Dell’elmo di Scipio si è cinta la testa? (I). L’Italia dello sport dopo Wembley e Tokyo.
di NICOLA R. PORRO ♦
Fra l’11 luglio della vittoria calcistica agli Europei e la conclusione del programma olimpico (7 agosto) si è consumata una delle più entusiasmanti stagioni dello sport italiano. La conquista del titolo europeo nello sport di squadra più popolare e le quaranta medaglie guadagnate dagli olimpionici azzurri ai Giochi di Tokyo hanno rappresentato un’energica infusione di autostima in un dall’immaginario depresso e non ancora libero dall’incubo della pandemia.
Una specifica attenzione va dedicata alla composizione del medagliere olimpico. Non ci si può limitare al compiacimento per il risultato – sorprendente per i meno informati ma non per gli osservatori meglio documentati – senza evidenziare alcuni aspetti un po’ trascurati dai commentatori ma forse più significativi del semplice conteggio delle medaglie.
Per oltre un secolo il (cospicuo) medagliere olimpico italiano ha attinto principalmente a due serbatoi principali. Il primo era quello degli sport di fatica e di rischio: gli sport “plebei”, come il ciclismo e la boxe. Il secondo quello degli sport “delle élite”, eredità di una tradizione militare e aristocratica che aveva tramandato nel tempo la passione per la scherma, l’equitazione e poche altre attività considerate socialmente distintive. I successi in altre discipline di particolare pregio tecnico, come l’atletica leggera o il nuoto, non sono certo mancati. Non di rado, tuttavia, si è trattato delle prodezze di qualche campione solitario alle cui spalle c’era il vuoto o quasi. Solo in tempi relativamente recenti l’Italia ha potuto disporre di squadre capaci di battersi alla pari con i Paesi leader nelle discipline considerate (a torto o a ragione) di maggior prestigio. [1]

Nessuno al mondo, del resto, avrebbe immaginato solo un mese fa una nazionale italiana di atletica capace di guadagnare cinque medaglie d’oro collocandosi al secondo posto dopo gli Usa nella più prestigiosa graduatoria di specialità. Le medaglie d’oro conquistate nella velocità pura (i 100 metri di Jacobs e la staffetta maschile 4X100) assumono un significato speciale se si ricorda che già l’accesso alle due finali era considerato alla vigilia un traguardo quasi proibitivo. In una specialità del genere non si vincono per caso i 100 metri, la staffetta veloce, il salto in alto esaltato dall’emozionante prestazione di Tamberi e le due prove di marcia. Dal nuoto non è venuto alcun oro ma non sono mancati risultati tecnici strepitosi come la medaglia d’argento conquistata della 4X100 stile libero e le due di Paltrinieri, oltre alle quattro di bronzo. Mai avevamo vinto sette medaglie in questa specialità di prima grandezza. Ottenere quasi un terzo delle medaglie nell’atletica leggera e nel nuoto è un risultato alla portata di pochissimi Paesi. È inoltre interessante osservare, per entrambe le discipline, la prestazione delle staffette, che più degli exploit individuali di singoli campioni riflettono la consistenza reale di un movimento di specialità.

Specularmente, tanto gli antichi sport “plebei” quanto quelli ”distintivi” hanno conosciuto una mezza débacle. La boxe (in questa edizione limitata peraltro al settore femminile) ha conquistato solo la medaglia di bronzo di Irma Testa, il ciclismo su strada è naufragato malgrado il bronzo della Longhi Borghini. Appena un oro e un bronzo sono arrivati dalla pista. Non meglio gli antichi sport di élite: per la prima volta nemmeno un oro dalla scherma, che pure raggranella tre argenti e due bronzi. Insuccesso totale nell’equitazione.
Pesantissimo il flop dei giochi di squadra: una delusione cocente per gli appassionati ma del tutto prevedibile. Altro che pallavoliste distratte dai social! A fine stagione pesa sui nostri giocatori di squadra il sadismo di calendari agonistici resi interminabili e defatiganti dalle coppe internazionali di club cui le nostre squadre partecipano massicciamente.

