Letting go
di MARCELLO LUBERTI ♦
Il titolo del libro nascondeva ambiguità, non poteva essere diversamente.
Mi imbattei in “Lasciarsi andare” che avevo diciott’anni, la frase sembrava un’esortazione programmatica. Ho ritrovato il libro, quarant’anni dopo, con la copertina che dice “Lasciar andare”.
L’originale “Letting go”, in effetti, potrebbe significare entrambe le cose. Due significati potenzialmente diversi. Dipende dai casi della vita. Dove ci si butta? Lasciarsi andare o lasciar andare?
Sembra la parodia della letteratura, della manipolazione del linguaggio, la modifica di due lettere che porta ad intuizioni così diverse, pare che la vicenda suggerisca “… ma lascia perdere”.
Dovrebbe essere il plot del libro a dire quale sia il significato più adatto. Gli studiosi dicono che, una volta pubblicato, il libro non è più dello scrittore ma appartiene al lettore. Philip Roth non sapeva di attribuirmi un così grande potere, anche quello di farmi male con il suo primo e più lungo romanzo, risalente al 1962.
“Lasciarsi e lasciar andare” è un libro giudicato secondario nella produzione di Roth, quasi ignorato rispetto ai suoi capolavori. Tanto che è stato l’ultimo titolo della ristampa integrale delle sue opere curata da Einaudi, nel 2016. Fu, a suo tempo, una delusione sul piano delle vendite e della critica. E qui ritrovo un mancato riconoscimento: il libro più importante della mia vita, pur se firmato da un autore famoso e importante, non interessa più a nessuno. Come il premio Nobel mai assegnato allo scrittore, io non ho mai visto riconosciuta la grandezza di questo romanzo.
Lo stesso Roth ha contribuito alla scarsa considerazione di “Lasciarsi e lasciar andare”, avendo fornito pochi riferimenti a quest’opera nelle interviste e nelle pubblicazioni ufficiali.
Trovai il libro in un luogo che non esiste più, l’edificio neo-razionalista della biblioteca provinciale di Chieti intitolata a Angelo Camillo De Meis, abbandonato a causa dei danni provocati dal terremoto dell’Aquila, che dista circa 70 chilometri in linea d’aria. Dalla terrazza naturale di Chieti, che venendo da Nord sembra addossata sulla Maiella, si può scorgere l’altro punto cardinale dell’Abruzzo, il Gran Sasso: nella piana sottostante, a sud-ovest della montagna si trova la città dell’Aquila.
Nella primavera del 1976, avrei dovuto studiare in vista dell’esame di maturità, e invece girovagavo nella sala conferenze della biblioteca, alle cui pareti vi erano grandi scaffali dedicati alla narrativa contemporanea, che allora significava pubblicazioni del Novecento. Era quella che si dice una biblioteca di tipo aperto, consultabile a piacimento. Non avevo preferenze di autori, passate esperienze di lettura, né un’educazione sui classici. Andavo a naso, e quel titolo mi affascinò. La mole del libro, 696 pagine, non presentava un grande appeal per un lettore un po’ pigro, quale sono rimasto, ma il libro aveva quel titolo.
Il motivo della scelta fu il titolo, che “infiniti lutti addusse agli Achei”.
Un inciso: non smetto di benedire quella biblioteca, i suoi impiegati gentili e colti, degni eredi di Gaio Asinio Pollione, nativo di Teate Marrucinorum (Chieti), passato alla Storia come fondatore della prima biblioteca pubblica nella Roma di Augusto. E che introdusse la pratica delle recitationes, della lettura in pubblico, in apposite sale, di scritti in prosa e poesia.
Divorai il libro in pochi giorni.
Per tutti questi anni ho creduto che fosse stato stampato da un editore minore, ricordavo confusamente, non so perché, Cappelli, Valsecchi. Era introvabile. Solo ora ho visto su eBay che l’editore era Bompiani, una sola copia è reperibile a 39,99 euro. Mi sono convinto solamente vedendo la copertina.
Mi piacerebbe conoscere il retroscena dell’attribuzione del titolo, lasciarsi e non lasciar andare, c’entrava lo stesso Valentino Bompiani? Chissà.
Gli anni occultano fatti, percezioni rilevanti, succede spesso, anzi, sempre. Come un falsario, cerco di ricostruire cosa accadde nel ’76. Consulto qualche agenda del passato, non trovo punti di appoggio.
Annaspo, devo leggere il libro per la terza volta (la seconda fu dall’originale nel ’92) per capire il motivo di tanto vitale interesse, perché lo considero il libro più importante della mia vita.
Mi sono messo di buzzo buono, ho riletto attentamente le pagine dalla 9 alla 23 e ho capito tutto in un lampo. Non c’è bisogno di continuare. Lo farò solo per rispetto di me stesso. Bastano quelle poche pagine, in esse è condensato un piacere incalcolabile, il talento di un grande scrittore.
