“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – LA BELLEZZA VI SEPPELLIRÀ.
di STEFANO CERVARELLI ♦
L’inverno era arrivato improvvisamente quella mattina: nebbia, freddo, cielo grigio avvolgevano Praga.
Nel piccolo Caffè, arredato con mobili di legno scuro, piccoli tavoli e specchi, che ricordava quello d’inizio secolo, si stava bene; c’era un gradevole tepore e nell’aria un buon profumo di caffè e di dolci appena sfornati.
A uno di quei piccoli tavoli sedevano un uomo e una donna, entrambi per opposti motivi, palesavano un certo disagio; lei aveva entrambe le mani strette intorno alla tazza calda del caffè osservando il vapore che saliva dal liquido scuro; lui, in un completo grigio da uomo ”importante”, appariva imbarazzato dal trovarsi lì e forse stava rimpiangendo il momento in cui aveva proposto alla donna di andare a prendere un caffè; era accaduto quando lei poco prima, improvvisamente, tornando da un lontano passato, si era presentata nel suo ufficio, al Comitato Olimpico.
Quasi intuendo i suoi pensieri Vera iniziò a ricordare.
“Era agosto, ad ottobre ci sarebbero state le Olimpiadi di Città del Messico, erano mesi, quelli, dove ogni allenamento era determinante, non potevi permetterti di saltarne uno, avresti compromesso le possibilità di conquistare una medaglia.
Ricordi Jaromir? Avevamo i carri armati sovietici sotto casa; io avevo sostenuto Dubcek, avevo firmato il MANIFESTO DELLE DUEMILA PAROLE di Vakulik, ricordo ancora come finiva: ”Abbiamo di nuovo la possibilità di prendere nelle nostre mani la nostra causa, che ha il titolo provvisorio di socialismo e darle un volto corrispondente alla nostra buona fama, alla buona opinione che abbiamo di noi stessi. La primavera è appena finita e non tornerà mai più. L’inverno ci dirà tutto”. A gennaio, Jan Palach andò a San Venceslao con una tanica di benzina: fu la parola fine.
Ricordi Jaromir? Ricordi i giovani che ambivano a riformare il Paese, chiedendo maggiori libertà individuali? Io, come ben sai, fui costretta a piegarmi, ma non certo a spezzarmi; fui costretta a lasciare la città, non potevo più allenarmi, non potevo prepararmi per le olimpiadi; avevo ventisei anni, non ci sarebbero state altre olimpiadi per me”.
L’uomo la interruppe: ” Invece ci furono” disse inopportunamente non rendendosi conto che mai si deve interrompere l’emozione dei ricordi.
Vera lo guardò con quella sufficienza di chi si rende conto, capisce, che l’interlocutore non potrà mai essere alla tua altezza: non ha fatto le tue stesse esperienze umane.
La donna, tenendo sempre tra le mani la tazza nella quale era stato versato altro caffè caldo, riprese a ricordare.
“Andai da mia nonna, in campagna, perché pensai che se, per caso, mi fosse stata data la possibilità di andare ai giochi, non avrei dovuto farmi trovare impreparata, ne avrei portato il rimorso per tuttala vita.
In campagna mi allenavo sollevando e trasportando sacchi di patate per fare i pesi, tagliavo la legna, usavo il tronco di un albero adagiato a terra come trave, il prato vicino casa era lo spazio dove eseguivo esercizi di corpo libero: insomma, caro Jaromir, imparai ad arrangiarmi con quello che c’era”.
Con una smorfia che nelle intenzioni doveva essere un sorriso aggiunse ”Tutto questo è così patetico che un giorno a qualcuno potrebbe venire l’idea di farci un film!”. Poi dopo qualche attimo di silenzio durante i quali aveva rincorso un pensiero disse: ”Ad Emil andò peggio, lo costrinsero a lavorare in una miniera di uranio”. Ancora silenzio.
