“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – Le cicliste

di STEFANO CERVARELLI

Dopo la bella storia delle “ regine del ghiaccio” anche questa settimana nell’Agorà sono di scena le donne.

Una vicenda che non ha i riflessi azzurrognoli tipici del ghiaccio nei colori freddi, ma bellissimi,  dell’inverno; questa vicenda, purtroppo, è avvolta dai toni grigi di una triste giornata autunnale.

Sull’argomento scrissi, qualche tempo fa proprio su questo blog, alcuni articoli con la speranza di non  doverci tornare più se non per dire che la questione si era risolta positivamente.

Parlo del riconoscimento dello status di professioniste negato alle donne da un legge del 23 marzo 1981. Nata per regolare il professionismo nello sport, a 40 anni di distanza ancora non  si è fatta sufficiente chiarezza in materia.

Questo perché, a suo tempo, il legislatore preferì regolare l’attività sportiva professionistica in maniera generale lasciando alle singole federazioni  il compito di stabilire chi si può definire professionista dello sport. Oggi sono solo quattro federazioni professionistiche: calcio (FIGC) Basket (FIP) Golf (FIG) e Ciclismo (FCI) che però riconoscono come professionisti soltanto gli atleti, attuando quindi una  differenziazione tra uomini e donne nonostante le seconde pratichino l’attività sportiva al pari dei loro colleghi.

Tutti gli altri atleti ed atlete delle altre discipline sono considerati dilettanti. Tanto per fare un esempio Federica Pellegrini giuridicamente è una dilettante, come lo erano altri grandi campioni (vedi Panatta, Yuri Chechi, Mennea) e come lo sono oggi i nostri campioni olimpionici.

I legislatori, in tutti questi anni, tranne sporadiche iniziative personali, non hanno fatto nulla per ovviare alla situazione. Capisco che lo stato nel quale si dibatte  il  nostro  Paese convogli energie ed attenzioni verso altri obiettivi, ma è possibile che non ci sia stato tempo e modo di mettere mano ad una legge, di 42 anni fa, che non presenta tante complicazioni, e che perpetua uno stato di cose da tutti biasimato ampiamente come la differenza di genere?

Certo, in tal senso si sono fatti notevoli passi avanti, ma allora perché mantenerla ancora nello sport? Nè, per la verità tranne quelle delle atlete, si sono levate molti voci di protesta, prima tra tutte quelle femminili, a chiedere il superamento di questa stortura.

Dopo tante loro colleghe questa volta sono le cicliste a denunciare la loro situazione, per la quale si vedono costrette a cercare “ospitalità” in squadre straniere in quei paesi dove il professionismo femminile è riconosciuto e naturalmente queste squadre non perdono occasione di “accaparrarsi” le nostre atlete.

Ed è proprio di queste che voglio parlare perché nonostante riscuotano appunto successo e si affermino in ogni parte del mondo, da noi continuano a stare nel limbo del “dilettantismo a tempo pieno “ dove, tra le altre cose, i compensi vengono elargiti sotto forma di rimborso spese.  Situazione ovviamente stridente con il loro, come dicevo prima, professionismo di fatto imposto  dalla necessità di prepararsi, allenarsi in modo adeguato, se si vuole competere ad alti livelli.

I nostri legislatori, nel corso degli anni, non hanno fatto nulla per ovviare alla situazione. 

Una realtà che contrasta molto con la condizione di cui godono le atlete in altri Paesi dove si procede con diversa sensibilità, mentre  noi  stiamo sempre ad inseguire qualcosa che sembra non si possa raggiungere mai.

Questo nonostante le nostre ottime tradizioni, le varie campionesse ed i titoli conquistati, non dimentichiamo che abbiamo tre campionesse del mondo: Elisa Balsamo nella prova su strada, Martina Fidanza e Letizia Paternoster in due prove su pista.

Un ringraziamento lo dobbiamo sicuramente ai corpi militari che inglobano nei loro reparti sportivi, gli atleti ed atlete migliori garantendo loro una sicurezza, un futuro, un lavoro. Ma le altre, gli altri ? 

Per tornare al ciclismo, se qualcosa nel mondo femminile si sta muovendo non è certo per merito nostro; infatti l’UCI – il governo mondiale del ciclismo – nelle ultimi tempi ha dato una forte accelerazione al movimento invitando i Team maschili del Word Tour (alla stessa stregua di come è avvenuto nel calcio) a dotarsi anche di una squadra femminile; di pari passo è stato rivolto un invito agli organizzatori affinché organizzino corse “parallele”,  un invito che questi, fiutando il successo del ciclismo femminile, non  si sono lasciati sfuggire  abbinando nel calendario stagionale alle gare più importanti le prove femminili. 