Non voglio svelare la trama, beninteso. Servono solo alcune informazioni per inquadrare le venticinque pagine in questione. Gabe Wallach/Philip Roth è un giovane docente universitario di Inglese. Il suo collega Paul Herz rimane per strada a causa di un guasto dell’automobile, sua moglie lo chiama per andare a recuperare il marito. Le pagine in questione descrivono il viaggio di Gabe e Libby Herz, due sconosciuti fino a quel momento. Li lega però la lettera inviata dalla madre di Gabe in punto di morte: è rimasta per sbaglio infilata in un libro prestato dal protagonista a Paul, lettera che Libby, che non si è fatta i cazzi suoi, ha letto. Il libro è “Ritratto di signora” di Henry James.
Il romanzo parte riportando il testo della lettera della madre di Gabe, il quale afferma subito dopo: «Nel mio dolore e nella mia confusione, promisi a me stesso che non avrei mai fatto violenza alla vita umana, né a quella degli altri né alla mia». È questa la petizione morale da cui parte il personaggio Gabe/Roth; lascio al lettore scoprire come va a finire.
Il pretesto della lettera è singolare, fatto apposta per indurre i personaggi in uno spazio ristretto di tempo a buttare sul tavolo tutte le loro carte.
Roth riesce in un miracolo. Dispiega a tavolino le contraddizioni non solo dei personaggi, la materia prima di ogni narrativa, ma anche quelle del rapporto scrittore-lettore.
L’incontro tra i due è ruvido, imbarazzante. Non mi trattengo sul loro comportamento, sui loro caratteri, non è necessario. La conversazione si aggancia ai personaggi di James, soprattutto Isabel Archer, ma è un parlare delle loro vite e delle differenze esistenti tra loro. Libby non rivolge mai lo sguardo a Gabe.
Le affermazioni di Gabe/Roth, che scrive in prima persona, sembrano abbastanza univoche.
«La mia prima impressione era stata chiara e netta: professione studentessa, inclinazioni nevrotiche»
«Il mio primo sentimento nei suoi confronti fu la diffidenza»
«La risatina forzata che seguì era un’ammissione di fallibilità, non solo letteraria»
Libby fa un’allusione non proprio gradevole alla lettera e al carattere della madre di Gabe.
«Era turbata da qualcosa di personale e profondo, e io non riuscii a non pensare che si stava comportando molto male»
«Ma lei sembrava incapace di provare compassione per qualcuno che non fosse lei stessa»
«Non ne potevo già più di lei»
Riferendosi al meccanico intervenuto per recuperare la macchina incidentata, Gabe dice a se stesso «Io e lui, grazie a Dio, non eravamo sposati con quella donna»
«Quella con cui era impossibile vivere, adesso ne ero assolutamente certo, era la moglie»
Su Paul Herz, «Mi venne da pensare che, anche se viveva con qualcuno, non si sentiva meno solo di me»
Dove sarebbe il miracolo? Nonostante queste premesse, il lettore è comunque affascinato, stregato dalla nevrotica Libby Herz, dalla sua infelicità, dalla negatività che emana. Naturalmente, Gabe/Roth semina anche considerazioni e sentimenti contraddittori per legittimare l’interesse del lettore per la donna.
La descrizione fisica di Libby e del suo comportamento nell’abitacolo dell’auto crea imbarazzo.
«Ma, in un suo modo bramoso e rapace, non era brutta».
Nell’originale, la frase inizia con “Still, …”. Il traduttore, non so perché, traduce con “Ma”, sarei invece per utilizzare “Tuttavia, …”, dato che la frase è preceduta da un’osservazione non positiva di Gabe su Libby. Invece di “bramoso”, sarebbe meglio “impaziente, ansioso”.
Sfumature, ma cruciali all’interno di un brano denso, contraddittorio.
Il climax viene toccato alla terza pagina.
«Distolsi lo sguardo dalla strada e lei smise di fissare il paesaggio e, con un’occhiata esplicita, udibile come lo scatto di una macchina fotografica, registrammo ciascuno i lineamenti dell’altro».
Game over
MARCELLO LUBERTI
Grazie per la tua descrizione-illuminazione di quell’occhiata esplicita che scioglie-come neve al sole-l’incomunicabilita’e la nevrosi della donna.
Philip Roth è stato un personaggio scomodo per certa America, a me, al contrario, è piaciuto molto. Questa piccola America della piccola provincia, Melting pot del Sogno americano.
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Un bell’omaggio personale e collettivo a un grande della letteratura mondiale, un Kafka ironico a stelle e strisce che come lui sa abitare l’angoscia del vivere e di pensare la morte. Solo con – apparente-maggior leggerezza. La dissolutezza morale dello statunitense medio trova in lui la voce più chiara e densa,mai giudicante dall’alto. Il terremoto, come la guerra, possono abbattere edifici e persone. Non possono annullare il rumore dell’arte e della scrittura. Come accade a te. E ormai non servono più i roghi. Potenza del digitale.. Grazie del tuo bel ricordo Marcello👏
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