VOLARE… CENTODIECI ANNI FA!

di FRANCESCO CORRENTI

«Penso che un sogno così non ritorni mai più…» Ricordo ancora quella serata della “tre giorni” del Festival di Sanremo del 1958, in cui Domenico Modugno e Johnny Dorelli ottennero la trionfale vittoria con la canzone Nel blu dipinto di blu, di Franco Migliacci e dello stesso Modugno, che diventerà notissima ovunque nel mondo come Volare e ci farà sentire più allegri, più colorati, più moderni… Il giorno dopo, il 2 febbraio, avrei compiuto 19 anni, da un anno ero maggiorenne e dal 5 novembre dell’anno prima ero iscritto alla Facoltà di Architettura della Sapienza. Che fossero anni di sogno, credo proprio di non poterlo dire, visti ora dopo 64 anni vissuti con tutte le infinite vicende di una esistenza umana, ma sicuramente erano anni di sogni, come devono essere, proprio per definizione, quelli del compimento di un periodo della propria vita, dell’inizio d’un nuovo ciclo di studi a lungo atteso e del verificarsi di tante novità, promettenti, allettanti e seducenti, in qualche modo espresse nella nostra mente, nelle nostre aspirazioni, dal ritornello di quella canzone, da quella parola gridata, “Volare”.

Volare, figura 1

Volare, del resto, era stato per millenni il bel sogno, l’aspirazione, il desiderio dell’umanità, con i tentativi ben noti e i tanti rimasti a …terra, falliti e dimenticati. Fino alla realizzazione di quel mezzo per volare chiamato aeroplano e di altri ancora. Parlare di aeroplani significa oggi affrontare un argomento molto familiare a tutti, per dire qualcosa di un mezzo di trasporto usuale, normale, su cui eventualmente c’è da osservare che viaggiare in aeroplano non è più il mezzo più rapido per spostarsi sulle brevi distanze, perché ad esempio da Roma a Milano ci si mette molto meno tempo in treno, tenendo conto del tempo per raggiungere l’aeroporto, del traffico, del dover arrivare prima e così via. La nostra idea di aeroplano, poi, si traduce in immagini di grandi macchine alate, di forma affusolata e aspetto ben solido, metallico, capace di trasportare un gran numero di passeggeri, e quindi anche truppe, oppure oggetti molto grossi, manufatti industriali, veicoli, armamenti.

Ma non voglio parlare di questo, voglio parlare invece dell’aeroplano con quella angolazione che, in vario modo, è lo scopo di questi scritti, altrimenti di scarso interesse. E cioè di essere una testimonianza di fatti o di cose dei tempi passati, diretta perché personalmente conosciuti – quando possibile – o indiretta ma precisa, perché tratta da fonti certe e risultate veritiere. In questo caso, ho voluto prendere spunto da un libricino di poco spessore, 24 pagine, per essere precisi, trovato nella biblioteca di mio nonno Francesco che adesso, beh, da una cinquantina di anni, è nel mio studio a Roma, venuta dalla Sicilia. L’opuscolo, del formato di circa 19 per 12 centimetri, ha una copertina grigio verde con le scritte incorniciate nello stile del tempo, con svolazzi un po’ Liberty. L’autore è l’ingegner professor V(incenzo?) Colaciuri e il titolo è proprio L’aeroplano, poi tra parentesi “Trattazione popolare” e segue un sottotitolo che è il sommario dell’opera: Cenni storici sulle macchine volanti; Classificazione degli apparecchi di aviazione; L’aeroplano: considerazioni tecniche e funzionamento; Le colpe dell’aeroplano. Edito a Catania dal Cavalier Nicolò Giannotta, Editore, Libraio della Real Casa, nell’anno 1912. Un occhiello sopra il titolo chiarisce l’occasione della stampa, le “Gare di aviazione” organizzate a Catania nel settembre 1912. Volare, figura 2Sulla retrocopertina, un piccolo fregio – una ruota dentata e un viso femminile entro un doppio nastro a volute – ed in basso: Prezzo Cent. 40. La data mi fa squillare un campanello, anzi a ben pensarci, è il suono vibrante, metallico, diciamo il trillo, d’una vecchia sveglia, quella comprata da un rigattiere ad Alberobello, in un viaggio in Puglia nel ’67, che ha sul quadrante una scena di battaglia della guerra italo-turca. Si vedono i soldati italiani in divisa grigioverde con il casco coloniale, chiaramente vincenti, avanzare sventolando il tricolore di allora, fregiato dello stemma sabaudo, e incalzare quelli turchi, con fez o turbanti e il drappo verde dalla mezzaluna e la stella, sul punto di arretrare in disordine. In effetti, gli anni sono quelli. La guerra è iniziata nell’autunno del 1911, con lo sbarco a Tripoli – “bel suol d’amore” – delle truppe italiane al comando del generale Carlo Caneva, ed è proseguita con la faticosa conquista della Tripolitania e poi della Cirenaica, finché l’aumento del contingente e l’estensione del conflitto alle isole turche dell’Egeo – con l’occupazione di Rodi e del Dodecaneso da parte della Regia Marina italiana – costringono l’impero ottomano a riconoscere la sovranità italiana su quei territori, sottoscrivendo la “Pace di Losanna” il 12 ottobre 1912.