“Sai, però, quella situazione aveva anche un vantaggio: gli esercizi alla trave dovevano essere così perfetti perché se avessi fatto un errore l’avrei pagato caro: sicuramente mi sarei rotta qualcosa; poi vuoi mettere quale forza acquistano gambe e piedi allenandoti sull’erba dove ovviamente, non ricevi quella spinta che ricevi dal tappeto? E poi venne quel giorno, quel giorno che tu dovresti ricordare altrettanto bene, come me, perché, se non sbaglio eri un giovane segretario del Comitato con davanti un brillante futuro!”.
Quelle parole misero ancor più in imbarazzo Jaromir, che distolse lo sguardo dal viso di Vera che continuò: ”Lasciai la campagna, tornai in città ed entrai in quel bel palazzone, dove oggi, dopo tanti anni, sono rientrata”.
Qui l’interruzione dell’uomo fu perentoria.
“Perché sei tornata Vera ?”.
La donna non rispose subito, quasi indecisa se farlo o no, poi disse: ” Ci credesti? Per chiedere un lavoro Jaromir. Ma adesso che lo sai fammi continuare. Mi fu detto che il governo riteneva meno dannoso farmi andare alle olimpiadi, piuttosto che tenermi a casa. Bisognava riconquistare la fiducia della gente e la gente, come tu ben sai, mi considerava con la stessa venerazione che viene rivolta agli dei”.
La donna s’interruppe per guardare l’uomo e studiarne la reazione: come dimenticare che era stato lui a fare la telefonata con la quale Vera veniva convocata al Comitato Olimpico?
Jaromir rimase zitto. Cosa poteva dire davanti allo sguardo gelido della donna?
“Ebbi la possibilità di allenarmi, per qualche giorno, in una vera palestra a Città del Messico. Loro, le russe, erano già là da settimane, si erano allenate per bene, si erano acclimate all’altura con tutta tranquillità. Erano le mie avversarie più forti: non avevo alcuna possibilità”.
“Ed invece…” la voce di Jacomir spezzò ancora una volta l’emozione dei ricordi di Vera.
“Già….ed invece….invece l’ho capito subito dal primo giorno di qualificazione. Quando saltavo sembrava che non dovessi più tornare a terra, i gesti mi venivano con una naturalezza sorprendente, non dovevo neanche impegnarmi troppo a pensare come farli. Li avevo memorizzati attimo per attimo, nei mesi precedenti, negli allenamenti sul prato, sul tronco, erano istintivi, come per noi bere adesso questo caffè”.
“Ma tu parli, parli ed il caffè intanto si sta raffreddando: ne vuoi ancora?” disse l’uomo con tono affettuoso, ricevendo in cambio un “no, grazie” ed uno sguardo altrettanto affettuoso di Vera.
“Sai Jaromir, la trave, quella vera, mi sembrava un’autostrada: a pensare che avevo affinato l’esercizio su di un vecchio tronco bitorzoluto e sconnesso! Alle parallele asimmetriche mi muovevo come se fossi a casa mia….Vincere la medaglia d’oro nel concorso individuale è stata la vittoria più facile della mia vita”.
Vera si ferma, beve un sorso di caffè, oramai quasi freddo. Seppure non è più la ragazza di quel tempo, i suoi gesti hanno mantenuto un’eleganza e una grazia innaturale: ancora è bella.
Jaromir ne rimane sopraffatto, tra loro nuovamente silenzio; solo il brusio del locale.
Un silenzio evocatore di tanti ricordi e nello stesso tempo un silenzio premonitore: uno dei momenti più imbarazzanti ed emotivamente struggenti della sua vita si stava avvicinando.
Si preparava ad ascoltare quello che Vera gli avrebbe detto e che conosceva bene, perché quel giorno lui era presente; avrebbe rivissuto il ricordo del momento più splendido e doloroso della sua vita.
