LE INDAGINI SEGRETATE DEL PROVICARIO LABAT / I
di FRANCESCO CORRENTI ♦
Il 15 agosto 1975 mi fu messo tra le mani un fascicolo dal titolo, dovuto alla penna di tal priore Fati, Le manuscript du Magnifique Docteur et Noble Citoyen Jean Watteau dit Gianvattò, che appena aperto, letta qualche riga, mi parve immediatamente essenziale per le ricerche che dovevo condurre in ossequio all’incarico ricevuto dalla Cassa di Risonanza delle Centocelle. Eravamo, in quella calda giornata estiva, in una stanza del Convento Domenicano, davanti ad un armadio in legno, sui cui ripiani, all’interno delle due ante, poggiavano libri e faldoni di varia grandezza, tutti dall’aspetto decisamente antico ma anche altrettanto malandato. Era con me – ed era stato lui ad estrarlo dall’armadio ed a mettermelo tra le mani, avvolto in fogli di giornale del 1961 stropicciati e ingialliti – il caro padre Giovanni, frate dell’Ordine dei Predicatori e parroco di Santa Maria, la chiesa matrice di Civitavecchia demolita una ventina di anni prima, ma “trasferita” come parrocchia nella chiesa della Confraternita dell’Orazione e Morte. Così come ugualmente “trasferita”, sulla carta, per una «ricostruzione fuori sito», risultava proprio la stessa chiesa, appunto insieme al convento, quello in cui eravamo.
Perché c’era stato un certo accordo – ancora da chiarire a pieno – tra il pio presule che sovrintendeva alla diocesi ed il demanio dello Stato ora repubblicano. Ne era venuta fuori, una decina di anni prima, quella brutta costruzione poligonale, stridente superfetazione dei muraglioni di base, costituiti da possenti strutture romane voltate, da resti dei torrioni quattrocenteschi e da vari frammenti d’epoche successive, squarciate e spaccate senza pietà, dopo essere state dilaniate nei bombardamenti, senza alcun motivo strategico o finalità bellica, se non la barbarie del terrore.
Ma i plinti e i pilastri in cemento, con travi, solai e volte e quant’altro, previsti dal progetto di Furio e di Orseolo Fasolo – figli di Vincenzo – a dar forma alla grande aula ecclesiale ottagona con alto tamburo e copertura a “caffettiera Bialetti”, quelli ero riuscito a non farli “gettare” sul basolato traianeo ed al posto del basamento della torre civica, grazie al rilievo di quelle reliquie ed alla relazione illustrativa inviata alle Soprintendenze nel 1970, investendo al contempo il Sindaco del grave problema culturale e politico posto da quei ruderi ai partiti del Pincio, benché già quasi risolto.
Padre Giovanni, di questo, non me ne voleva. Erano perfettamente consapevoli, lui e i suoi confratelli, dell’assurdità di quel progetto. Loro, i Frati Predicatori, figli di San Domenico Guzman, ordine colto e di dotti, quello di Tommaso d’Aquino, di Alberto Magno, di Caterina da Siena e pure di Tommaso Campanella come di Giordano Bruno, avevano proposto e difeso fino allo stremo il progetto di autentica, fedele ricostruzione di Vincenzo Fasolo, con soluzioni architettoniche scenografiche per valorizzare le preesistenze sopravvissute, ribadendo il valore prezioso del campanile a vela romanico e conservando miracolosamente in piedi, fino al 1952, senza nessun sostegno, senza bisogno di puntelli, a dispetto di tutti, la facciata settecentesca. Quella – alta al vertice del timpano circa 87 palmi, pari a 19 metri e 40, con una larghezza, “fuori tutto”, di circa 70 palmi, poco più di 15 metri e mezzo – sovrapposta alla precedente medievale dal frate architetto francese Jean-Baptiste Labat, che l’aveva innalzata con materiali di riuso, contro il parere dei mastri locali, però con una bravura tecnica evidente e con un senso di equilibrio e precisione statica ammirevoli, poggiando quei carichi immani proprio sul “mio” basolato. Impresa titanica, che nel 1990 avrei replicato molto più semplicemente, per quanto concerne le difficoltà tecniche, ma forse con maestria e disinvoltura pragmatica non troppo inferiori, oltre all’audacia immaginifica, per il superamento delle incrociate perplessità e remore burocratiche. Pur se grazie – va detto – ad altolocati e nobili protettori tra i ranghi della magistratura comunitaria. E questa volta, con la presenza di un Vescovo entusiasta, benedicente e sorridente.