Esce appunto nel ’12, come ho detto, il trattatello sull’aeroplano e si comprende l’interesse, la curiosità, che quell’argomento poteva avere per il pubblico, ad appena nove anni dal primo esperimento riuscito di volo controllato d’un mezzo “più pesante dell’aria”, il Flyer di Wilbur e Orville Whright e nel clima euforico delle pionieristiche “trasvolate” e delle imprese sperimentali nelle gare di altezza o di durata. È proprio il conflitto italo-turco a portare quelle rudimentali macchine volanti motorizzate, con parti di legno e di tela assemblate entro esili strutture metalliche, a rappresentare una delle avveniristiche innovazioni tecnologiche utilizzate per la prima volta – uno dei tanti primati del genio italico – a fini militari e bellici, insieme alla radio ed all’automobile. Nove sono gli aerei della flottiglia, tutti di fabbricazione straniera, che svolgono innumerevoli missioni con compiti ricognitivi, ma la novità sono i bombardamenti delle truppe turche, inaugurati il giorno d’Ognissanti dell’11 dal tenente Giulio Gavotti, uno spericolato di 29 anni (punito l’anno prima con gli arresti per aver sorvolato a bassa quota Roma e il Vaticano durante il corso di pilotaggio). Manovrando con una mano la cloche e tenendo con l’altra un ordigno esplosivo, raggiunto in volo un campo trincerato nemico, ne strappa con i denti la chiavetta di sicurezza e la getta sull’accampamento, provocando forse «più paura che danni, ma l’impressione fu grande» (D’Andrea e Ricchiardi, 2017*) e conquistando una medaglia d’argento al valor militare, una poesia, dedicatagli da Gabriele D’Annunzio, ed una copertina della «Domenica del Corriere», disegnata da Achille Beltrame (poco veritiera, perché lui la bomba “Cipelli” d’un chilo e mezzo la getta da 700 metri d’altezza, a scanso di fucilate).

Volare, figura 3

Quegli anni tra il primo e il secondo decennio del secolo XX, che poi sono gli albori del “nostro” (parlo per me, non per i miei nipoti!) ed anche il periodo finale della spensierata Belle Époque, vedono susseguirsi avvenimenti contrastanti, diffuse inquietudini sociali e forte sviluppo industriale, persistenti arretratezze e clamorose innovazioni in campo artistico e culturale, dai quali già sono intuibili tanto i progressi di molti aspetti della società, quanto gli eventi drammatici che vanno delineandosi sulla scena internazionale. In Italia, il Regno della dinastia sabauda ha visto, per mano dell’anarchico Bresci, a luglio del 1900, l’assassinio del re Umberto I, che da circa un ventennio era succeduto al padre – e Padre della Patria – Vittorio Emanuele II. Da tempo, ormai, sono scomparsi anche gli altri artefici del Risorgimento: Cavour, Garibaldi, Mazzini e tutti quei personaggi di quell’epopea, che ormai restano con i loro nomi, onorati (e sbiaditi) nella toponomastica celebrativa di tutte le città d’Italia. Il re Vittorio Emanuele III e la regina Elena, montenegrina, portando la loro solidarietà alle popolazioni di Messina e di Reggio Calabria colpite e decimate dal terremoto e maremoto del dicembre 1908, aprono la serie di tali visite “ufficiali” ai luoghi dei lutti e delle distruzioni per catastrofi naturali o di altro tipo. Dovranno ripetere la mesta cerimonia a gennaio del ’15, quando un altro sisma violentissimo si abbatte su Avezzano e la Marsica, ancora con tante migliaia di vittime e ingentissimi danni. Disastri e perdite umane che hanno continuato a ripetersi con desolante frequenza, moltiplicata dalle cause di origine antropica (in genere da attribuire al prevalere di miserabili interessi economici sui sani criteri di sicurezza e correttezza), con l’avvilimento di scoprire la triste miseria morale, la meschina bassezza o la squallida falsità di certi figuri, indegni istrioni e saltimbanchi.

