“SALUTI & BACI” DI SILVIO SERANGELI – 9 – La lettera anonima
di SILVIO SERANGELI ♦
Mi capita ancora sull’onda dei lavori stendhaliani di scrivere qualche articolo su alcuni aspetti del console a Cv. È un modo per tenere vivo l’interesse, per sentirmi allenato. Capita anche che gli stendhaliani per i loro lavori mi chiedano magari la trascrizione di alcuni interventi della Giornate, come è successo il mese scorso con Hélène de Jacquelot, perché non furono pubblicati gli atti, ed anche particolari minori che, comunque servono per i loro saggi: il nome e la data di partenza del battello a vapore con cui il console si recò a Livorno, l’albergo in cui soggiornò a Cv., chi era Falzacappa. L’altro giorno ho ricevuto una mail da Lione di uno studioso, professore universitario, che si è presentato a nome di un mio amico di Grenoble per pormi un quesito che, al momento, mi ha stupito per la sua singolarità. Il prof. P., che sta scrivendo un saggio sul rapporto di Stendhal e la fede, la sua frequentazione e la conoscenza delle chiese, facendo riferimento al mio lavoro pubblicato da CIRVI, in cui si parla della chiesa di santa Maria, il prof. mi chiedeva la sua storia, se avevo qualche immagine, evidentemente all’oscuro dei bombardamenti e delle distruzioni subite da Cv nella Seconda Guerra mondiale. Ho fissato a lungo lo schermo, e ho preso tempo per rispondere, poi ho fatto il mio compitino con le notizie giuste, compresa quella che la Chiesa non c’è più. E Stendhal, Santa Maria? Il console conosceva bene la Chiesa perché confinava con l’Albergo Grand’Europa che lo accolse al suo arrivo e con la sua successiva sistemazione nell’appartamento di Palazzo Bentelli, e poi gli era di strada, sotto casa. C’è un riferimento preciso nei Melanges Intimes, a p 244: «Amnistie donnée par Dominique à Dominique dans la church de Civita-Vecchia, le 2 février 1835, à midi et demi. En réjouissance, coups de canon et fumée blanche de la corvette sarde, du bâtiment du pape et du fort. Couronne de fumée d’un coup de canon de la fortesse, qui dure une minute et demie. Gréement couleur de suie des bâtiments voisins se détachant sur la fumée blanche des coups de canon. Civita-Vecchia». Il riferimento è alle celebrazioni popolari per la Candelora che volentieri invio al prof. di Lione con un paio di foto d’epoca e quelle della facciata dopo i bombardamenti, chiedendogli, se possibile, una copia del suo lavoro. Ma la vicenda della Chiesa, di quella Chiesa merita molto di più, perché ha tutti i connotati di un feuilleton con colpo di scena finale. Così vado a rivedere appunti e giornali d’epoca, e metto insieme queste note che, mi spiace ammetterlo, confermano come gli abitatori della petite ville non hanno mai avuto una gran cura dei loro beni comuni, come aveva ben compreso il console Beyle -Stendhal. È una scelta di vita, per certi versi filosofica, che riguarda tutte le classi sociali, laici ed ecclesiastici, che aveva notato durate il suo soggiorno Hippolyte Taine e con lui tanti illustri viaggiatori. Che dire del destino della chiesa di santa Maria? Non ci fu l’energia, il coraggio, la giusta riconoscenza per un luogo unico nella secolare vita della città. Semidistrutta, non fu più ricostruita. Un patrimonio della memoria collettiva che non fu sufficiente quando si decise di abbattere la facciata, il campanile e alcune costruzioni risparmiate dalle bombe.
Bisognava fare spazio al nuovo Corso, liberare dalle macerie le quattro strade del centro, rase al suolo dai bombardamenti. E poi la Curia, che doveva avere il maggiore interesse alla ricostruzione, non aveva a genio la chiesa dei domenicani, così tutte le forze furono indirizzate a ristrutturare la vicina Cattedrale di san Francesco. Con un impegno solenne però che la chiesa cancellata sarebbe stata ricostruita non lontano. Va detto che in quegli anni la priorità assoluta riguardava il problema degli alloggi con parte della popolazione sfollata o che viveva in condizioni di degrado. Il Forte Michelangelo, la Palazzina del Genio poi sede del museo furono a lungo dimenticati con le loro ferite. Per lunghi anni un polveroso piazzale aveva preso il posto del Grand Hotel delle Terme. Ma c’era la promessa per una nuova Santa Maria. La foto «Souvenir de Jiulltet 1950. à tuti bambini de Civitavecchia» è la prova che la chiesa poteva essere recuperata nelle strutture principali, come è poi avvenuto in casi analoghi, compresi alcuni recenti terremoti.