Il miracolo equilibristico della facciata (una superficie di quasi 275 metri quadri esposti ai venti e alle intemperie, con un peso approssimativo di 750 tonnellate), all’epoca, non fu sufficiente a salvarla e giunse quindi inesorabile il giorno della sua demolizione, spiata con compiacimento e sollievo dai tanti che ne avrebbero derivato utilità di varia natura e lasciata senza reazioni (anzi senza neppure un RIP!) dall’inebetita indifferenza della “pubblica opinione”, complice della miopia servile di quanti avrebbero dovuto insorgere.
L’anima di Civitavecchia non avrebbe più «ondeggiato tra il campanile di Santa Maria e la torre quadrata della Rocca» e nessuno l’avrebbe più sentita svolgere, tra quelle due cime – entrambe paradossalmente scapitozzate, anzi estirpate fino alla radice, come per una vendetta dei secoli bui – «il canto imperituro della propria grandezza». Lontani ancora i giorni del rimorso, del rimpianto, del ricordo riesumato, quando le parole di padre Raimondo Diaccini saranno un monito severo, ripreso e ripetuto, ma ormai senza nessuna possibilità di concreto ritorno al passato.
E stato proprio in questa coincidenza di cose, di situazioni e di fatti, che ho capito lì per lì la strana concatenazione delle storie, pur non conoscendone ancora tutti i risvolti. Perché ho compreso solo tempo dopo che quel misterioso Jean Watteau altri non era che il personaggio di cui parla Jean-Baptiste Labat, con poche parole sbrigative: «Avevo preso a Marsiglia un giovane Chirurgo della Contea di Avignone che dovevo portare con me alle isole se ci fossi ritornato. Parlava un poco l’Italiano e mi ha sempre assistito con molta fedeltà e affetto».
Avrei poi chiarito, traducendo con Giovanni Insolera l’opera del domenicano, che questo jeune Chirurgien, che era stato al seguito di J.B.L. per tutto il suo primo viaggio in Italia, mi aveva dato qualche problema di traduzione. Già in questo brano, J.B.L. dice di lui: il m’a toujours servi avec beaucoup de fidelité & d’affection. Ho tradotto «mi ha assistito» e ho usato in seguito la qualifica di «aiutante», anche quando, più avanti, lui lo chiama, senza mezzi termini, mon valet o mon garçon: malgrado la dichiarata disistima di J.B.L. per medici e chirurghi, non me la sono sentita di usare vocaboli come «domestico», «servitore», «cameriere», né, tanto meno, di mettere in bocca al pur sempre austero religioso un’espressione come «il mio ragazzo», che oggi è utilizzata con ben precise connotazioni. Non sapremo mai, purtroppo, se questo giovane volenteroso abbia poi potuto esercitare la professione, se sia divenuto un affermato anatomista o un semplice cavasangue o se gli insegnamenti del suo implacabile Maître (si dia al termine il significato che si vorrà) non l’abbiano convinto, piuttosto, a dimenticare del tutto quanto aveva appreso alla “Facoltà”.
Ma non avevo ancora trovato, allora, il bandolo della matassa. In fondo, a portata di mano. Bastava raccordare alcuni fili. E solo ultimamente ho capito, ho intuito, quale dovesse essere il suo nome. Con qualche dato di partenza ed una sommaria riflessione. Il dottor Watteau, Jean Watteau, era (doveva essere) il giovane chirurgo, d’una certa provenienza “marsigliese”, ma probabilmente di origine fiamminga, testimone delle avventure del Nostro e, da quel che vedevo, relatore di alcune di esse. Nome che era perfetto, in modo banalmente elementare, per evidenti assonanze, appunto come autore di racconti riguardanti il suo maestro e che, italianizzato in Gianvattò, tutto da vedere, potrà aprire altri orizzonti. Senza arrivare al pur sempre possibile: «Le docteur Watteau, je suppose…»
Mi sembra di sentire la sacrosanta domanda che, a questo punto, molti (?) di quel paio di lettori che, immagino, forse con un po’ di presunzione, hanno la bontà – o la cattiveria – di seguire queste mie esternazioni, vorranno pormi. Per quale motivo, ovviamente recondito, ho atteso quasi esattamente quarantasei anni per parlare di quel manoscritto messomi tra le mani, in quella calda giornata estiva, in una stanza del Convento Domenicano, davanti ad un armadio in legno?
