ALLA RICERCA DELLO SDEGNO SMARRITO

di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦

Civitavecchia, mezzanotte dell’Epifania, cimitero comunale.

IL MARCHESE. Batte pietosa la mezzanotte ed il mio orecchio grata novella accoglie nel sentir  ch’io possa aleggiar per l’aere dopo anni di rispettosa attesa. Giunto il mio turno, lo spirto mio ratto s’invola, sì dolce è il conforto d’ incontrar lungo questi sciatti vialetti persona acconcia a discettar circa la mia vetula città.

Ecco, mi par di scorgere un alma  gentil, di portamento dignitoso con cui ricever dolce conforto  e placar la mia fervente curiosità.

Signore!  Ove ella fosse a giorno delle vicende del mio natio loco la pregherei di  non esser  avaro nel narrare, pur se dolenti fossero le note. Copiose sono le curiosità che mi tormentano. Che ne è dell’opra verso cui il mio ingegno  tanto si spese? Che ne è della mia impresa  che volli a sollievo degli indigenti  e ad  incoraggiamento della virtù parsimoniose? Che possa  esser io destinatario di lusinghe novelle.

IL SINDACO.  Marchese, debbo confessarle che il trapasso tragicamente dissipa gli affetti e impedisce l’operare ma offre, altresì, il vantaggio di far conoscenze oltre il vincolo del tempo. Sono, dunque, oltremodo, felice di poter parlare con lei.

IL MARCHESE. Anch’io, veda, sono, come dire, felice. E lo sono così tanto da far di questo predicato…. il mio nome!

IL SINDACO. Sorvolo sui beni patrimoniali, sui bombardamenti, sui palazzi crollati, sulle perdite fondiarie, sulle disavventure d’un ramo e le fortune dell’altro. Mi preme, avendola ora a contatto, parlarle della Cassa. E’ argomento che preme sul mio cuore di cittadino, di amministratore, di fervente socialista. Di tutto questo sono al corrente. Non da molto ho lasciato la dimora terrena e ho il privilegio di attingere notizie recenti, almeno fin che dura questo amoroso contagio con chi io ho preceduto.

IL MARCHESE. Socialista? Come si fa ad esser tali? L’animo mio disdegna il rancoroso  agitarsi della turba.

IL SINDACO. Marchese, si riesce a farlo, mi creda. Con un po’ di sforzo ma si riesce. Non è poi così difficile.

Comunque, ritornando a noi non ho buone notizie, anzi ne ho di pessime, ahinoi!

Tutto è perduto, anche l’onore.

Ma andiamo col dovuto ordine. Tutto ebbe il suo inizio quando una legge separò l’impresa dal portato della storia. La Banca da una parte la Fondazione dall’altra. L’eredità della storia intraprese, così, un suo percorso scisso dalla gestione dell’impresa bancaria. Amministrare i profitti al fine precipuo di sostenere la solidarietà e la cultura.

La capacità finanziaria pubblica della nostra comune città, caro marchese, deve compensare il costo sociale di un inquinamento strutturale dovuto al porto ed alle Centrali. Ecco lo scopo di una Fondazione che deve essere il perno di una sussidiarietà orizzontale. Non tutto in una comunità può esprimersi in uno scambio di equivalenti , in rapporti , ovvero, meramente contrattuali. Abbisogna che esista una sorta di reciprocità  nei legami. Dunque, ecco il valore rappresentato da un fondo civico, retaggio della storia che colmi i vuoti che l’amministrazione della cosa pubblica non può affrontare con sufficienza. E chi sono i portatori di valore di tale fondo se non i cittadini in quanto eredi di quell’antico lascito che ebbe inizio, caro marchese, nella sua “Notificazione alla città” nel giugno del 1847?

Sono socialista certo e non posso non sollevare dubbi circa la disattenzione  della classe borghese ottocentesca circa i problemi di equità e del lavoro nonché sui miserevoli errori e danni urbanistici, ma di certo non posso non darle merito che quella Notificazione fu atto fecondo di sviluppi futuri.

IL MARCHESE. Parole queste che rinfocolano l’ardore ch’io ebbi  in quel, a me caro, e memorabile giorno.