Anche Vera sa che dopo tanti anni è giunto quel momento e si prepara, posa la tazza sul piccolo tavolo, intreccia le mani portandole in grembo, si guarda intorno, poi guarda il soffitto, quasi a cercare in quel confortevole ambiente sostegno a quanto andrà a dire; questa volta anche lei è imbarazzata, l’emozione dei ricordi l’attanaglia, le scendono lacrime che lei asciuga subito e poi sapendo che non può più rinviare, riprende a ricordare.
“Arrivammo seconde nel concorso a squadre e poi c’erano le finali individuali.
Vinsi senza fatica alle parallele simmetriche ed al volteggio; avevo vinto anche alla trave, ma alla russa diedero un punteggio più alto del mio” disse questo con tono naturale: ” Lo sapevano tutti che alle olimpiadi accadeva che venissero premiati atleti non meritevoli, solo per fare un favore a federazioni potenti, punti affatto meritati ma che sarebbero poi serviti come scambio di voti in qualche elezione di politica sportiva. E l’Unione Sovietica era una federazione potente. Vero Jaromir?”.
La vita nel caffè intorno a loro era come dissolta.
“Poi ci fu il corpo libero. Sapevo benissimo che nessuna delle altre ginnaste mi avrebbe battuto.
Ricordi Jaromir? Sul quel tappeto volavo, diagonali perfette, raccordi da far invidia ad una ballerina classica. Quella volta sarei potuta andare avanti per ore, senza fare errori, e sempre con il sorriso di chi ha la coscienza pulita e l’anima leggera; certo non posso negare che il cuore fosse pesante, ma non era colpa mia”.
Qui Jaromir prese la parola, deciso ad entrare nel mondo di quei ricordi.
“Come si può dimenticare ciò che avvenne al termine della tua prova? Tutto il pubblico presente allo stadio della ginnastica si alzò in piedi, ci fu in un applauso infinito, fosti acclamata per molti minuti e abbracciata da tutti, compagne, avversarie, tante di quelle giovani ragazze piangevano d’emozione: fu un tripudio Vera!”.
“Già, un tripudio…andai in testa alla classifica e ci rimasi-continua l’ex ginnasta-ma poi fui raggiunta da Larisa Petrik.
La russa fu protagonista di una prova buona, senza difetti, nè errori, ma solo buona.
Ricordo Larisa, una ragazza simpatica che, però, prima di allora, non aveva vinto niente così non vinse mai niente dopo. Lo so, dirai che il mio non è altro che un commento acido di una vecchia zitella!”.
Nel dire questo per la prima volta Vera si lasciò andare ad un ampio sorriso come se quei ricordi, quel parlarne, le liberassero il cuore dal peso che teneva sopra fin dal 1968. Ma sapeva ….
“Salimmo insieme sul gradino più alto, ci fu la premiazione e poi….e poi ci furono gli inni”. Vera disse queste ultime parole raccogliendo il fiato dentro di sè per poi tirarle fuori di getto e nei suoi occhi apparve tutto il suo orgoglio: come allora a Città del Messico.
”Quando suonarono l’inno sovietico, voltai la testa di lato ed abbassi lo sguardo verso terra, fissando un punto del muro scrostato, una cosa brutta, che mi aiutasse ad avere un’espressione cattiva, ma non ci riuscii, non ero il tipo. Ne venne fuori così un’espressione pacatamente distante, triste, ma anche bella come un fiore che sta per chiudersi quando il suo tempo sta per finire”.
Jaromir ascoltava quelle parole come rapito, era la prima volta che sentiva da Vera il racconto delle sue sensazioni di quei momenti.
“Il primo piano di quell’immagine andò in mondovisione, entrando nelle case di mezzo mondo, portando quella mia espressione strana, sì preparata, ma anche così spontanea”.
“Ma tu…” l’uomo provò a dire qualcosa, ma fu subito interrotto.
