LA FAVOLA DEL BUON SENSO

di CATERINA VALCHERA

C’erano una volta- tanto tempo fa- giovani che reclamavano e propugnavano “l’immaginazione al potere!”, anche nella variante tutto il potere all’immaginazione, con l’intento di includere, nell’area dell’agire nel reale e sul reale, la capacità di immaginare il nuovo, di guardare oltre i confini del qui e ora, delle strategie dell’immediato, delle logistiche convenienti. Lo slogan sessantottino intendeva essere rivoluzionario e proporre l’utopia come elaborazione di quell’immenso patrimonio di cui dispone l’uomo e che è la sua capacità di immaginare, di costruire mentalmente ciò che ancora non è. Qualcun altro gridava “I have a dream” con intenzione più definita e circoscritta, ma sempre riconducibile al terreno utopistico. Il termine più giusto per lo slogan sarebbe stato però fantasia, deverbale dal greco φαντάζω, che implica l’atto del vedere, dell’indicare, del far vedere. Fantasia come immaginazione in atto, immaginazione operante. Radicata sia nella coscienza che nell’inconscio, sia a livello individuale che collettivo, la fantasia, secondo Jung, è la forza psichica fondamentale che fa avanzare creativamente l’umanità. Immaginazione, cioè fantasia poietica, in atto di creare: così si definisce quella del poeta, dell’artista, del fanciullo che costruisce ciò che immagina, dà forma concreta a quel che non esiste. La distinzione tra le due facoltà della mente umana risale a filosofi e poeti tedeschi (Kant, i fratelli Schlegel, Jean Paul, Schelling), per i quali l’immaginazione (Einbildungskraft) è collegata alle percezioni,all’intelletto, alla memoria, mentre la fantasia (Fantasie) è la facoltà più alta, legata alla ragione, libera e creativa. La Fantasie ha il potere di trasformare le cose, di “essere” tutte le cose. I poeti romantici inglesi invece rovesciarono i due termini e la loro accezione tedesca:usarono fancy per indicare il potere di aggregare cose fisse e definite e imagination come “potere che forma e modifica”. La facoltà immaginativa anche per Leopardi è la facoltà di concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono (Leopardi,Zib.168).Al suo sviluppo ed esercizio,secondo il poeta recanatese, è necessaria la felicità o abituale o presente e momentanea. Allora noi oggi dobbiamo essere molto infelici. La tecnologia che ormai ci sovrasta ha forse ammutolito questo grande potere della mente, che sembra alimentare soprattutto la deriva debordante di certa cinematografia. Nella politica, poi, l’immaginazione è assente da decenni. Nell’oratoria, nella progettualità, nei manifesti,negli scontri verbali, nelle espressioni culturali o nelle risoluzioni dei problemi manca questa componente “rivoluzionaria”, sostituita da un’altra istanza magica, reiterata e usata come grimaldello che azzera i nodi della complessità e atterra ogni possibile creatività di pensiero: IL BUON SENSO, probabilmente pensato monoverbale, cioè BUONSENSO! Lo start iniziale appartiene al buon Salvini : gli dobbiamo riconoscere che ha riesumato e macinato tanto questa parola da averle tolto ogni spessore semantico. Molti però l’hanno seguito quasi per effetto domino, spesso per semplice automatismo linguistico. Non c’è intervento,frammento di intervista, esposizione verbale in cui sia assente il riferimento a questa capacità naturale di cui dispone ( meglio dire disporrebbe) l’individuo nel valutare istintivamente in modo corretto, specie sul piano pratico, le cose. Nel frasario politico attuale domina la retorica del merito (inteso come contenuto) e di questo benedetto buonsenso. Calco dell’espressione francese bon sens, è sinonimo di assennatezza, avvedutezza,spirito pratico: quello appunto del politico buonsensista che così dicendo non sfiora neppure il piano etico del discorso e non si accorge che sta delineando piuttosto un orizzonte circoscritto, talora angusto e banalizzante. Eppure da tutti i fronti ci si appropria di questo termine in accezione assolutamente positiva, denigratoria delle fumosità ideologiche: per carità, le ideologie, anzi gli ideali, sono morti e sepolti, guai a parlarne! Certo, perché rinviano a quell’idein, cioè “vedere”, senza il quale la prassi è freddo calcolo o empirismo superficiale. Io non ricordo di essere stata educata al buonsenso da mio padre, ma ricordo i valori ideali che mi sono entrati nel profondo attraverso la “politica” di casa. E ora, da anziana signora, sono costretta ad ascoltare lezioni di buonsenso a proposito di certe scelte, certe operazioni politiche anche ai limiti del dis-umano, di soluzioni drastiche e semplicistiche a fronte di problemi complessi. Tutto in nome del Buonsenso. E allora mi sorge il sospetto che l’uso dell’espressione sia strumentale a posizioni conservatrici e semanticamente fuorviato. Siamo davvero certi che il buon senso sia una dotazione universalmente diffusa e che non lo si adoperi nell’accezione di senso comune? Ma anche così inteso concorderei ancora con Leopardi, secondo il quale il senso comune è cosa davvero rara al mondo perché molte sono le teste storte che non si persuadono co’ più palpabili raziocinii, che sono quasi affatto esenti dalla forza della ragione e del senso comune e indipendenti dagli stessi fondamentali principii del ragionamento: che all’improvviso ti scappano d’un fianco con una conclusione tutta contraria alle premesse, non già per ostinazione, ma per intima persuasione, e per dettame del loro raziocinio, e perché il loro senso, la loro facoltà di ragione è fatta così.(Ib.1753). Il buonsenso così spesso nominato dalle menti eccelse del nostro mondo politico, talvolta in modo pacato, talaltra in modo moralmente perentorio, è cosa ben diversa dall’etica del buonsenso e lontanissima dalle sue nobili origini nel pensiero di Seneca, di Cicerone, e modernamente di Voltaire, inquadrata o nel logos universale o riferita alla virtù conformata sulla ratio e sull’esperienza. Richiama piuttosto la mediocrità piccolo-borghese, il quanto basta della ricetta medica o le dosi giuste per comporre un dolce che solo la cuoca di casa conosce. Un buonsenso grigio e noiosamente ripetuto nella genericità di discorsi altrettanto grigi e privi di originalità o mordente. Almeno nella vulgata, il buonsenso dovrebbe indicare la capacità di stare con i piedi per terra ed evitare di commettere o pensare uno sproposito, ma così rischia di diventare proprio l’antifrasi di se stesso, un pensiero fuori-luogo,un surrogato concettuale, un refugium peccatorum di chi non sa elaborare con passione e profondità un’idea. Certo non un modo ragionevole di ragionare, come volevano gli illuministi. Fino a qualche anno fa sentivo di condividere le riflessioni di Arbasino sui danni provocati nella cultura occidentale dalla temperie romantica per quegli aspetti che negavano certe conquiste intellettuali del secolo dei Lumi..Ma a forza di sentir parlare Salvini e compagnia bella (?) di buonsenso, mi è tornata una voglia irrefrenabile di insensatezza, di fantasticherie, di sogni e di utopie!

CATERINA VALCHEtRA