Eravamo, più o meno, in quello stesso punto dell’universo, dello spazio e, per farla breve, della città portuale (la solita, benedetta città portuale – o “porto con città” – di cui pedantemente ci occupiamo), nonché, per la precisione, dell’ala della Rocca che, negli anni in cui quel manoscritto, cioè Le manuscript du Magnifique Docteur et Noble Citoyen Jean Watteau dit Gianvattò – titolo dovuto alla penna di tal priore Fati – era stato manoscritto, era «occupata dal Prelato Governatore, dal suo Luogotenente, dal suo Cancelliere e dalle stanze dove si amministra la Giustizia e dove sta la Cancelleria con i suoi appartamenti».
Capisco che questo non spiega né giustifica i quarantasei anni di cui sopra, perché trovarsi in una sala dell’antica Cancelleria del Prelato Governatore non consente di cancellare la sacrosanta domanda dalla memoria e dal dovere di una spiegazione. Ma va detto che, quando si ha nella mente non solo quel manoscritto, con tutti i suoi fogli manoscritti, ma tutti gli altri infiniti fogli a mano scritti o disegnati, ritrovati ed esaminati negli archivi, nelle biblioteche e negli istituti culturali italiani ed esteri (ACR, ACS, ACT, ACU, ACV, ACVC, ACVN, ACVPR, ACVS, ACVV, ADLP, AEER, AGOPS, AGOSM, AIRR, AMOMT, ANA, ANC, ANP, AOM, AOPM, APDR, APS, APT, APV, AR, ARGBH, ARSJ, ASC, ASF, ASFI, ASM, ASMC, ASMOMR, ASN, AST, ASVI, AV, AVR, BAV, BC, BCC, BCF, BCM, BCV, BCVI, BLL, BV, tanto per citarne alcune sigle s.c.p. di VVS 1982, a cui sento di dover aggiungere ASR, ASV ora AAV, ASMOMM, CDU e, perché no, MPS), oltre ai dattiloscritti e agli stampati d’ogni genere e tipo, nonché le riproduzioni fotografiche analogiche e digitali, le diapositive, le Cibachrome, le xero- e fotocopie varie, le ciano- ed eliografie, e ora le scansioni e tutta la documentazione informatica (e qui mi fermo), beh, qualcosa sfugge.
Ma è giunto il momento di lasciare il racconto al testimone oculare dei fatti narrati, che potrà farlo – mi auguro – in modo autorevole, competente e allo stesso tempo leggero, come può capitare a volte in certe conferenze, a sollievo dell’uditorio altrimenti annichilito da soporifere argomentazioni, snocciolate con tono monotono e piglio poco spigliato.
Trattandosi di fatti e circostanze finora ignorate, voglio chiarire che non si tratta di questioni connesse in alcun modo alle tipologie trattate dalla legge 3 agosto 2007, n° 124, sui vincoli di segretezza. Nessuno dei “casi” oggetto delle indagini del provicario (del Sant’Uffizio) Labat riguarda il segreto di Stato. Sappiamo che, ai sensi della legge, «sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto ad altri Stati e alle relazioni con essi». E ancora, la stessa legge precisa che ad essere coperti dal segreto sono «le informazioni, i documenti, gli atti, le attività, le cose o i luoghi la cui conoscenza, al di fuori degli ambiti e delle sedi autorizzate, sia tale da ledere gravemente le finalità (della stessa legge)», ed anche qui le “rivelazioni” che leggeremo saranno assolutamente innocue e ininfluenti per la sicurezza della Patria.
