Luciano Bianciardi, un grossetano a Milano

di CATERINA VALCHERA ♦

L’anno in corso viene ricordato come il centenario dalla nascita di Pier Paolo Pasolini- che nel mese di novembre prevedo avrà le doverose e riparatorie commemorazioni da tutti i fronti- e di Beppe Fenoglio, quest’ultimo più o meno opportunamente evocato in concomitanza con le celebrazioni del 25 Aprile. Nessun riferimento, invece, almeno nei media a carattere nazionale, ma neppure sui social, ad un’altra ricorrenza: il centenario dalla nascita di Luciano Bianciardi. E allora colmiamo la lacuna con due paginette sul nostro blog. Questo scrittore ribelle, irregolare– come si dice nel linguaggio critico letterario- a mio avviso ne meriterebbe molte di più. Accostabile per alcuni aspetti “maledetti” al corregionale Dino Campana, isolato come lui, Bianciardi risulta estraneo al mondo accademico, autore “scomodo”, difficilmente  catalogabile e tendenzialmente anarchico. La sua stessa biografia errabonda tra il paese natale, Grosseto-Kansas City ( così si divertiva a definirla) e città del nord come Milano, Rapallo e poi ancora Milano, testimonia della sua irrequietezza, di un tormento molto intenso anche se dissimulato, fatto di insofferenza nei confronti della vita provinciale e dell’impegno fittizio risolto in creazioni di cine-club o circoli culturali. La sua rabbia si nutre in realtà della delusione degli intellettuali degli anni Cinquanta, costretti a prendere atto della miseria del reale, dopo la grande spinta ideale della Resistenza. Costretti a confrontarsi con le problematiche del lavoro, dello sfruttamento e dell’ingiustizia sociale. Ma Bianciardi non è uno scrittore dichiaratamente engagé, proprio per la sua sregolatezza che lo porta da una scrittura inizialmente ironica e malinconica a una parole irriverente, violenta e oltre le righe. Famoso presso gli amici del paese natale per le sue “bianciardate”, cioè per le scorribande e gli scherzi, l’attitudine allo sberleffo e alla provocazione, questo maremmano, incontenibile nei comportamenti e nell’uso dell’alcol, ci ha regalato un piccolo romanzo di tutto rispetto, frutto di uno sguardo acutamente beffardo, ma idealmente e socialmente orientato. Parlo de “La vita agra” che già nel titolo suona come rovesciamento ironico del film “La dolce vita” di Fellini e che si rispecchia nella cattiveria con cui viene rappresentata l’Italia del miracolo economico, in particolare la capitale delle attività industriali, Milano. Il protagonista afferma di volersi sfogare con una dichiarazione d’intenti che fa il verso a Baudelaire ( Datemi il tempo, datemi i mezzi, e io toccherò tutta la tastiera- bianchi e neri- della sensibilità contemporanea. Vi canterò l’indifferenza, la disubbidienza, l’amor coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle ) e di avere una missione da compiere nella città lombarda dove si è trasferito: far saltare con un una bomba “il torracchione”, cioè la sede della potente Montecatini, per vendicare un compagno grossetano, già consigliere comunale per il Partito comunista e costretto a un umiliante lavoro per aver osato accusare l’azienda di un incidente minerario in cui erano morti quarantacinque operai. Questo focus narrativo sarà invece un atto mancato. Il protagonista dinamitardo in pectore sarà invece “integrato” nel sistema produttivo, dovrà sottostare agli orari massacranti del lavoro di traduzione, aiutato da una compagna che condivide con lui tutte le difficoltà della vita urbana. Le pagine più visive del romanzo sono quelle dedicate ai luoghi di questa città “militaresca”: il tram, affollato dalle segretarie che ticchettano di prima mattina con le loro scarpe, i supermercati, la biblioteca, i baretti e i ristorantini di quartiere descritti con furia espressionistica, ottenuta anche grazie al pastiche linguistico ( che fa pensare a Gadda) e alla forza satirica di uno sguardo sociologico dissacratore nei toni, ma lucido quanto lo sarà quello di Pasolini. Sorprendenti risultano la diagnosi, di sapore marcusiano, sull’induzione crescente dei consumi, la descrizione della frenesia lavorativa quotidiana (esilarante il profilo della “dattilografetta”, spina dorsale del sistema commerciale, delle attività terziarie e quartarie) con l’ossessione della puntualità e l’incubo sanzionatorio dei ritardi, il riferimento a  contratti capestro e alla morsa amministrativa. Un quadro che potrebbe risultare apocalittico, se non fosse affidato a uno straordinario lessico satirico, a girandole verbali che attraggono il lettore nello stesso vortice di rabbia e accettazione che avvolge il protagonista-autore. Anziché abbattere il mostro -simbolo di questo sistema produttivo a marce forzate- il terrorista fallito, “tafanato dal lavoro e dalle cose”, oscilla tra bislacche riflessioni e la cattiva coscienza dell’individuo costretto “ad entrare in un giro” e deprivato di ogni capacità di reazione. Ridotto a fare la vita grigia dei grigi abitatori della città, favoleggia una riscossa collettiva contro torracchioni, padroni “mori” e timbergecchi, sogna di girovagare per le strade strascicando i piedi  come un  flâneur parigino e, tra una elucubrazione e l’altra, espone una singolare idea di lotta al sistema, un’opposizione alla classe dirigente elaborata come teoria e come prassi eversive. Questo il programma: ristabilire la natura veridica del coito,[..] unico grande bisogno naturale ridotto ormai ad artificio pubblicitario, a pura rappresentazione mimica…a puro simbolo che serve a spingerti all’attivismo vacuo. Un programma di disattivazione dei bisogni artificiali, che pone in campo la forza primigenia dell’eros, da praticarsi costantemente come antidoto ai ritmi disumani dell’industria che hanno invaso anche il terreno della cultura. Vorrei chiudere questo breve ricordo dell’arrabbiato scrittore toscano con un passaggio istruttivo per il momento che stiamo vivendo. Il protagonista discorre con la compagna Anna che aveva una seria competenza in fatto di tecnica insurrezionale, quando all’urlo delle sirene si mischia il grido ritmato dei dimostranti che volevano la pace.

“ Cos’è?” feci io.

“Dimostrano contro il riarmo tedesco”. Infatti la colonna avanzava compatta verso la piazza del Duomo, ma senza bandiere e nemmeno cartelli. “E’ una dimostrazione improvvisata” spiegò Anna. “Vedrai che domani la rifanno più in grande e coi cartelli. La parola d’ordine dovrebbe essere no al riarmo tedesco, ma come fai a gridarla? Pace è più semplice, ma anche più generico.

Luciano Bianciardi, nostro contemporaneo.

CATERINA VALCHERA

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