Tarabas, metamorfosi di un violento
di CATERINA VALCHERA ♦
Mi sento, oltre che preoccupata come tutti, stordita. Stordita dai rumori dei bombardamenti bellici e dai rumores quotidiani, dalla martellante e divisiva battaglia (dovrei dire guerra?) delle idee, dalla carneficina operata dall’informazione mediatica e operante soprattutto sui social. Stordita dal senso d’impotenza e dalla difficoltà a discernere, nella mole di discorsi storici, geo-politici, economici, un indicatore di forza equilibrata, di giudizio che non sia apodittico ma assertorio in senso kantiano. Non esiste verità di fatto in questo scontro dentro lo scontro e io, che di sola letteratura un po’ m’intendo, annaspo. E alla letteratura ripenso. E proprio oggi, mentre sento parlare di pagamenti in rubli, mi ritorna alla mente un personaggio uscito dalla penna di quel meraviglioso scrittore mitteleuropeo che è Joseph Roth: Tarabas. Nell’agosto dell’anno 1914 viveva a New York un giovane di nome Nicolaus Tarabas. Era cittadino russo. Veniva da una di quelle nazioni che in quel tempo erano ancora sotto il dominio del grande zar e a cui oggi si dà il nome di “popoli della frontiera occidentale”. E’ l’incipit del romanzo che fa risaltare al lettore odierno il rovesciamento di prospettiva geografica rispetto all’oggi. Tarabas, figlio di borghesi benestanti di Pietroburgo, studente rivoluzionario, una volta assolto al processo intentato contro il suo gruppo di appartenenza, viene spedito dal padre a N.Y., città che suscita in lui un odio immediato. Città di pietra : così la chiama con definizione altrettanto lapidaria. Partito per la grande guerra, Tarabas ne sperimenta e ne incorpora tutte le violenti incongruenze, le discriminazioni sociali, l’incomprensibilità dei grandi fatti per i poveri cittadini di Koropta, dove la “guerra aveva ficcato nella pietra le sue dita assassine”. I semplici commilitoni, tra cui un ebreo rosso e ateo, con i quali condivide l’assurda esperienza bellica con “indiscriminata passionalità”, bevono per dimenticare la libertà del passato, “dolce sorella dell’amara fame” e l’incertezza disperante del presente, poiché non sanno nulla della nuova patria, non sanno a chi “appartenga”. Con pochi ma durissimi accenti, Roth tocca il grande tema della letteratura mitteleuropea, quello della fine dell’impero e dell’imperatore-padre perduto, che nella sua scrittura trascinano molti altri sotto-temi. Tra questi mi sembrano sempre suggestivi per il lettore contemporaneo il tentativo di esorcizzare il passato, l’ambiguo rapporto nei confronti della “civilizzazione occidentale”, del progresso-regresso tecnico industriale sentiti come inevitabili ma sgraditi, l’orrore della guerra, la nostalgia per una realtà irrimediabilmente perduta, l’”inabilità non soltanto alla vita, ma anche alla morte”. Di famiglia ebrea, ma non ebreo dichiarato e neppure cattolico, nato a Brody in Ucraina, Roth è l’interprete della condizione lacerante dell’ebreo, di cui nel romanzo fa l’oggetto della furia selvaggia, della collera incontenibile e immotivata dei contadini: nei fragili ebrei, nei loro passi saltellanti essi scorgevano l’origine infernale di quel popolo che si nutriva di commercio, incendio, rapina e latrocinio. Lo stereotipo che ancora esiste e resiste. [..]Con un gesto altamente simbolico, Tarabas strappa i peli della rossa barba dell’ebreo. Fino ad allora strumento della furia collettiva scatenata nel pogrom contro gli ebrei, dispotico e prevaricatore con le donne, affetto dalla volontà di dominare la vita proprio perché la teme,Tarabas ha avuto come unica patria la guerra e come unica casa la terra “odorosa di betulle” e la natura; ma ora inizia una sorta di vagabondaggio espiativo, diventa un senza dimora, un barbone deriso da altri barboni, scambiato per delinquente dai ricchi mercanti, un soggetto che riflette sul suo Io e su un passato che vuole redimere, su un padre autoritario e mai amato, su una madre che parlava alle galline.. Una grande allegoria del declino di un’intera epoca e del bisogno di rinascita, ma anche e soprattutto la vicenda di una liberazione dalla pulsione di morte che soggiace nell’uomo al suo delirio di potenza. Verso la fine del romanzo Tarabas che già da tempo avvertiva l’alito della morte va in cerca dell’ebreo, lo trova impazzito e gli chiede mendicando un tozzo di pane. Solo allora sente che “è tutto a posto”. Sulla sua tomba il frate Eustachius farà scrivere l’epitaffio “Colonnello Nicolaus Tarabas un ospite su questa terra”. Cupo come un pozzo profondo e scuro, Tarabas mostra molte affinità con i personaggi “mostri” del romanzo russo, ma mi sembra possa essere altamente rappresentativo della realtà che stiamo vivendo. Senza indulgere a spiegazioni sentimentalistiche o edificanti, attraverso il destino preconizzato da una chiromante a Tarabas, Roth ci consegna una verità altrettanto fatale : la violenza, apparentemente vincente, col tempo si manifesta a sé stessa e si scopre sempre più debole perché è piena di odio per la vita.
CATERINA VALCHERA
Ottimo, Caterina, ❤️
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Un articolo bello e ricco di suggestioni. E grazie di aver proposto uno scrittore straordinario come Joseph Roth che, con i suoi romanzi e i suoi racconti, ha narrato come nessun altro la “finis Austriae” e le metamorfosi della Mitteleuropa fra Ottocento e Novecento.
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❤️
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Potente ritratto. Ci ho ritrovato echi di un altro grande romanzo di Roth, Giobbe.
Eccellente lavoro, Caterina.
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Il colpo d’ala di Caterina ci incoraggia a credere nella letteratura! Forse in questo momento più della storia… dalla quale ci sentiamo traditi o perlomeno delusi!
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