Fatti & Fattacci della Civita-Vecchia dell’Ottocento  – 9. Er Marchese

di SILVIO SERANGELI

«Fio bello, si nun cugi nun fili e nun tessi, li guadrini chi tte li dà?» Mia nonna Maria, 92 anni, teneva conclave, distesa sul suo lettone con figlie, figli e nipoti intorno a lei. Era la  visita della domenica, e mio padre le portava le sfogliatelle perché le piacevano tanto e suscitavano uno dei suoi rari sorrisi. Era di Ussita, quattro capanne, vicino Fiuminata, nelle Marche. Fame e miseria. Aveva raggiunto mio nonno Nicola che aveva trovato da fargià e governà le bestie del Principe nelle vaste terre fra il Ponte del Diavolo e Sant’Agostino. Si erano sistemati, come tanti, in una specie di baracca alla Vaccheria, e lavoravano sodo. Avevano filato e tessuto per tanti anni come i loro figli, ma di guadrini ne erano arrivati pochi. Era una colonia di marchiciani e umbri, di minatori bruzzesi che tentava la fortuna, arrivati con un sacchetto in spalla, alla ventura. Ma c’era pure chi aveva fatto fortuna, e tanta.

IMG_2918 2Erano piccoli proprietari terrieri, agenti di campagna con qualche soldo da parte e, soprattutto, avventurieri senza scrupoli. Avevano costruito la loro fortuna sulla fiducia dei loro compaesani e sulle disgrazie. Erano frequenti le annate con i raccolti andati a male, la siccità, magari una brutta malattia,  e loro  erano pronti ad aiutarti, da buoni amici.

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Di banche e di Casse di Risparmio in queste terre del papa neppure se ne parlava. E loro ti concedevano dei prestiti, magari pretendendo in cambio anche il futuro raccolto. Strozzini, cravattari e, alla fine, gloriosamente marchesi, perché il loro potere, la loro ricchezza si giocava anche sull’inginocchiatoio in prima fila nelle chiese e nelle mazzette ai monsignori. «Pidocchi rifatti» li chiamava il popolino, che non aveva altro da opporre alla loro crescente e ostentata ricchezza: un palazzo costruito in pieno centro e poi case e appartamenti, un castello e terre sconfinate, tanto bestiame da «riempì l’arca de Noè», come diceva chi l’aveva visto.

Ma i marchesi, che ora si mischiavano alla vera nobiltà e ai cardinali, in fondo erano rimasti al dialetto, ai modi bruschi e villani: quanto bastava a governare la loro fortuna. Si erano scelti gli uomini giusti per amministrare le campagne e le bestie, per controllare i sottoposti con le buone e le cattive. I fedelissimi mastini erano Adolfetto, Ovidio e Gaetanino che incutevano terrore quando te li vedevi presentare sulle terre in sella al loro cavallo, il fucile a spalla, il cappellaccio da brigante. E tuttavia la sorte degli uomini, delle fortune terrene sta nelle mani di Dio, come aveva ammonito il santo padre. E ai marchesi il destino doveva riservare solo lutti e sciagure. Il primogenito, il marchesino, era infatti morto dopo una notte di spasimi perché aveva mangiato dei funghi avvelenati. Era capitato, infatti, che con gli amici aveva organizzato una cena nel podere di campagna con tanto vino delle vigne di famiglia che aiutava a mandare giù i bocconi di tutti i tipi di cacciagione, accompagnati dai funghi porcini colti nel bosco vicino, trifolati e saltati in padella, salami e formaggi. Tutti a giurare che erano funghi buoni, colti e controllati uno per uno, ma che costarono la vita a  lui e a due suoi amici.

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Non passò un anno che il diavolo tornò a metterci la coda. L’attività preferita dei marchesi era la caccia al cinghiale, la cacciarella: una vera operazione militare, fatta di truppe organizzate, di mute di cani addestrati, di  ruoli precisi, di strategie e di appostamenti. Nell’eccitazione che si era creata per aver individuato e accerchiato una grossa preda, non si sa perché e non si sa come, partirono alcuni colpi che ferirono a morte il più giovane dei figli del padrone che spirò fra le braccia del padre e degli amici. Un incidente, ancora una disgrazia, ma non l’ultima. Il marchese viveva ormai asserragliato nel suo palazzo con la moglie stanca e malata, non riusciva a scrollarsi il dolore per la perdita prematura dei suoi due figli, la luce dei suoi occhi, come spesso ripeteva. Purtroppo per lui, e per tutti i mortali, il  destino non ha prezzo, neppure se sei ricco. Si concedeva qualche galoppata sulle sue terre, magari per due fette di pane col prosciutto e un bicchiere di vino da consumare alla buona insieme al fattore. Poi, un po’ risollevato nell’umore, raggiungeva il podere più vicino per passare la notte con una prosperosa contadinotta, prima di tornare in città. Ma qui, l’ultima volta, giunse solo cadavere in una magnifica cassa di rovere, con  tutti gli onori, il cordoglio e i pianti dei suoi amici. Era capitato, infatti, che mentre galoppava con la brezza in faccia, sazio della merenda d’altri tempi e della bella nottata, era finito a terra, aveva battuto la testa contro un masso, perché, come capirono subito i contadini che lo avevano soccorso, s’era sganciata la sella e il Marchese aveva perso la presa. Fra i primi arrivati sul posto c’era Gaetanino, il suo uomo di fiducia dai tempi delle prime ribalderie. Confermò che si era spezzato il sottopancia che reggeva la sella perché era tutto sfilacciato. Lo sapeva bene: era stato lui a lacerare il cuoio, come era stato lui a mescolare dei funghi velenosi fra quelli porcini della cena del marchesino, e sempre lui, nella confusione generale, aveva imbracciato la doppietta e sparato all’altro figlio del marchese. Gaetanino beveva, e chi lo conosceva diceva che non ci stava tanto con la testa. Per dire tutta la verità la causa delle sue sciagurate azioni non era questa: non aveva mai dimenticato l’infanzia di stenti e di fame, le umiliazioni e i soprusi del Marchese che aveva mandato a morire affogati il padre e lo zio per ripulire l’argine di un fosso per punirli per avere perso una bestia poi ritrovata. La fedeltà e la rabbia erano convissuti fino a quando si era presentata l’occasione. Tre morti, tre esecuzioni e nessun sospetto. Così quando era stato chiamato a palazzo dalla Marchesa per accattare magari una vecchia giacca, un paio di gambali consumati che il marchese non avrebbe potuto più indossare, si era subito presentato. Quella che ormai era una vecchietta, senza forza, che tremava tutta e cercava conforto nel fuoco quasi dentro al grande camino del salone, lo aveva fatto avvicinare. Tutta intabarrata nelle scialli con un filo di voce si era rivolta a lui: «Guardate che ber foco! La robba sta sulla sedia, Gaetanì, piativela». Il servitore fedele, l’uomo di fiducia si avvicinò con deferenza. Con uno scatto improvviso e con uno spintone gettò il corpicino fra le fiamme. Quel fagottello si consumò come una fascina di fieno, senza che ne uscisse neppure un fiato.

SILVIO SERANGELI

**Le foto d’epoca, da un album francese di un viaggio in battello con tappa a CV e dintorni, sono di proprietà dell’A..