Giochi Olimpici di Tokyo 2020 – Mi voglio rovinare: due vincitori al prezzo di due
di SALVATORE SICA ♦
Premetto: in questo mio scritto mi occupo solo dello sport di competizione che si nutre di valori, di regole e di principi che i Giochi Olimpici esaltano nei loro molteplici significati simboli premiando la vittoria degli atleti con l’aggiudicazione di una medaglia d’oro al primo classificato, di una medaglia d’argento al secondo classificato e di una medaglia di bronzo al terzo classificato.
L’ultima gara di salto in alto maschile di atletica leggera ai Giochi Olimpici di Tokyo appena terminati ci dà lo spunto per fare una riflessione, spero utile, sullo sport.
Espongo: al termine della gara ufficiale di salto in alto maschile due atleti si sono trovati alla pari per cui, come sempre succede in ogni competizione sportiva che non decreta subito un vincitore, i giudici sono corsi a rileggersi il regolamento che in questo caso prevedeva: o la possibilità per i due atleti di continuare la gara con uno spareggio o la possibilità sempre per i due atleti di decretarsi entrambi vincitori della gara con gli stessi diritti di un atleta che fosse arrivato primo da solo.
Ci sono stati attimi di perplessità e di curiosità, vista l’unicità della situazione, ma appena gli atleti si sono accertati che il regolamento dava loro la possibilità di aggiudicarsi una medaglia d’oro a testa si sono abbracciati e si sono autonominati vincitori andando entrambi ad impreziosire il medagliere delle proprie e rispettive nazioni con una personale medaglia d’oro appesa al collo.
Considero: mentre il risultato della gara, peraltro legittimo da un punto di vista regolamentare, ha lasciato contentissimi tutti gli addetti ai lavori, un po’ meno contenti ha lasciato tutti i gli altri, quelli che godono solo delle emozioni che lo spettacolo sportivo delle Olimpiadi da loro ogni quattro anni.
Questi, i cosiddetti sportivi non protagonisti perché solo spettatori, nella perplessità più profonda hanno dovuto ricercare uno spazio logico di accettazione che permettesse loro di essere comunque, per quanto solo appassionati di sport, parte di quell’evento sportivo.
Sì, dico “parte di quell’evento sportivo” perché chi segue lo sport partecipa e vive nel suo animo e nelle sue identificazioni l’emozione della gara ed i vissuti degli atleti.
Nell’agone sportivo, dove lo spirito è nel riconoscere chi primeggia, nel rispetto delle regole fissate e riconosciute, non vale la cultura ludica che recita meglio vincere poco ma vincere tutti e per più tempo, ma vale la regola della vittoria, di vincere per essere il campione, al punto di gioire nel precedere all’ultimo centesimo di secondo l’avversario, anche dopo che l’avversario stesso ha condotto in testa tutta la gara.
Lo sport può essere letto come una riproduzione simbolica della realtà della vita che permette di assaporarne tutti i suoi contenuti però in una realtà protetta attraverso un incontro/scontro fra persone/atleti che gareggiano per il primato o uno contro gli altri, o uno contro un altro, o due contro due, o un gruppo contro un altro gruppo.
Su cosa si costruisce l’incontro/scontro a cui facevo riferimento?
Si costruisce su un accordo fra persone che si danno una regola che possa disciplinare il percorso della disciplina sportiva all’interno di regole condivise che possano alla fine sancire un vincitore.
Per cui lo sport si fonda su una relazione che prevede la condivisione del suo percorso e dello scopo finale di cui la gara è lo strumento che permette di verificare il risultato finale.
Lo sport è competizione agonistica e simbolica allo stesso tempo che si prefigge di vedere un atleta superare e vincere su di un altro atleta, detto l’avversario, all’interno di una relazione definita da regole prestabilite.
Nella sostanza il vincitore deve essere grato al vinto perché grazie alla sua presenza e alla sua partecipazione può dimostrare, a sé stesso e agli altri, la sua bravura, anche se situazionale.
La cultura dello sport si basa su un concetto di potere fermentativo, di prima mano a tipo iniziativa rivolto sostanzialmente a vincere per sé con la partecipazione dell’avversario e no a vincere per sé con la distruzione dell’avversario che invece comporterebbe una cultura del potere semaforico di controllo, drogato e quindi insignificante per il risultato che produrrebbe per lo sport.
Infatti lo sport perde del suo significato competitivo quando “non c’è gara”, cioè quando vince sempre lo stesso o quando data la differenza di capacità sportive e atletiche è quasi inutile competere proprio perché la competizione non cambia niente di quello già saputo e previsto, cioè quando il potere è solo da una parte.
Sembra che in tempi passati, in alcuni sport, gli organizzatori si siano visti costretti a pagare atleti perché non partecipassero alla gara del momento per dare alla gara stessa, con gli altri atleti, quel sentimento di incertezza sulla vittoria finale utile allo spettacolo e alla legittimazione dello sport.
Probabilmente la Federazione di Atletica Leggera mai avrebbe previsto che a Tokyo si sarebbe potuto verificare una situazione del genere e probabilmente nello stilare il regolamento ha ritenuto sufficiente ipotizzare le due possibilità finali nel salto in alto alle quali il giudice non ha potuto fare altro che dare seguito.
Sicuramente non era stato previsto, al momento della scrittura delle regole, che quelle regole avrebbero potuto far nascere, in chi assisteva fiducioso alla gara, in caso ci fosse stato una necessità di applicazione delle stesse, una sensazione di tradimento dello spirito olimpico.
Sicuramente niente di tutto questo era prevedibile e meno che mai programmabile, ma rimane il fatto che ha determinato una strana impressione alla quale ritengo, da amante dello sport, vada posto rimedio per il futuro.
Voglio quasi esasperare quanto è successo perché si riporti lo specifico del salto in alto all’interno dei giusti binari dei valori delle olimpiadi che sono l’espressione massima di tutti i significati morali e simbolici che noi diamo allo sport e che non premi la soggettività della relazione fra due atleti, ma premi quanto gli atleti hanno fatto emergere dalla gara.
Concludo: occorre che i responsabili, in questo caso dell’atletica leggera. che comprendono dirigenti e atleti, si siedano insieme intorno ad un tavolo e ripensino come possono dare forma ad un regolamento del salto in alto che non permetta ad un atleta di scegliere chi vince, ma educhi l’atleta stesso a competere fino alla fine perché emerga un vincitore.
Solo se per caso questo non fosse possibile, cioè trovare una formula che premi un vincitore, allora la determinazione dei due vincitori alla pari deve scaturire dal regolamento che sancisce la fine della competizione con due vincitori e non dall’aver scaricato la responsabilità della vincita sugli atleti.
In conclusione voglio riconoscere lo sforzo fatto da tutte le organizzazioni sportive di tutte le nazioni del mondo che sono state capaci di organizzare una Olimpiadi nella situazione attuale di pandemia e congratularmi con tutti loro.
Sono state delle belle Olimpiadi e lo spettacolo non è mancato; quindi grazie a tutti ed in particolare alla passione degli atleti.
Questa riflessione che ho messo per scritto potevo tenerla per me, ma proprio perché amo lo sport, quello fatto bene, ho sentito la voglia di intervenire con la speranza di poter essere utile.
* Salvatore Sica, psicologo e psicoterapeuta, è esperto di psicologia applicata allo sport. Ha insegnato Sociologia e Psicologia delle Attività Sportive presso la Laurea Magistrale di Management dello Sport della Facoltà di Chirurgia e Medicina dell’Università degli Studi di Firenze.
SALVATORE SICA