È solo uno spiacevole equivoco quello che racconta Renato de Paolis sull’Antimurale del 6 giugno 1959. Alcuni cittadini notano degli operai lavorare nell’area e pensano che si stia preparando la ricostruzione. È un abbaglio. Così il parroco, contattato dal cronista, mostra i disegni della «Nuova Chiesa che, ormai inevitabilmente sorgerà sui ruderi della Rocca nella Piazza Calamatta». Il progetto prevede un maestoso campanile quadrangolare che ricordi quello della Rocca, che contenga le campane, l’orologio a quattro facce e una statua di santa Fermina che guardi il mare. L’anno successivo c’è la notizia del “baratto”: «Accordo tra la Curia e il Comune per la ricostruzione della Chiesa Matrice. Cessione di aree comunali contro l’uso perpetuo di alcuni locali per la sistemazione definitiva della Biblioteca Comunale», scrive Aldo Scussel sull’Antimurale del 13 febbraio 1960. Il 20 febbraio Il Messaggero pubblica la foto notizia che conferma la costruzione in piazza Calamatta con l’immagine della chiesa bombardata che mette in evidenza come si fosse salvato gran parte del corpo della struttura, escludendo ovviamente il tetto.
Per dovere di cronaca, va detto che a spingere per l’accordo è la Curia, sostenuta dal commissario prefettizio Luigi Calenda, allineato alla Dc locale. Attenzione si parla sempre di chiesa. Arriviamo all’aprile 1963 quando l’amministrazione comunale, guidata dalla giunta social-comunista, considera carta straccia l’accordo al ribasso del commissario Calenda e preferisce risolvere la questione dei locali della Biblioteca Comunale in altro modo. Sono gli anni in cui la fanno da padroni quelli che mio padre Otello, che ci lavorava, chiamava ironicamente i “palazzinari da sagrestia”, strettamente legati alla Dc, agli ambienti conservatori e alla fitta ragnatela del potere cattolico. Significativamente Il Messaggero del 12 aprile 1963 titola. «I contrasti tra il Vescovado e il Comune ostacolano lo sviluppo di corso Marconi». Sono passati venti anni dal bombardamento. La vicenda si tinge di giallo. Arriva la replica del Vescovo con una grave ammissione: «Da anni ci siamo resi conto dell’importanza della ricostruzione della chiesa di santa Fermina e della viva attesa del pubblico per cui le pratiche furono intraprese fin dal 1946. Il primo progetto fu per la ricostruzione in loco [allora la si poteva fare!] e fu assicurato anche il finanziamento [allora non erano i soldi che mancavano come fu poi detto a giustificazione!]». E qui viene il bello, la nota prosegue così: «Ma una lettera anonima, che denunciava questa parrocchia troppo vicina alla cattedrale, ci costrinse a cose fatte a ricominciare da capo e pensammo alla ex Rocca…». Fu sufficiente, dunque, una lettera anonima a cambiare il corso della storia. Sembra un po’ troppo poco, una misera bugia del resto tipica degli intrallazzi da sagrestia e su su fino ai vertici dei cosiddetti amministratori della fede. Ci sono chiari interessi in ballo che puntualmente denuncia in Consiglio Comunale il consigliere socialista Ugo D’Ascia che chiede che sia sbloccata la ricostruzione nelle aree del centro. Alla fine si arriva ad un compromesso, purché riprenda l’opera di ricostruzione. «I comunisti soltanto per disciplina di partito hanno approvato il compromesso con il Vescovado», titola significativamente Il Messaggero del 22 aprile 1963. Meglio di niente, la chiesa verrà costruita a ridosso della Rocca. È bene ricordare che questi sono gli anni della costruzione di nuove chiese: nel 1961 quella di via Montanucci, sempre nel 1961 quella di san Francesco di Paola, nel 1964 la chiesa “stile Novecento” di san Gordiano. Siamo arrivati al marzo 1965, quando Il Messaggero pubblica la foto dei lavori per la Chiesa di Santa Maria. Si legge testualmente: «Nel contrasto fra le massicce muraglie che servono di base all’opera e le agili geometrie dell’ossatura in cemento armato che delineano due epoche lontane e due diverse concezioni tecniche dell’arte muraria (…) c’è quasi il simbolo della continuità dell’alto valore spirituale della Chiesa…».
Che ha visto il notista de Il Messaggero? Le persone che transitano lungo la Calata hanno compreso l’inganno: «Ma quale chiesa, quella è una palazzina!» Ha prevalso la logica della lettera anonima del 1946. Di fianco al rudere, ancora e sempre rudere della Rocca, sorge una costruzione senza alcuno stile, una residenza per la Curia, tutta mattoncini, un pugno nell’occhio a ridosso della porta Livorno e delle merlature, ai tempi giustamente denunciata a livello nazionale come scempio urbanistico da Italia Nostra.