Eppure, da quanto mi appare per la mia esperienza, devo immaginare che di “rivelazioni” nel vero senso della parola si tratti, nella misura in cui (c’è ancora qualcuno che ricorda quando questa frase “fatta” ricorreva in ogni discorso, era sulla bocca di politici, di tecnici, di intellettuali “impegnati”?) riveleranno, sveleranno, solleveranno il “velo” che le copre, non perché celate da segreti di Stato, ma proprio perché “secretate” ed anzi, “segregate” in angoli inconsapevoli, inconsci, della nostra memoria. Per cui concludo questo mio breve preambolo di presentazione, rinvio la pubblicazione delle inedite indagini al compimento pieno dei quarantasei anni citati ed auguro a tutti buone vacanze e, per restar fedele al tema della città con porto, auguro anche una felicissima festa del dio Portumnus, ormai imminente.
FRANCESCO CORRENTI
Note a chiarimento:
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L’elenco delle 48 sigle degli istituti culturali l’ho ripresa, pari pari (“su conforme parere”), da quella pubblicata – a prova della vastità del suo lavoro – da Vittorio Vitalini Sacconi nel 1982 a pp. XVII-XVIII del primo volume del suo Gente, personaggi e tradizioni a Civitavecchia dal Seicento all’Ottocento. Le aggiunte personali sono di doveroso aggiornamento e di immediata intelligenza per gli addetti ai lavori.
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Il titolo del manoscritto, ça va sans dire, è la citazione di un altro notissimo manoscritto, oggetto di alcuni tentativi di appropriazione sul tipo di quelli che J.B.L. combatteva nelle acque dei Caraibi. Ma giuro che ormai la cosa resta solo nel ricordo come uno sgarbo fatto a quell’autore nel privarlo della soddisfazione (postuma) di vedere il suo lavoro pubblicato per iniziativa della magistratura civica di cui aveva fatto parte. Insomma, penso che sarebbe stato felice di trovare su qualche gazzetta dei suoi tempi quello che leggo in un vecchio ritaglio di cabreo: «Cosa è successo a Civita Vecchia durante la prima Guerra punica? E negli anni dei Gracchi? Con un accurato lavoro, il giovane ma già affermato storico locale Cherubino Durazzi, ha cercato di colmare un “buco” storiografico non piccolo e il risultato – il CLXXVI volume delle “Antichità e memorie” – è stato presentato venerdì pomeriggio, in un’aula dei Fasti Civici gremita».
Caro Francesco,
gli accenni rapidi che tu fai a proposito dello sciatto comportamento dei politici del momento in consonanza con un negletto spirito popolare circa il nostro passato storico il tutto ben confortato dal doloso compiacimento degli accaparratori di rendita meriterebbe una analisi dettagliata.
La città non ha fatto mai i conti con il passato ricostruttivo. Il senso di colpa è stato rimosso con sollecitudine a motivo della necessità sociale di risolvere una crisi abitativa urgente. Ma qualsivoglia ricorso ad una eziologia che ponga in essere cause sociali, umane, economiche pur drammatiche, non impedisce l’insorgenza di un peccato originale alla base del nostro dopoguerra.
Il risarcimento morale resta inevaso.
Tu hai fatto, nel corso della tua storia, qua e là cenni in merito a tale problema. A mio parere questa è la “questione irrisolta”che gli storici dovrebbero sanare ponendo in giusta evidenza gli attori cittadini, le miopie burocratiche romane, gli egoismi, i rancori e le pochezze ecclesiastiche e quant’altro.
Non si può celebrare il passato senza aver fatto i conti con questo “archetipo”del nostro presente!!
La storia è monca, attende giustizia. La fonti invocano la mano felice che le consulti.
Prego il Dio Portuno, difensore e protettore degli umani approdi d’essere, il 17 agosto, a noi , detrattori portuali, benevolente.
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Ora tarda.. Francesco invece di andare al Summer fest alla Marina Sto rileggendo quaderni del cdu del copaola
mune di Civitavecchia, 1990, con Sindaco Barbaranelli,
Voyages du P. Labat, a cura di Francesco Correnti e Giovanni Insolera.
