IL TEATRO TRA VERITÀ E DENUNCIA: MARIO TRICAMO – 15. Analisi di Ilaria Alpi. Omicidio a Mogadiscio (1999).

di GIULIA MASSARELLI ♦

È il 20 marzo del 1994. Ilaria Alpi, inviata del Tg3 e Miran Hrovatin, operatore televisivo, vengono uccisi in un agguato a Mogadiscio. Il duplice omicidio si presenta subito come una vera e propria esecuzione. Non ci fu errore. Si voleva uccidere!

Dal tono lapidario, le parole vergate sul programma di sala dello spettacolo Ilaria Alpi. Omicidio a Mogadiscio, scritto e diretto da Mario Tricamo, non lasciano scampo a fraintendimenti di qualunque sorta. Parole schiette e dure, incisive e altisonanti.

Dopo Dc9 Itavia: il caso Ustica, S come strage: Piazza Fontana e Vita e morte di Aldo Moro, democristiano, Mario Tricamo ha continuato a concentrarsi su un capitolo tragico della recente storia italiana e, con l’impegno civile che ha sempre contraddistinto la sua ricerca teatrale, ha ricostruito le tappe salienti di quelle che dovevano e tutt’ora devono essere considerate, senza ombra di dubbio, due morti efferate e affatto casuali.

Lo spettacolo di Mario Tricamo si lega a questa passione, alla grande intelligenza professionale di una giovane che voleva fare da sempre questo mestiere. Un teatro d’inchiesta, come quello di Tricamo, è un teatro che si pone domande, innescando dei dubbi. Restano le domande, tante e senza risposta.

Dopo il crudele massacro la verità sembrava venisse occultata con ogni mezzo possibile. Durante le indagini, al progressivo dileguarsi degli oggetti personali dei due inviati, si aggiungevano false testimonianze, prove inquinate, ipocrite manovre di depistaggio e una costante disattenzione degli apparati istituzionali ad accertare la reale dinamica dei fatti.

Difficile ricostruire teatralmente tutto l’excursus della tragedia Alpi, perché la tragedia non sta solo nell’assassinio, ma in quel che avvenne dopo. Nei vari livelli emozionali di racconto della messinscena si inseriscono i verbali del processo, conclusioni con l’assoluzione del somalo accusato dell’omicidio.

L’autore e regista Mario Tricamo con il suo spettacolo, senza la pretesa di sostituirsi alle inchieste della magistratura, ha dato forma drammaturgica agli estratti del processo, agli articoli apparsi sui giornali all’indomani dell’eccidio.

Per scrivere questo testo, l’autore ha preso spunto da L’esecuzione. Inchiesta sull’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Il libro è stato pubblicato dalle Edizioni Kaos, scritto da Luciana e Giorgio Alpi in collaborazione con Maurizio Torrealta e Mariangela Gritta Grainer.

Con Ilaria Alpi. Omicidio a Mogadiscio Tricamo ha avviato un complesso procedimento di decostruzione e ricomposizione del documento, in modo tale da farlo rivivere sulla scena esemplificato nelle parole degli attori. L’autore siciliano sceneggia le fasi dell’affair con la consueta profilatura asciutta di personaggi ritagliati dagli atti del processo frettolosamente concluso e dell’indagine parlamentare. La tesi, non certo esplosiva, è che i servizi segreti guidarono la mano degli omicidi per tutelare gli interessi di politici nella cooperazione in Somalia.

Il copione non segue la divisione in atti, ma è suddiviso in due macro parti, prima e seconda. Come una tragedia greca, pur mancando della presentazione dei personaggi, il testo si apre con un prologo che solitamente ha la funzione di introdurre e presentare i fatti. In realtà, in questo caso ci troviamo di fronte a una sorta di invocazione: si tratta di una preghiera – “vi prego con infausta voce” – al sole e al caos, al giorno e alla notte, come un invito a legittimare il grado assoluto di verità inerente alle parole e ai fatti riportati; dunque un invito a prenderne atto, a fare luce sulle verità occultate, ma anche a chiedere vendetta, giustizia per tutte quelle morti e notti cadute nell’oblio. Il caso Alpi è una storia in parte non ancora risolta, è la storia di un processo con 150 testimoni, dei quali, la maggior parte, ha testimoniato il falso.

La verità, cioè che a sparare fu una mitraglietta, viene espressa da Ilaria Alpi, la quale osserva dall’alto la scena, commenta i fatti e spiega come sono andate realmente le cose. Nella finzione teatrale, la protagonista esplica la verità, che si deve all’autopsia voluta – un anno e mezzo dopo gli accadimenti – dal magistrato Giuseppe Petitto, titolare dell’inchiesta finché non gli fu tolta.

Nello spettacolo portato in scena al Teatro di Documenti, Caterina Casini racconta di essere emersa da una scala come se venisse dagli inferi, come un corpo di donna votato al ricordo. L’attrice invitava il pubblico a essere seguita, dunque a cambiare scenario: gli spettatori in questo modo raggiungevano una sala rettangolare e sedevano ai lati opposti, lungo il perimetro della stanza, quasi fossero giurati pronti alla sentenza. Intanto gli attori spiegavano, si interrogavano a vicenda, suscitavano perplessità.

