo, tutta la vita di un uomo ha cambiato corso e natura. Se lei non guarda, le cose vanno come devono andare, per il giovanotto o l’uomo di mezza età: uguali, comuni, insipide, tristi: insomma, com’è la vita umana. Ma se lei guarda, sia pure con mezza pupilla, oh, ma allora, la vita non è poi così triste, e Leopardi è un poeta che non sa nulla di questo mondo!
«“Talìa?” dicono a Catania.
«”Che fa, talìa?” domanda a voce bassa lo studente al compagno di banco, insieme al quale, col capo chino e rigido, passa sotto il balcone di lei.»
FRANCESCO CORRENTI