L’attentato del 28 giugno 1914 a Sarajevo, compiuto dal nazionalista bosniaco Gavrilo Princip, con l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austro-ungarico, e della moglie Sofia, provoca la reazione del governo di Vienna, coinvolgendo il mondo intero nella guerra a catena tra le nazioni, in quel tempo già turbato da crisi e contese. Nuovi tragici sconvolgimenti, che peggiorano il quadro esistenziale e portano altre devastazioni e morti, estendendo ulteriormente le perdite di vittime civili, mentre contadini, operai e studenti di quei popoli oppressi sono sospinti gli uni contro gli altri nelle trincee e sui campi di battaglia, per finire a centinaia di migliaia – spesso ignoti – in quei cimiteri aggrappati a poggi come i borghi natii, in quei sacrari immensi, sotto i marmi magniloquenti e i monumenti al “dovere”, alla “fierezza”, al “valore invitto”, e che ripetono e moltiplicano perduranti parole consolatorie, proclamando “PRESENTE” ciascuno di quanti sono solo poveri corpi dilaniati, che nelle loro povere case, dai loro poveri e sconsolati genitori, figli, consorti, parenti, non sono più tornati, né torneranno, assenti per sempre. Per giungere così, con circa dieci milioni di caduti militari e oltre sette milioni di vittime civili, alla Conferenza della Pace di Parigi e alla firma del Trattato di Versailles, sottoscritto il 28 giugno 1919 da 44 Stati nella grande Galerie des Glaces della Reggia.

Ma il virus micidiale che da sempre contagia i comportamenti umani e che ha portato alla «inutile strage», nonostante gli ammonimenti di papa Benedetto XV (vituperati dai più), non cessa i suoi effetti con «la pace, il disarmo e la Società delle Nazioni», l’organizzazione internazionale nata per iniziativa del presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson e insediatasi nel 1920 a Ginevra, proprio con lo scopo di dirimere le controversie tra nazioni e scongiurare il ricorso alle armi per superarle. Una tesi di laurea in giurisprudenza discussa il 21 ottobre 1919 all’Università di Catania (relatore il prof. Eduardo Cimbali) è proprio intitolata La pace, il disarmo e la Società delle Nazioni ed afferma nel sottotitolo: «Senza la sincera ed effettiva dichiarazione e tutela dei diritti di indipendenza dei popoli detti “barbari” o “di razza inferiore”, la pace e la società degli Stati non saranno mai una realtà sincera ed effettiva». Sono parole insolite e quasi coraggiose, per quei tempi. Purtroppo, si dimostreranno a breve facilmente profetiche.

E qui, dopo le divagazioni sul contesto storico dell’opuscolo, passo ad esaminarne il contenuto. Lo stile del linguaggio, i termini utilizzati e le previsioni formulate esprimono perfettamente il livello delle conoscenze scientifiche e tecniche del momento e ci consentono di immaginare la mentalità del dotto ed aggiornato accademico che le offre ai suoi lettori, ed anche la mentalità di questi, le loro aspirazioni, i loro timori. È un pubblico “popolare” ma non digiuno, proprio per la sua qualità di lettore, un requisito non universale, nell’Italia (e del Sud) di allora. Per cui trascrivo qui di seguito alcuni paragrafi del testo, lasciando ai miei lettori di apprezzarne le caratteristiche, senza ulteriori commenti e fuggendo da ogni altra riflessione. Non è la sede, questa, né l’occasione, per quelle “riflessioni” a catena, quel gioco caleidoscopico degli specchi, come dal barbiere o in certi ascensori o addirittura nella Galerie des Glaces della Reggia di Versailles, dove nel tentare confronti ci si trova circondati all’infinito dalla propria immagine riflessa e ripetuta da tutte le angolazioni parallele e perpendicolari. Ho usato nella trascrizione il normale carattere Times New Roman, abbastanza simile all’originale, avvertendo che i titoli in grassetto, nell’opuscolo, erano con un carattere “condensed”, cioè con lettere piuttosto ristrette, che mi è parso inutile ripetere.