Lo slittamento dal ruolo dell’attore-personaggio a quello di cittadino-persona, desideroso di conoscere i mandanti impuniti della strage di Mogadiscio, e le confessioni, appena sussurrate, a tu per tu con lo spettatore infrangono il meccanismo dell’illusione e frantumano le unità spazio-temporali della rappresentazione in cui si intrecciano costantemente ricordi e testimonianze, luoghi vicini e lontani, passato e presente.

Si tratta di un’inchiesta teatrale, nella misura in cui il teatro può e deve essere denuncia civile. In questo spettacolo l’azione è ridotta all’osso e i diversi spazi del Teatro di Documenti scandiscono i momenti di una partitura vocale che alterna monologhi e dialoghi con fluida continuità.

Pure per questa pièce, come era già stato per Aldo Moro, la rappresentazione si disloca sui diversi piani dell’edificio teatrale creato da Luciano Damiani, seguendo, con gli spettatori, un percorso labirintico.

Durante tutto lo spettacolo a dare continuità all’azione era un solo personaggio: Ilaria Alpi – Caterina Casini – che, come un fantasma, fungeva da io epico e guidava lo svolgersi della vicenda. La messinscena procedeva per quadri successivi e con un ritmo serrato, a tratti sottolineata dalla musica dal vivo (anche in questo caso, le musiche originali erano di Loredana Palumbo), soprattutto da percussioni che, come nei procedenti lavori, accompagnavano, rafforzavano, scandivano la parola.

L’indulgere di Mario Tricamo sul documento non si esaurisce questa volta nel suo abituale teatro d’inchiesta. Alla lettura di deposizioni, interrogatori e testimonianze, riadattati con dovizia di particolari, si alternano dialoghi e monologhi di forte impatto teatrale, come la conversazione fra il generale Fiore e il senatore Falqui, tutta giocata sul filo dell’umorismo, l’incontro di Ilaria Alpi con il sultano di Bosaso in cui si dà spessore scenico al personaggio della giornalista e, soprattutto, l’intenso monologo pronunciato nel finale da Caterina Casini-Ilaria Alpi che conferma l’audace fisionomia della protagonista.

“Si vadano a prendere / tutti quelli che hanno mentito. Bisogna / cercare la verità, la verità”.

Dall’inizio alla fine, l’autore sottolinea, con la ripetizione, la parola centrale, il fulcro e lo scopo del suo teatro: la ricerca della verità.

Da sola, Caterina Casini, in Ilaria Alpi, inveisce contro i suoi assassini, li accusa e li commisera senza rassicurarli. Con queste parole, forti e ferme, la protagonista si appresta a terminare lo spettacolo; parole che rimbombano nella testa dello spettatore: “Ma io andrò avanti”.

Per Mario Tricamo, fine conoscitore di Artaud, Piscator, Brecht e delle avanguardie storiche del Novecento, il teatro deve far pensare, smascherare le menzogne politiche, abbattere il muro di gomma della sopraffazione con il fine ultimo di spingere il pubblico verso una sana presa di coscienza. Il drammaturgo civitavecchiese aveva una chiarissima vocazione, un teatro che sta a metà tra la forma teatrale tradizionale e il giornalismo d’inchiesta. Sembra un giornalista che ha messo in scena i suoi articoli di approfondimento sui fatti di cronaca. E anche la struttura interna che Tricamo ha dato ai suoi lavori è una struttura quasi giornalistica, perché il regista siciliano – che ha fatto parte di una generazione che ha creduto molto al teatro epico, politico, d’inchiesta – reputava che il teatro non poteva essere puro divertimento, ma doveva essere svelamento, politicamente impegnato, cioè essere un teatro inserito all’interno dei movimenti e problemi della società. E segnare colpire profondamente tutte le disfunzioni che all’interno delle società si possono manifestare. Il teatro doveva insegnare, vivere, propagandare una verità, utile alla società.  Il teatro come tutte le forme d’arte deve essere la coscienza critica della società.

Questo è stato il teatro di Mario Tricamo: il teatro come strumento di partecipazione alle vicende della storia, come strumento di conoscenza e di educazione, con gli strumenti offerti nel Novecento da grandissimi autori di cui sentì sicuramente l’influenza. Il teatro non può essere soltanto evasione, divertimento, passatempo.

Il teatro si fa cronista del tempo, infatti, a sei anni di distanza dall’accaduto, Mario Tricamo porta in scena la sua ultima denuncia teatralizzata: Ilaria Alpi, omicidio a Mogadiscio. Anche per questo motivo lo spettacolo ha creato forte commozione. Gli stessi genitori della giornalista hanno assistito alla rappresentazione e hanno interagito con l’autore Mario Tricamo durante la stesura del copione: parole altisonanti, sfoggio di eloquenza finalizzato a istillare dubbi e smuovere pensieri.

Le testimonianze, false o veritiere, aperte o reticenti, di quanti ebbero in vario modo un ruolo nel dramma, rendono il suono aspro della realtà. E anche i morti, le vittime, Ilaria e Miran, riprendono voce, dicono la loro.

La finzione ha così il potere di stimolare una seria riflessione sulla realtà e il teatro diventa uno strumento necessario per mantenere viva la memoria degli spettatori.

La pièce di Mario Tricamo e dell’Associazione Trousse serve a non dimenticare. Troppo spesso si scatena l’interesse del pubblico in prossimità del momento in cui avviene una tragedia, per poi cadere tutto nell’oblio. Ma c’è chi non dimentica e il teatro ha il diritto e il dovere di non fermarsi e di continuare a ricercare la verità.

GIULIA MASSARELLI                                                                                                               (fine)