Vagheggiava allora un disegno e tosto la provvida e feconda fortuna mi sorrise oprando per un rapido risultato ed in forza del quale giunsero a me graditi il plauso dei fidi  e sinceri concittadini.

Ma, mi sia perdonato l’ardire, perché mesto e cupo, caro sindaco, è il tono del suo argomentare? Qual disgrazia, sottende le sue parole? Odo dal labro suo vena di mestizia. Parli se può, tetragono ormai son io e non  sarò punto vinto dal duolo acerbo.

IL SINDACO. Tutto finì per imperizia, superficialità, colpevolezza nel vigilare. Di fronte ad evidenti e naturali asimmetrie informative sul fronte degli investimenti di portafoglio invece di compensare le stesse con opportuni accorgimenti si espose l’istituzione al rischio cagionando selezioni avverse che  sfociarono in breve volger di tempo in un vero e proprio azzardo morale. Una consistente patologia finanziaria contaminò l’organismo già reso debilitato da imprudenza gestionale. La città venne privata della sua fonte finanziaria civica o, comunque, menomata di capacità erogatoria.

IL MARCHESE. Misero! Non mi resterebbe  che morire se io non fossi già tra i trapassati.

IL SINDACO. Marchese. Il punto più dolente, tuttavia, non è questo!

Dolente fu l’ignavia dei cittadini. Disonorevole fu il silenzio. Solo sussurri da bocca ad orecchio e non grida. Nessuna, nessuna grida si sollevò dalla cittadinanza. Solo sussurri. Sussurri non grida!

Un capitale sociale cittadino deve la sua esistenza ad una particolare sua modalità di manifestarsi. Se questa modalità non si esprime ciò significa che quel capitale è inesistente o giace in stato di larva.

Ebbene, caro marchese, quella modalità ha un nome: indignazione!

Fatto salvo che per un avvocato di diffusa notorietà e di un giornalista di battaglia e di qualche altra sparuta voce, quel grido non risuonò.

Appariva, a questa “città in bilico”, che la possente menomazione fosse evento normale, risultato di combinazioni astrali e non fatto da sollevare grida, tumulti, indignazioni.

IL MARCHESE. Già, dal primo istante, io leggea  nel suo animo queste torbide vicende. S’agghiaccia il cor nel petto mio ma, mi dica, qual destino si palesa per la mia creatura?  I giorni che verranno son di lieto annuncio o , parimenti, spento del tutto è ormai l’estro?

IL SINDACO.  Una squadra nuova si ingegna attraverso ostacoli, incomprensioni, resistenze  ad operare fra   le  macerie. Difficilmente i recuperi pecuniari daranno il frutto sperato. Comunque si è riusciti a riprendere il verso della normalità. La Fondazione riprende, ansimando, il suo cammino così violentemente interrotto.

Che la città possa imparare dall’esperienza!

 Non si potrà mai progettare seriamente, discutere, proporre, fare piani se non si sarà fatta opera di crescita del capitale sociale. Altrimenti le parole saranno sostegno di altre parole. Nessun fatto potrà seguire alle parole. La mancata indignazione di quel tragico momento è un vulnus che peserà.  Un limite, una condizione non permissiva per un avvenire di sviluppo della città che vuol dirsi degna del suo destino. Auspichiamo assieme, caro marchese, che i morituri cui spetta il tempo di vivere la nostra città si ingegnino per una fruttuosa ricerca di una dignità smarrita!

IL MARCHESE. Civitavecchia, degna dei suoi destini?  Che strano! Rampolla dall’oblio questo motto che un giorno fu titolo di brevi carmi.

Batte impietosa l’ora del ritorno. L’aurora con le sue lunghe dita già colora la tenebra fuggente. Oh mia vetusta civita qual mai sventura t’ha così cangiato? Quale la scaturigine del tuo delirio? Poscia che da te partii lasciotti in lusinghiero aspetto, ordunque qual mostro t’ ha così  aggredita, culla del mio terreno  asilo?

Carissimo  signore da chi mai più potrò ricever il giusto conforto? Di dolente mestizia rientro gravido nel mio tetro albergo, altro non potrei.

 Mi stia bene, caro lei! Mi stia bene….

IL SINDACO. Farò del mio meglio, mi creda marchese, mi creda. Addio! 

CARLO ALBERTO FALZETTI