  1. Cenni storici sulle macchine volanti. 

Il vagar degli uccelli nello spazio libero e sereno esercitò sempre un fascino irresistibile sulla razza umana e sempre l’uomo sognò di mettere gli pure quelle ali che la natura non gli aveva concesse.

La leggenda d’Icaro il quale, rinchiuso col padre nel Labirinto dell’Isola di Creta e desideroso di fuggirne, costruì un paio di ali con cui poté innalzarsi […] è la conferma più evidente della vetustà di questa superba aspirazione umana. Il cammino fu lungo e aspro, ma non perciò l’uomo si perdé di coraggio […]. E così troviamo, intorno al 1506, tutto concentrato nella soluzione del complicato problema, il nostro grande Leonardo da Vinci, il vero precursore di tutto quanto s’è venuto facendo in questo ramo dell’attività umana […] fino al 1783, anno nel quale la scoperta dei fratelli Montgolfier aprì una nuova via alla conquista dell’aria […]. Gli apparecchi d’aviazione solcano ormai in tutti i sensi il libero cielo e un radioso avvenire li attende.

[…] Persone punto temerarie si sono già lasciate sedurre dal nuovo e piacevolissimo sport; persino le signore hanno voluto provare la voluttà del nuovo mezzo di locomozione.

  1. Classificazione degli apparecchi di aviazione (così soglionsi chiamare gli apparecchi fondati sul più pesante per distinguerli dagli aerostati e dai dirigibili fondati sul più leggero dell’aria). ¾

Gli apparecchi di aviazione vanno classificati in tre categorie:

  1. Ortopteri o ornitopteri.
  2. Elicopteri.
  3. Aeroplani,

Cogli ortopteri si cercò d’imitare il volo ad ali battenti o remoso degli uccelli; e in essi si ottiene la sostentazione contemporaneamente alla propulsione mediante un battimento di ali prodotto da un motore.

Negli elicopteri la sostentazione può ottenersi con la rotazione di eliche ad asse verticale prodotte da un motore, per cui si viene ad avere, per così dire, un effetto di avvitamento delle eliche stesse nell’aria e quindi la produzione di una forza ascensionale producente il sollevamento dell’apparecchio.

Gli aeroplani finalmente imitano il volo slittante degli uccelli e la sostentazione si ottiene contemporaneamente alla propulsione per effetto della reazione dell’aria contro superfici piane, facenti angoli piuttosto piccoli con la direzione del movimento impressovi da apposito apparecchio di propulsione.

Gli ortopteri non diedero buoni risultati ed è opinione quasi generale che non sarà coll’ortoptero che verrà risolto il problema della navigazione aerea.

Gli elicopteri diedero qualche buona prova soltanto nei piccoli modelli, mentre non hanno ancora permessa la realizzazione pratica con grandi modelli. Dopo il celebre esperimento fatto nel 1878 dall’ing. E. Forlanini, il quale, con un elicoptero di sua invenzione, mosso da un motore a vapore di ¼ di cavallo, riuscì a sollevarsi sino a 13 metri d’altezza, rimanendo in aria per 20 minuti primi, tutti gli altri tentativi fatti da Dufaux, Leger, Wellner, Breguet, Santos-Dumont pare non siano stati tali da incoraggiare gl’inventori a continuare i loro studi con tal genere da parecchi.