In sintesi: a fronte delle dodici medaglie, di cui cinque d’oro, conquistate da atletica leggera e nuoto, solo nove sono venute dagli sport che per un secolo hanno rappresentato i serbatoi dei nostri medaglieri e nessuno dai giochi di squadra. Va segnalato, allo stesso tempo, come venti delle quaranta medaglie siano venute da diciassette diverse discipline, a segnalare quella versatilità tecnico-agonistica che costituisce un robusto indicatore di competitività.
Si è trattato certamente per gli sportivi italiani di un’Olimpiade esaltata dalla vittoria della Nazionale agli Europei di calcio di poche settimane prima e dalla spettacolarità dei successi nell’atletica leggera. Vincere ai rigori nel tempio del calcio britannico, rimontando un goal subito nei primi minuti di gara contro un avversario poco incline al fair play, non poteva che alimentare una narrazione epica dell’impresa. Ciò vale anche per le performance degli atleti azzurri nelle prove di atletica più spettacolari e prestigiose del programma olimpico: la velocità e il salto in alto.

A Tokyo è forse venuta a maturazione una metamorfosi carsica del nostro sistema sportivo: un processo che interessa anche altri Paesi ma cui la spedizione olimpica ha offerto una particolare visibilità mediatica. Sono mutate le gerarchie di rango fra le discipline e ciò ha influito anche nella fruizione passiva dei pubblici: presso quello televisivo, a dispetto dagli orari proibitivi, l’atletica leggera e il nuoto hanno mobilitato un’attenzione di proporzioni calcistiche. Atleti azzurri si sono cimentati con successo persino nelle discipline orientali, in qualche caso sconfiggendo i maestri padroni di casa. La stessa provenienza dei “medagliati” ha in parte ridimensionato la tradizionale egemonia delle regioni forti del nord segnalando un inedito protagonismo di atlete e atleti meridionali. I nostri campioni appartengono in larga maggioranza ad ambienti sociali molto diversi da quelli che avevano rappresentato per decenni il vivaio dell’alta competizione. Questa Olimpiade andrà ricordata non tanto per il numero delle medaglie conquistate dagli atleti azzurri quanto piuttosto per la diversa qualità e per l’accresciuta diversificazione dei risultati.

I nostri atleti vincenti (e non solo) esprimono una cultura delle attività ormai del tutto omogenea a quella delle tradizionali potenze sportive dell’Europa occidentale e settentrionale. E il nostro movimento sportivo si è dimostrato un’avanguardia nelle pratiche di inclusione e integrazione sollecitate dai grandi movimenti migratori del nostro secolo: ben il 38% dei nostri rappresentanti aveva ascendenze straniere. Percentuale che si avvicina ormai a quelle dei nostri competitor europei, come Francia, Paesi Bassi e Regno Unito, che da decenni si valgono massicciamente dell’apporto di campioni delle più svariate provenienze. E dobbiamo registrare come un salto di qualità epocale il fatto che ben ventisei nostre atlete siano salite sul podio contribuendo in maniera decisiva al medagliere nazionale. Un profilo del nostro sport di eccellenza irriconoscibile rispetto al recente passato e che si spera incoraggi a proseguire lungo la strada intrapresa le autorità sportive nazionali.