“Ma tu cosa?-replicò Vera con veemenza. ”I sovietici avevano invaso il mio Paese con i carri armati, avevano seppellito i sogni di una nazione in maniera brutale, usando la forza: come pensi che avrei potuto ascoltare il loro inno senza fare niente? Avevo deciso che l’avrei seppelliti sotto la bellezza, l’unica arma che avevo. E l’ho fatto!”.
Vera finisce il caffè, ormai freddo e poi altrettanto freddamente lancia la stoccata.
“Tu eri lì, non è vero?”.
Jaromir deglutisce, raccoglie le sue forze, trema un po’. ”Ho visto la tua prova, è stata la cosa più incantevole che abbia visto in vita mia”.
S’interrompe quasi a raccogliere i pensieri, metterli ordine, cercare di dargli un senso; ora era una persona importante, ma Vera l’aveva sempre fatto sentire inadeguato, particolarmente quando era innamorato di lei. Ed inadeguato si sentiva ancora adesso: lui funzionario del Comitato Olimpico davanti a una donna delle pulizie che si era rivolta a lui per mendicare un lavoro e questo lo sorprese perché Jaromir non sapeva che Vera aveva divorziato, due anni prima, nel 1987 da Josef Odložil, l’atleta che aveva sposato proprio a Città del Messico subito dopo i giochi e dal quale aveva avuto un figlio, Martin, e una figlia Radka.
L’uomo riprese a parlare e nella sua voce trapelava tutto il suo pentimento.
“Ci penso quasi tutti i giorni e penso che avrei voluto avere il tuo coraggio. Ma c’è chi nasce per scavalcare il mondo, affrontarlo e chi, invece, per attraversalo, come me.
Ricordo bene quei giorni al Comitato Olimpico, i capi del partito chiesero la tua testa su pressione dei sovietici, ci è mancato il coraggio, la forza di opporci.
Hanno voluto che tu non fossi più tesserata con il conseguente impedimento di partecipare alle gare, vollero anche che tu non potessi più frequentare palestre, né spostarti, né lasciare il Paese. Ci dissero che dovevamo dimenticarci di te e convincere i nostri connazionali a fare altrettanto.
Io ho passato i successivi venti anni a seguirti da lontano, senza nemmeno avere il coraggio di fare una telefonata per farti coraggio. Abbiamo sbagliato, tremendamente sbagliato, e tu oggi sei tornata per dare un volto a questo errore”.
“Pensi che questa confessione possa averti riabilitato?” replicò Vera che poi continuò: ”La nostra generazione ha ereditato una situazione difficile, alcuni di noi hanno provato a rimediare, altri lo hanno impedito. Tu sei stato tra questi, il mio sguardo abbassato di pena e di disprezzo di quel giorno è rivolto anche a quelli come te”.
Vera Caslavska, sette medaglie d’oro alle olimpiadi, ventidue medaglie d’oro in totale mettendo insieme anche Mondiali ed Europei, imbattuta in tutte le competizioni nazionali ed internazionali dal 1964 al 1968, unica ginnasta della storia, sia maschile che femminile, ad aver vinto l’oro olimpico in ogni specialità individuale, una delle più grandi atlete di sempre e adesso donna di pulizie in una fabbrica di Praga, si alzò da quel piccolo tavolo di quel vecchio caffè dove si stava caldi e si avviò verso la porta dove fuori l’aspettava il rigore del primo freddo.
Jaromir la seguì con lo sguardo poi di scatto si alzò, attraversò la sala, raggiunge la donna sulla porta.
“Vera!”.
Lei si voltò.
“Vera, domani vieni alla palestra della federazione di ginnastica; la troverai cambiata, ma sono sicuro che ti ci troverai bene, c’è molto lavoro da fare…..abbiamo bisogno di te”.
Per la prima volta l’uomo aveva un’espressione felice sul viso.
I due uscirono insieme nella nebbia di Praga.
STEFANO CERVARELLI
Fu accusata “di influenze scorrette”. Grande donna e gran bel racconto
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