Si spera che col miglioramento nella costruzione delle eliche e con la continua diminuzione del peso specifico dei motori, si giungerà a navigare con gli elicopteri. Anzi gli studiosi in materia ne predicono, in un avvenire non lontano, l’impiego per trasporti di pesi rilevanti, a bassa velocità, ed altri, più entusiasti, discutendone le qualità in confronto con quelle dell’aeroplano, ne predicono il trionfo su questo. Forse, in avvenire, l’idea dell’elicoptero potrà essere accoppiata a quella dell’aeroplano, ed allora si potranno ottenere delle ottime macchine volanti. Per il momento però è l’aeroplano che trionfa meravigliosamente su tutti gli altri tipi e non v’è dubbio che, per la sua semplicità, manterrà per molto tempo il primato. Cerchiamo pertanto di farci un’idea chiara del suo funzionamento.

III. L’aeroplano: considerazioni tecniche e funzionamento

L’aeroplano trae la sua modesta origine dal cervo volante o aquilone, un giocattolo a tutti noto, troppo frivolo per gli adulti e destinato soltanto a’ fanciulli […].

[Ometto le pagine da 9 a 18 in cui l’Autore illustra il fenomeno per cui l’aquilone si solleva, chiarisce le analogie con l’aeroplano, descrive il grafico della composizione delle forze con la regola del parallelogrammo, spiega il funzionamento delle varie parti dell’aereo e le leggi della fisica che ne consentono l’ascesa, la stabilità longitudinale e quella trasversale e perché il timone serve a farlo voltare].

Parti principali di un aeroplano.  Riassumendo un aeroplano deve avere:

1°) Un ottimo motore, leggero e potente, atto ad imprimere una grande velocità.

2°) Un piano o più piani di sostegno (ali) inclinati verso l’alto perché la resistenza dell’aria sia maggiore del peso dell’apparecchio.

3°) Il timone di profondità per farlo salire o discendere.

4°) Il timone di direzione per farlo girare.

5°) Il piano di stabilità longitudinale o coda per evitare il beccheggio.

6°) I piani di stabilità trasversale od alette per evitare il rullio.

 

Classificazione degli aeroplani. Gli aeroplani poi si distinguono in tre categorie:

1°) Monoplani se hanno un sol piano di sostegno. Sono di questo tipo quelli Antoinette-Latham, Bleriot, libellula di Santos-Dumont ecc.

2°) Biplani se hanno due piani di sostegno sovrapposti. Sono di questo tipo quelli Voisin, Farman, Delagrange, Wright, Curtiss ecc.

3°) Multipiani se hanno tre o più piani di sostegno. Sono di questo tipo, ormai abbandonato per difficoltà costruttive, gli aeroplani di Faccioli, Phillips ed in generale i primi tipi americani.

 

  1. Le colpe dell’aeroplano.

Lo strumento meraviglioso col quale abbiamo fatto ora la conoscenza è però ben lungi dal soddisfare a tutte le esigenze della pratica, non ostante i più recenti perfezionamenti.

L’aeroplano attuale, nelle sue molteplici forme, ha un equilibrio instabile: se per una qualsiasi causa la macchina viene ad abbandonare la posizione di equilibrio iniziale, l’aeroplano se ne allontana sempre più, e tende a capovolgersi sia di fronte, sia di fianco e talvolta persino all’indietro.

Uno dei tipi di aeroplani, che fece in passato i primi più felici voli, mancava anzi totalmente di coda; non aveva cioè nemmeno quella relativa stabilità che hanno ora tutti gli altri tipi di aeroplani. Fece vittime numerose, ma anche guadagni colossali e ricevette inni di lirismo sfrenato. Eppure qualsiasi modesto studioso di meccanica poteva indicare la causa dei suoi disastri, quella causa che gli inventori hanno soltanto ora rimosso, applicando al loro apparecchio una coda, come avevano gli apparecchi rivali.

Ma lasciando da parte questi errori evidentissimi, v’è un errore generale che insidia la stabilità di tutti gli aeroplani ed è questo: che tutti hanno il centro di gravità posto troppo in alto, e ciò perché troppo in alto, rispetto alle ali, si trovano il motore e l’aviatore.

[…]

Preoccupati da questa deficienza molti tecnici stanno cercando di portare il centro di gravità più in basso, articolando fra di loro le varie parti in modo che l’aeroplano possa ancora salire con facilità. Quando questo problema sarà risoluto completamente, l’aeroplano acquisterà un equilibrio stabile, e verrà ad assumere le qualità preziose di quell’antico e notissimo apparecchio ch’è il paracadute: l’aeroplano sarebbe il paracadute di sé stesso.

