Salò o Le otto puntate di Squid Game (con un post scriptum)

di LUCA GUERINI

Finalmente l’ho vista, nonostante la mia riottosità ai film sottotitolati, e ne posso parlare. Giudizio? 8,5 tendente al 9! Direte “Guerini vuole fare il controcorrente” oppure “parla così perché non ha figli!”. Nulla di tutto questo semplicemente come, più o meno, diceva Luhmann una società può essere vista con gli occhi del sociologo e le regole che egli conosce così come si giudica un’opera filmica in base alla sua struttura e realizzazione, tradotto: è gol se la palla supera la linea di porta. Allargando poi il campo vedremo se l’attaccante fosse in fuorigioco o potremmo dire che il tal portiere non si meriterebbe di essere schierato neanche all’Oratorio.
La serie funziona e bisogna dargliene atto. La sceneggiatura funziona, ci sono colpi di scena alcuni difficilmente pronosticabili ed è innegabile questo. La fotografia idem. Sulle interpretazioni non mi esprimo  perché ovviamente il coreano ha un’altra sonorità, gli attori hanno un’altra espressività (infatti il doppiaggio italiano non è stato neanche preso in considerazione). Tecnicamente l’unica cosa che mi ha dato fastidio è che quando veniva fatta una citazione questa veniva sottolineata eccessivamente al fine di farla notare anche alla casalinga del quartiere più periferico di Seoul. (Faccio due esempi che non sono spoiler: A dice a B che la famiglia di C si trasferirà in America  – flashback già visto di C che resta vaga sul prossimo compleanno da festeggiare insieme;  oppure D vede un biglietto da visita nel commissariato – D trova un biglietto in casa di E – flashback già visto del biglietto nel commissariato).
A sorprendere poi sono i mezzi: tutte quelle comparse, gli omologanti costumi di scena, cura dei dettagli, scenografie che citano palesemente Escher o le atmosfere di Kubrick, ovviamente tutto questo influisce alla voce budget e ve lo dice uno che fatica a fare un film con due attori in un furgone per gran parte della pellicola. Sinceramente confesso che in diversi momenti la suspense era altissima tanto da costringere al silenzio lo spettatore e patteggiare emotivamente per uno o l’altro esito. In realtà Squid Game è una versione orientale di Salò, con qualche scena rubata ad Hostel (a prescindere dal vostro stomaco, sono comunque dei filmoni) , ci sono gli annoiati che godono sadicamente della morte dei dimenticati della società, mancano i monologhi pasoliniani delle narratrici, ma quello è in sostanza.
Dice bene un personaggio “Si annoia chi ha troppi soldi e chi ne ha troppi pochi”. Allora verrebbe da chiedersi perché il problema Squid Game non venga rovesciato, cioè perchè non soffermarci sulle cruenti morti previste dal Gioco (parola usata anche da Saw), ma perché quei 400 disperati siano arrivati alla fogna e nessuno sul marciapiede delle loro vite li abbia salvati o perché in Corea (cito un articolo che ho letto) si prende un prestito con la stessa facilità con cui si ordina un caffè al bar. Il Gioco si avvia con un regolare contratto e firmando cedi all’Organizzazione i cookies della tua vita, sapranno tutto di te, ma l’Organizzazione non permette che qualcuno giochi contro i principi fondatori dello stesso. Soffermiamoci quindi sul fatto che tra di loro i capi aguzzini coreani parlano in inglese, gli aguzzini non possono parlare, le vittime parlano in coreano e i VIP coinvolti sono addirittura occidentali.
Che significato date a questo? Forse nello Squid Game ci siamo e non ce ne siamo accorti coi nostri arrivismi, la nostra voglia d’emergere,  non guardiamo in faccia l’amico, la donna amata, quello che ha aiutato noi quando noi avevamo bisogno, siamo disposti a sacrificarli, renderci noi assassini con molta facilità. E, per assurdo, se ci dicono che possiamo uscire da questo vortice noi decidiamo di rientrarci caparbiamente pensando che l’inferno fuori sia peggiore. Si salva solo chi non ha nulla da fare una volta uscito, per loro la morte si affronta con minore preoccupazione.
Squid Game diventa, com’è stato Salò, una metafora della società che l’ha generato, senza nudità e coprofagie. Andatevi a rileggere perché Pasolini spostò l’opera del marchese de Sade nel ventennio fascista. La società coreana, sia chiaro, non la società italiana, mi viene da chiedermi per quanti sia stata la prima opera filmica coreana che hanno visto. E perché succede? Perché tutti ne parlano? Perché c’è della violenza (apparentemente) gratuita? Senza tutto quel bailamme sarebbe stato uno dei titoli disponibili nel ricco repertorio Netflix e nulla più. Sono stati riscontrati dei fenomeni di emulazione, non sono un no-emulation, ma arrivo a contemplare questo fenomeno nell’ordine “i bambini si danno uno schiaffo se non riescono a girare una tessera”, cioè sono bambini che hanno maturato una predisposizione per la violenza per i fenomeni ambientali di cui sopra. Non è che se un bambino vede un film di mafia con attori in carne ed ossa domani inizierà a chiedere il pizzo delle merendine ai compagni.
Non esageriamo e non facciamo una censura perché diseducativo altrimenti Arancia Meccanica andrebbe distrutto e dimenticato per sempre, giusto per fare un esempio. Malena di Tornatore? I film con Laura Antonelli o Edwige Fenech allora? Dobbiamo nel nostro revisionismo giudicare un’opera sul fatto se sia o meno adatta ai bambini? Che poi da bambini li abbiamo guardati tutti nonostante le proibizioni. Forse stiamo solo cercando di aggirare il problema, anche Snapo (non so come) ha imparato che se faccio colazione con i biscotti al cioccolato non deve mettersi sotto il tavolo questuante, perché non ne avrà. Si tratta solo di capire che dei bambini richiedono più presenza e indottrinamenti di un cane e con questo c’entrano poco le opere di fantasia…
 
LUCA GUERINI
 
 
PS: Avevo concluso questa riflessione, ma prima di consegnarla mi è capitato di iniziare a vedere sempre su Netflix Alice in Borderland, una serie giapponese che può essere in molti aspetti collegata a Squid Game. La differenza abissale è che questa serie è ambientata in un presente distopico. I protagonisti sono soprattutto tre teenager amanti dei videogiochi che si ritrovano in una Tokyo deserta ad essere costretti ad affrontare dei giochi (“GAME” – vi ricorda qualcosa? – è scritto in inglese anche tra gli ideogrammi) per prolungare la propria vita. Qui non c’è alcuna filosofia dietro, non c’è nessuna possibilità di riscatto per i partecipanti se non usare l’ingegno, ed anche qui gli eliminati lo sono nel vero senso della parola. Con il punto di vista di chi ha ancora visto solo le prime puntate viene da chiedersi perché bersaglio dell’opinione pubblica sia solo Squid Game. Le scene di morti violente che impressionano i minori di 14 anni sono le stesse, il meccanismo sadico di chi guarda e di chi partecipa è il medesimo, basta dire “Tokyo non sarà mai deserta” per stroncare il processo di emulazione o, più probabilmente, perché nessuno ne parla il consumatore inesperto che vogliamo tenacemente proteggere non è arrivato ancora al telecomando per schiacciare PLAY. Forse questa è la strada da usare anche per “tutelarli” (se crediamo ce ne sia bisogno) dallo Squid Game.