Dovremmo rimpiangere anche gli anni 90 per la cultura, ma niente va perso. Il
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Dicevo, Francesco, che negli anni Novanta , con l’eccezione del compianto Alfio Insolera, assessore alla cultura, erano gli stessi che troviamo ora su SpazioLiberoBlog. I voyages sono a cura di Francesco Correnti e Giovanni Insolera. La ricostruzione grafica della facciata della chiesa di S. Maria e Santa Ferma ed il modello ” per la restituzione al vero” del 1990 sono opera dell’arch. Correnti. Una ” Civitavecchia del Settecento nelle memorie del Padre Labat ” con premessa di Fabrizio Barbaranelli, Sindaco di Civitavecchia, la presentazione di Ezio Calderai, A
Assessore all’urbanistica ed un richiamo ad Adelmo Covati, che ha concesso il testo in oggetto. gli stessi che ora richiedono un’ ala della biblioteca comunale da riservare alle opere e gli scritti su Civitavecchia !
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” La città non ha fatto mai i conti con il passato ricostruttivo”: il punto dolente di Carlo Alberto era accennato dall’assessore all’ urbanistica del tempo: ” …Le devastazioni a fine ‘800 e la guerra, il tumultuoso incremento demografico e un’accresciuta necessità degli individui e degli strati sociali, ma questo è un altro discorso che ci condurrebbe lontano. “
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Architetto Correnti, mi trovo di fronte ad un nuovo Manoscritto trovato a Saragoza o nei meandri del labirinto di Borges? Io ho avuto tre maestri del sospetto: Marx, Nietzsche e Freud, ma con loro non riesco a decifrare…Posso solo fare una sintesi, ricapitolando le date : 1952, Vincenzo Fasolo e la facciata settecentesca. 1955, la demolizione. 1965, la Rocca e la costruzione poligonale su strutture romane voltate e resti di torrioni quattrocenteschi spaccati senza pietà, dilaniati dai bombardamenti, ma rimane il basamento della Torre civica.
Ma nel 1970 chi era il SINDACO?
1990, l’arch. Correnti replica il modello per la ricostruzione al vero.
Sono arrivata al manoscritto: per quale motivo Lei ha atteso quarantasei anni? Ho amore per la mia città ma qualcosa mi sfugge.
Può capirmi solo chi ha avuto le nonne e le ” bisnonne” in questo quadrilatero che si affaccia sul porto e che trovo nella Sua ricostruzione assonometrica del Centro Storico nel XIX secolo:
Piazza d’Arme
Porta Livorno
S.Maria con il chiostro completato dal Labat
Prima strada
Piazza S.Francesco
Arsenale del Bernini
Seconda strada
Terza Strada
Quarta strada
Piazza Leandra
Piazza di S. Giovanni
Via de’ GranariVicolo della morte.
Buon ferragosto e cari saluti.
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Ho letto poco fa il messaggio su Messenger, quasi per caso, perché non ho ancora imparato bene e non ricordo quasi mai di andare a leggere i vari messaggi e commenti degli amici. Come ho detto lì, ho così scoperto chi sono i miei due lettori: tu e Marcello! Da lì a qui e mi trovo una serie di commenti e di domande a raffica, un po’ come le ripetute cannonate di saluto per monsignor Daste, che mi impegnano necessariamente ad una risposta. Ma chi sono io per riuscire a tanto? Quindi, per alcune, lascerò la risposta all’assistente di JBL o addirittura a lui stesso. Per quelle meno impegnative o di cui sono stato testimone, proverò a dire qualcosa o a rinviare a qualcosa che ho già detto. Poco per volta. E intanto, provvedo subito a dare la prima doverosa risposta: quel sindaco era Archilde Izzi, socialista, sindaco e capostazione di Civitavecchia, che in Consiglio comunale parlava di Platone e della sua idea di città e che insieme ad Alfio Insolera fu il relatore della proposta da me elaborato nel 1977 per il Piano dell’occupazione giovanile e per l’istituzione del CDU, il centro di documentazione urbanistica. E rinvio a quanto già scritto sul tema. Tutto rimasto come allora? Nomina nuda tenemus.
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