[…]

La meccanica di un aeroplano, cioè di un ordigno al quale un uomo si affida per salire a migliaia di metri dal suolo, e nel quale la rottura di un filo, lo spezzarsi di una chiavetta, l’arrestarsi di una leva possono produrre la paralisi dell’apparecchio, la caduta e la morte, dovrebbe essere perfetta, o almeno non inferiore, per esempio, a quella a cui è oggi giunto un automobile. Il ferro potrà sostituire, come già s’è cominciato da alcuni costruttori, vantaggiosamente, il fragile legno, le funicelle di acciaio i semplici fili. Ogni congegno sarebbe essere accuratamente studiato in modo da fornire non solo un funzionamento normale, ma anche da prevenire le più lontane possibilità di guasto. L’aeroplano attuale è ancora molto, ma molto lontano da questo non irraggiungibile ideale. Per ora è una meravigliosa macchina da corsa, ma una macchina pericolosissima.

È verso il perfezionamento della medesima, nel senso della stabilità e della praticità, che dovrebbero essere rivolti i concorsi, i premi e gl’incoraggiamenti, non, come s’è fatto finora, soltanto verso la rapidità e la capacità ascensionale. Bisogna lasciare da parte il puro interesse teatrale e sportivo e pensare alle applicazioni pratiche. Allora soltanto l’aeroplano potrà diventare un mirabile e sicuro mezzo di locomozione, e non più, come molto spesso s’è dimostrato, uno strumento omicida.

Queste, dunque, le argomentazioni sul volo del libretto acquistato da mio nonno Francesco, classe 1866, forse per sua curiosità e anche per quella del suo primogenito, Nino, allora sedicenne studente del liceo classico “Mario Cutelli” di Catania, che di certo sogna di diventare a sua volta uno di quegli “assi dei cieli”, delle cui audaci imprese tanto si parla tra compagni di scuola, come anche di quelle compiute dagli eroici aviatori per la grandezza della Patria contro nemici lontani e malvagi.

Volare, figura 4

Ancora poco più di due anni e il diciottenne studente, appena iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università, è chiamato alle armi, mandato dalla sua Sicilia a Modena, all’Accademia Militare, per un corso accelerato da cui esce per raggiungere la prima linea del fronte come tenente della 1208a compagnia mitraglieri nel 142° reggimento della Brigata Catanzaro (III Armata). Quasi costantemente in prima linea, li vede e li sente sorvolare la trincea o le retrovie, gli aeroplani del libricino istruttivo, amici o nemici, e partecipa alla sesta, settima, ottava, nona, decima e undicesima battaglia del Carso, sull’Isonzo, a Nova Vas, Kostanjevica, Oppacchiasella, Hudileg, Lukatie, Oslavia, Brestovica, Komarje, San Giovanni di Duino, Santa Maria La Longa, Novegno, in Val d’Astico, Val Camugara, Torre Alta, sul Cengio, Monte Majo, Cimon d’Arsiero e sul Monte Mosciagh, sull’Hermada, sul Piave. Ferito e decorato con medaglia di bronzo al valor militare, croce di guerra al valor militare e croce al merito di guerra, è nel contingente che entra tra i primi a Trieste per organizzarvi l’amministrazione italiana ed a mantenere l’ordine pubblico all’arrivo del cacciatorpediniere Audace e dei Bersaglieri nel tripudio della folla festante e delle fanfare, il 3 novembre 1918. Un anno dopo, discute la tesi di laurea a Catania, quella intitolata La pace, il disarmo e la Società delle Nazioni di cui abbiamo parlato. Non farà mai voli di guerra (mentre suo fratello minore, mio zio, sarà capitano medico di aviazione in Africa nella Seconda Guerra Mondiale), loderà sempre l’incruento “Volo su Vienna” di D’Annunzio, ma coltiverà intensamente, per tutta la vita, la passione di VOLARE, dall’aeroporto di Roma-Fiumicino a quello di Catania-Fontanarossa e viceversa. Frutto di quella lettura del 1912?

Volare, figura 5

FRANCESCO CORRENTI

* D’Andrea, Michele e Ricchiardi, Enrico, Forze Armate d’Italia, 1861-1946. Storia illustrata dei soldati del nostro Tricolore, Azzurra Publishing, Pastrengo 2017.