Parola di Pilsops

intervista a GIUSEPPE NUCCITELLI a cura di ETTORE FALZETTI

È da pochi giorni in libreria Parola di Pilsops. Le circostanze della passione, un romanzo epistolare scritto da Giuseppe Nuccitelli, insegnante di filosofia e scienze umane del liceo Guglielmotti di Civitavecchia, ed edito da Gangemi.

Ne parliamo con l’autore.

Cominciamo dal titolo: chi è Pilsops?

Non è nessuno, o meglio: è un entità surreale che, in uno dei capitoli iniziali, scaturisce dalla penna di un liceale e che entra, proprio per la sua aleatorietà, nel lessico del protagonista.

 

E chi è il protagonista?

La narrazione si dipana come un dialogo a distanza tra un prof e una studentessa, la quale cerca in in lui un riferimento nel proprio tormentato itinerario di crescita esistenziale e sentimentale. In un certo senso, però, i ruoli si invertono, e sono gli interrogativi di Nina a guidare il prof in un percorso a ritroso attraverso la sua personale esperienza della passione.

Quindi, le “circostanze della passione” richiamate nel titolo sono il tema del dialogo tra i due?

Sì, questo è l’asse centrale della narrazione. Però, lo sfondo sul quale il dialogo prende consistenza – quello della scuola – non è soltanto un’ambientazione:al contrario, si espande ben presto – con i suoi avvenimenti minori, inquietanti, teneri o folli – in una seconda dimensione strutturale del romanzo, dalla quale proviene appunto l’altra metà del titolo.

Insomma, possiamo dire che il romanzo parla di amore e di scuola?

Sì, nella speranza che il suo intreccio resti fedele a quel che essi hanno in comune.

Ovvero?

Quello di essere due ambiti dell’esistenza nei quali si debutta ogni giorno, nel senso che tutta l’esperienza che si può avere non consente mai di prevedere quel che veramente accadrà, quando una nuova generazione, o anche un nuovo studente, entra in un’aula, o quando una nuova persona entra in camera nostra.

Però, leggendo il testo salta agli occhi che i termini ‘amore’ e ‘scuola’ non vi compaiono mai.

È vero, e neanche i loro derivati. A un certo punto, durante la prima stesura, ho cominciato ad avvertire una fitta per una certa sopraffazione che quelle parole operavano sul testo ogni volta che vi comparivano. La sopraffazione della banalità, della retorica, della ripetizione che termini abusati come quelli in questione si portano dietro. Insomma, la neutralizzazione di quell’imprevedibilità di cui dicevamo poco fa.

 

E quindi hai deciso di espellerli?

Non esattamente. Inizialmente ho cercato di renderli meno frequenti, ma così facendo mi sono reso conto che se ne poteva, generalmente, fare a meno senza troppe complicazioni. Alla fine, ho fatto piazza pulita. Anche perché, mentre correggevo le bozze, mi sono reso conto che – al di là dei temi di superficie – c’era un terzo e più profondo argomento che percorreva tutte le pagine.

Vale a dire?

Mentre tentavo di eliminare i refusi e di asciugare il più possibile la prosa, mi è parso di scorgere qualcosa all’orizzonte di ogni capoverso: una sorta di agio congenito nella vita, precedente e resistente a ogni esperienza, una specie di senso del bene che accomuna i nascituri ai moribondi, che ci porta verso gli altri e genera appunto l’imprevedibile. In certe proiezioni, come l’amore e la scuola, più autenticamente che in altre.

Per dir la verità, l’imprevedibile raccontato nel testo sembra avere diverse facce, e non in tutte il bene appare immediatamente riconoscibile.

È vero: l’imprevedibile a volte può essere anche brutale, o traumatico. Comunque, poco edificante, o folle come tante cose che avvengono nelle relazioni sentimentali e anche nelle scuole. Si possono negare tutti questi aspetti, facendo finta che tutto vada bene. O si possono accettare, proprio perché in questa apertura alla verità (della quale la narrazione è una forma) prevale quell’agio fiducioso di cui dicevo prima.

 

C’è un personaggio nel racconto che, secondo te, rispecchia più di altri questa propensione profonda al bene?

No, non direi. In un certo senso potrebbe esserlo il tormentato gatto Poe, il quale non è più davvero felino ma non può divenire umano a tutti gli effetti. Poe reca con sé quella testimonianza genuina del bene che gli proviene dal suo essere pur sempre un animale, vale a dire dallo stato di natura; tuttavia, non potendo farsi umano, non può davvero chiudere il cerchio del bene, ritrovandolo a valle della perdita di quello stato.

 

Tu insegni al liceo: quanto c’è di autobiografico nel racconto?

Tutto e niente. Tutto nel senso che non si può raccontare qualcosa che non si è vissuto. Niente se si considerano vissuti solo quelli dell’esperienza “reale”, e non quelli di tutte le altre dimensioni che ci costituiscono. In realtà, èÈ stato come mettere tutte le sfere del mio vissuto in un frullatore e amalgamarle in una ulteriore dimensione: quella della narrazione.

A quale lettore si indirizza il tuo libro?

A un lettore sobrio e disponibile ad attardarsi tra le sfumature. “Respira, sorridi, procedi lentamente”: questa è forse il più noto degli insegnamenti di Tich Nath Han, recentemente scomparso. Ecco, mi piace pensare a lettori non frettolosi che, qua e là tra le pagine del libro, si scoprissero a respirare più in profondità e a sorridere.

 

E come ti sembra vada l’accoglienza del libro?

È ancora presto per dirlo, in quanto è appena uscito. Certo, si tratta di un azzardo. Pare che l’industria editoriale al momento punti su autori giovani che scrivono su tematiche generazionali. Parola di Pilsops è un racconto scritto da un autore di sicuro non giovane e da un punto di osservazione che tenta di guardare proprio altrove rispetto ai dislivelli generazionali. Speriamo che la fortuna veda in questo azzardo una forma di audacia.

ETTORE FALZETTI