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Nelle immagini: 1 la foto con dedica, 2 la foto con l’articolo de Il Messaggero del 20 febbraio 1960, 3 la foto nell’immediato dopoguerra con l’evidenza della struttura della chiesa che si era salvata, 4 la foto della chiesa-palazzina in costruzione.
Si comprende perfettamente la furia del ricostruire. Si giustifica l’amministrazione per le pressioni di un popolo di sfollati.Si accetta l’interesse curiale, le dispute clericali di far primeggiare il clero ordinario rispetto all’ordine domenicano. Si comprende pienamente il disinteresse del Genio Civile assalito da immensi interessi ricostruttivi.
Ma…..
In molte parti dell’Europa affranta, piegata, ammutolita, devastata la riedificazione possedeva lo spirito della storia, il dovere identitario, il simbolo offeso, il ricordo da proteggere, il passato da proiettare nel futuro, lo sdegno di infierire su un corpo già martoriato, la passione di non essere cancellati, il misoneismo come salvaguardia dell’affetto verso gli avi.
Si poteva, dopo la prima fase ricostruttiva, avere un attimo di tregua, un momento di riflessione già nel pieno del rientro dei disperati raminghi nelle lande di Tuscia, e proporre uno spazio alla memoria. Eppure non l’ordigno metallico , non il cielo infausto ma il piccone demolitore ebbe la meglio.
Quel piccone già in uso nell’Ottocento a spazzar via le opere del Sangallo. Sapeva il piccone dove e come colpire, aveva esperienza, conosceva la sua arte distruttiva.
Certo che il bisogno premeva, la necessità di dare vita allo spazio morto era impellente. Ma in ogni cosa, in ogni evento l’aspetto della qualità, l’emotività, la passione ha il suo ruolo. I mattoni di pongono l’uno dopo l’altro legati dalla forza del cemento. Ma esiste anche il modo con il quale si procede, il verso con il quale si produce il costruito.
La linea di cielo vista dal mare dissolta. Lo spazio urbanistico sconvolto. I nomi svaniti. I simboli avvolti dall’oblio.
Perchè? Povera mia città. “Come lo Papa volle?”. Era questo il tuo peccato? Eppure non bastava che tanti artisti ti avevano disegnata? Perchè tanto sciatteria? Perchè così poco rispetto?
Storia lunga questa che sembra non aver mai fine.
Perche?
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Basta dire”Il console era di strada… Le celebrazioni popolari della Candelora… per riportarci in un tempo ed un luogo della memoria che non sono state un patrimonio collettivo sia per le scelte di vita filosofica (storica o epicurea, non so), che per motivi politici. Il populismo insito nella nota espressione:”Ha quattro facce come l’orologio della Rocca” interpreta bene questo carattere prepotente ma inconcludente della nostra specie nei confronti di ciò che si percepiva come falso e farisaico, e così la curia vescovile si serve della lettera del ’46″anonima”, per avallare quello che sarebbe stato lo scempio urbanistico.
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Ma tu, Silvio, da giornalista che fa riferimento alle fonti dell’epoca, ci documenti su ciò che avvenne nella ricostruzione, una situazione politica esemplare per comprendere gli scempi urbanistici, la “politica per la casa” nei prosperosi anni ’60 in Italia.
Nel 1963 la Democrazia Cristiana sconfessa la riforma urbanistica del ministro Sullo, che sarà accantonata. Si crea un’ blocco’edilizio in cui si intrecciano interessi economici e pressioni con le conseguenti derive: la sostanziale assenza di regole che lascerà gravissime tracce sul territorio urbano. Si arriva alla legge – ponte del 1967,ma un grave evento la precede, la frana di Agrigento, è un disastro annunciato, maturato all’ombra di una amministrazione controllata per intero dalla DC. LA DC si schiera a difesa dei suoi esponenti locali e la curia si schiera a difesa della DC e dei palazzinari. Insomma, la legge urbanistica non verrà mai per la pressione dei costruttori. Vi sarà al contrario una mobilitazione speculativa con un’enorme crescita dell’abusivismo edilizio. L’abuso urbanistico di cui tu parli per CV è immagine delle riforme mancate in Italia, con le ombre di quel modello di conduzione politica territoriale evidente a Civitavecchia, come nella Napoli dei Gava, la Palermo di Vito Ciancimino, la Roma di Petrucci e Darida.
Ciao Silvio!
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