Una squadra, la Trek Segafredo dove corre Giulio Ciccone, e già prima Nibali, ha investito più di un milione e mezzo di euro  per creare un team rosa, ingaggiando le nostre Elisa Longo Borghini e Letizia Paternoster.

La stessa squadra, per la precisione americana, tanto per dirne una, per la prossima stagione ha equiparato per uomini e donne i premi di vittoria.

………..e pensare che per primi in Italia si era intuito l’importanza del ciclismo femminile: basti

un esempio; alle soglie del duemila il patron all’epoca del Giro d’Italia, Carmine Castellano, ebbe l’idea di organizzare la primavera rosa, una specie di Milano-San Remo, corsa bella, attraente, alla quale partecipavano atlete d’ogni nazione: non si corre più dal 2005.

“Il nostro movimento avrebbe tantissime potenzialità, ma per il momento siamo dietro”, parole di Maria Giulia Gonfalonieri, ventottenne, militante in una squadra tedesca.

L’Italia poteva vantare, fino a questo momento, un team nella massima categoria, ma sembra che questa formazione sia entrata nel raggio d’azione arabo della Uae Emirates, di conseguenza altissime sono le possibilità di non avere più un team nostro ad alto livello.

L’Italia fatica a stare al passo con il ciclismo femminile, fenomeno del momento, nel quale invece  il resto del mondo crede; Marta Cavalli, giovane promessa di 23 anni, per dirne ancora una, è costretta  a pedalare in Francia con la maglia della Fdj Nouvelle-Aquitaine.

Certo fare un team di buon livello femminile costa ma: ”Sembra che solo all’estero credano in noi” aggiunge la Cavalli, che in pista ha conquistato medaglie europee e mondiali, ma che non manca di farsi notare anche su strada (sesta all’ultimo Giro d’Italia)

Se le nostre cicliste più brave oramai sono abituate a correre fuori dall’Italia, il problema nasce allorché vengono a mancare le società di base.

In questo quadro una particolarità alquanto “stonata” consiste nel fatto, collegandomi al discorso iniziale, che le cicliste hanno dovuto partecipare ad un corso obbligatorio per i neoprofessionisti organizzato dalla Federazione Ciclistica Italiana, e promosso dalla organizzazione dei corridori professionisti: che sia un timido segnale che qualcosa si sta muovendo?

Concludo con le parole ancora di Marta Cavalli: ”Certo, professioniste o no, il nostro sogno è correre gare importanti, come le Fiandre, la Robubaix, però il sogno più grande, la sfida più importante è riuscire a vincere la burocrazia e.. qualche pregiudizio di troppo”.

Per quanto tempo ancora per le donne dello sport italiano la parità di trattamento sarà utopia?

Ma c’è chi sta peggio, molto peggio.

Cerva 2


Le ragazze afgane oggi sono costrette addirittura a nascondere la loro bicicletta. Ma fosse solo questo, altre persecuzioni e privazioni di libertà sono in atto, e non serve certo che io le stia a ripeterle.
Il mio pensiero infatti va alle ragazze afgane che come è risaputo sono le prime vittime della conquista talebana, tra loro c’era chi, a prezzo di enormi sacrifici aveva iniziato a praticare il ciclismo. Avevamo assistito lo scorso marzo alla loro simbolica pedalata fatta a testa alta non solo per loro, ma per le bambine e le loro figlie. Certo non pensavano di  diventare vittime di una repressione violenta, di essere prese a sassate mentre pedalavano o addirittura essere volontariamente investite. Sono bastati pochi giorni per tramutare il loro sogno di libertà in un miraggio perché i talebani ritengono il ciclismo un vero scandalo, un motivo di disonore.

Utile è dire invece che di loro a qualcuno  importa, anche in Italia. Alessandra Cappellotto, la prima ciclista italiana a vincere il titolo mondiale nel 1997, ora responsabile del CPA WOMEN e presidentessa della ASD Road To Equality, si è mobilitata per portare in salvo le cicliste afgane, smuovendo davvero mezzo mondo.

Ha coinvolto nella sua azione l’UCI, la FCI, il Ministero degli affari esteri italiano, le Nazioni Unite e anche le ONG già attive in quella parte di mondo.

Ecco le sue parole: ”Ho chiamato tutti quelli che possono aiutarmi a mettere in salvo quelle ragazze, che vivono nel terrore: se ci riuscirò sarà la mia vittoria più bella”.

E noi non possiamo che fare il tifo per lei, più di quanto facemmo il giorno che a San Sebastian conquistò la maglia iridata.

STEFANO CERVARELLI