Il titolo posto a cappello degli articoli dedicati alla riflessione sull’evento olimpico richiama in forma interrogativa e con una punta di (rispettosa) ironia una strofa del nostro inno nazionale. Al di là delle evocazioni retoriche e dei mutevoli umori della passione sportiva, Wembley e Tokyo consegnano però all’Italia sportiva l’opportunità di affermarsi stabilmente come un valido e riconosciuto player competitivo a scala globale. Per una volta una riflessione coraggiosa sul sistema sportivo italiano, le sue grandi potenzialità e le sue persistenti fragilità può essere innescata non dalla rabbia o dalla delusione ma dall’orgoglio e da una soddisfazione condivisa. Non è poco…
NICOLA R. PORRO
Se cominciassimo a gestire con misura l’orgoglio di essere italiani!
Ma essere italiani non è questione di “ghenos”, di razza ma di un modo di pensare e di esprimere cultura. Se questa è l’italianità ogni “alieno” può divenire “italiano”.
Non comunità di sangue (tra l’altro dovremmo rammentare a molti: “ricordati che eri un tempo straniero”in una terra che è storicamente miscela di genti) ma comunità di cultura.
Una comunità di cultura presenta differenze accidentali non sostanziali che le permettono integrazioni internazionali falsificando le assurde e belligeranti rivendicazioni della “stirpe”.
In questo senso è da accogliere il titolo dell’inno : Fratelli d’Italia!
Nessuno , che abbia testa corretta e coltivi interessi di ampio respiro può utilizzare tempo nell’indagare cosa passi nella massa cerebrale dei nostri patriottici razzisti a proposito del medagliere olimpico. Tuttavia, possiamo permetterci, a seguito della tua perfetta analisi sociologica, una eccezione a riguardo ed immaginare un certo imbarazzo nel trovare plausibili giustificazioni.
Un suggerimento ai nostri puristi della stirpe potrebbe essere questo. Sostituire il monito “Vieni incontro a me!” con quello ora più adatto “Veniamoci incontro”!
Circa il cambiamento tipologico che vede il Paese abbandonare la polarizzazione tra l’asse “plebeo” e quello “elitario”collocandosi nella “medietà”non ho competenza per esprimere qualcosa. Azzardo una risposta: può essere questo il risultato della contaminazione di cui sopra?
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Due osservazioni, Nicola.
La prima riguarda l’atletica, dalle origini né plebee né elitarie, ma –nel caso italiano e più ancora anglosassone- “universitarie”. Un tempo i nostri migliori atleti appartenevano o provenivano dai Cus (Centri universitari sportivi) oppure erano tesserati in società sponsorizzate da importanti aziende (la Snia per dirne una). Ora i nostri atleti (pressoché in tutte le discipline) sono formalmente poliziotti, carabinieri, finanzieri: l’orizzonte è radicalmente mutato e mi piacerebbe che tu approfondissi il fenomeno con la tua competenza e acutezza intellettuale.
Il ciclismo è nato plebeissimo (“son contento di essere arrivato uno”), ma adesso è tecnologicamente e culturalmente assai raffinato: basti pensare a quanto siano sofisticate le bici e al fatto che anche ogni “umile gregario” deve saper reggere un’intervista in inglese. E guarda caso da quando è avvenuta questa epocale trasformazione gli italiani non hanno più sfornato i campioni di un tempo. Va anche detto che questo sport è sempre più planetario: quando eravamo ragazzi a vincere erano- con poche eccezioni rigorosamente dell’Europa occidentale- o francesi o belgi o italiani e nessuno avrebbe immaginato un futuro dominato da anglosassoni, andini o sloveni. Perché questo sia avvenuto sarebbe interessante argomento di discussione e attendo le tue sottili analisi.
Un abbraccio.
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Osservazioni che condivido in toto e di cui mi varro’ nelle prossime puntate.
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Bravo Nicola, veramente interessante. Aggiungo una osservazione. Il cambiamento della società italiana si vede anche nelle interviste degli atleti. E’ finito il tempo, ricordato da Ettore, di “ciao mamma, sono contento di essere arrivato uno”, le interviste che ho sentito sono tutte di giovani precisi nei commenti, fatte in un buon italiano e in molti casi tutt’altro che banali. Poi il nostro è un modello sportivo “militarizzato” come notava Ettore, vicino per questo aspetto forse al vecchio modello sovietico. Non so se anche negli altri paesi europei sia così.
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Caro Nicola, effettivamente impressiona quel 38% di “ascendenze straniere”. Non immaginavo una tale percentuale. Sarebbe interessante conoscere la storia di ciascuno o di alcuni di questi atleti per capire se siamo di fronte solo ad un fenomeno quantitativo o se dietro c’è anche un diverso atteggiamento che conferisce una diversa qualità al fatto sportivo.
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