Fatti e Fattacci della Civita-Vecchia dell’Ottocento – 1. Castore e Polluce

di SILVIO SERANGELI ♦

Era capitato l’anno prima, a febbraio. Una tempesta, che s’era portata via mezza marina, dalla Fortezza fino al Marangone, e aveva fatto danni al porto, aveva sbattuto sulle scogliere della Punta del Pecoraro addirittura una balena. E lì era rimasta per giorni e settimane. Un segno del diavolo, un avvertimento di malaugurio per il vasto popolo. Così era stato scomodato il Maguzzo che era sceso in groppa al suo ciuco da Tolfa per guidare una processione di pie donne col rosario fra le mani, intabarrate nel nero delle scialli per ripararsi dal vento fresco di primavera, barcollanti sui sassi della scogliera. Piccolo e minuto, con una chioma e una barba fluenti e bianchissime, nel suo saio nero con una grande croce rossa, come un profeta aveva guidato il corteo fino al mare, a ridosso della massa nera e gelatinosa che emanava una puzza nauseabonda. E come faceva in tante case, pochi spiccioli e un bicchiere di vino rosso per togliere il malocchio, aveva versato dell’acqua in un  piatto fondo, da un’ampolla aveva fatto cadere delle gocce d’olio che aveva poi mescolato con l’indice, muovendolo a forma di croce: così era stato scacciato il diavolo dal corpo ormai putrefatto. Ma sembrava che non fosse bastato, perché, alcuni giorni dopo, due pescatori a largo, nella notte buia come la pece, dicevano di aver visto comparire una cometa. Brutto segno di disgrazie, come quello di un branco di vacche maremmane allo stato brado, avvistate da alcuni contadini con le corna rivolte in basso. E giù preghiere nelle chiese e ceri accesi alle finestre. C’era voluto l’intervento del delegato apostolico per placare gli animi e allontanare definitivamente il demonio. Era stata ingaggiata una squadra di una cinquantina fra allumieraschi e tolfetani per fare a pezzi con asce, pale e picconi il cadavere gelatinoso della  balena e  gettarlo nel tratto di mare antistante. Scacciati gli spiriti maligni e scomparsa la puzza, fra gli scogli era rimasta la carcassa. E, ancora un anno dopo, nonostante le mareggiate erano ben visibili alcune ossa dello scheletro del cetaceo. Fra questo ossario, sparso lungo la riva, due pescatori napolitani col rezzaio avevano scorto di prima mattina il biancore di due corpi straziati dagli scogli e smozzicati dai pesci. Silvio inmternaChi erano? Perché erano finiti proprio lì? A riconoscere i due giovani ci pensarono mastro Vittorio e mastro Peppe dell’Arciconfraterniata della Bona Morte. Erano giunti faticosamente sul posto con la loro carretta traballante, impediti nei movimenti dalle tonache nere con lo stemma dal caratteristico teschio fra le due ossa incrociate e la croce, le due clessidre in basso e la scritta all’ovale “Confraternitas Mortis et Orationis”. «Ma questi so li nepoti della Barbona, li fiji de Medardo lo sciancato, quello che finì cor carico drento al laccone!». E sì, i corpi erano quelli di Marione e Adolfetto, due giganti che da poco avevano compiuto i vent’anni, conosciuti in porto per la loro abilità a tuffarsi e raggiungere le grandi profondità, magari per raccogliere cozze e ricci, spesso per recuperare gomene, ancore e altri oggetti di barche e del naviglio, reti strappate dei pescatori anche lungo la scogliera dell’antemurale e a largo. Si erano avventurati fino a Montalto per raccogliere coralli e a Pian de’ Spilli per qualche anfora romana ancora intatta. Ma che ci stavano a fare nello specchio d’acqua della Punta del Pecoraro, lontano dallo scalo? «Maledetto sia, e li diavoli se lo portino all’inferno quel frataccio puzzolente che javeva riempito la testa de bubbole». La madre Ottavia si scippava e sbatteva la testa contro una trave, bloccata a mala pena dalle comari che le avevano dato l’annuncio della morte dei due figli. Ma che c’entrava il frate? «C’entrava, e come! – urlava comare Rosetta -. Veniva qui pe’ chiede un po’ d’acqua e magari mezzo bicchiere de vino. E parlava, parlava mica de chiesa, della madonna e der bambinello, raccontava de’ fatti antichi. E sti ragazzi tutt’intorno. Fra’ Vincenzo, ariammazzallo, che pe’ fortuna masticava ajo perché puzzava, e tanto. C’aveva li piedi neri, zozzi, er sajo unto e strappato, solo l’acqua der cielo, quanno capitava, javeva dato ‘na lavata. Nu lo state a sentì, che è matto, porta solo zizzania – dicemio noi madri, ma quelli, niente -. Javeva messo in testa che a largo de la punta der Pecoraro, ar tempo de li tempi, li pirati dalli guanti gialli, come diceva lui, aveveno incocciato li scoj e er bottino, er tesoro era finito sott’acqua. Magari a trovallo!» Fregnacce, fantasie del fratacchione lercio con la barba che gli toccava il petto e con un suo modo di raccontare da incantatore di serpenti. Così Marione e Adolfetto, che si erano fatti ripetere tante volte la storia del naufragio e dell’oro finito in fondo al mare, si erano convinti. Fiato ne avevano, e il coraggio pure. E poi c’era da perdere solo la miseria nera di chi come i tanti di loro sopravviveva nella baraccopoli del Turchetto, che i signori pomposamente chiamavano Prati del Turco. Un’accozzaglia di baracche, tenute in piedi alla meglio con i legni recuperati dalle  mareggiate e le canne, quelle del canneto malsano dell’acquitrino che arrivava fino al cimitero. Sorche grosse come gatti,  zanzare, malaria, e tanta fame. Marione e Adolfetto s’erano tuffati tutti nudi: bisognava nuotare, e tanto, verso il largo, raggiungere un banco, quello contro cui era andata a incocciare la nave corsara, e poi mettere tanta aria nei polmoni e giù giù fino a toccare il fondo e trovare il tesoro. Ma i due fratelli, quell’oro, non lo avevano neppure intravisto fra la melma del fondale. Solo tanto freddo e sempre meno fiato nel faticoso su e giù. E allora, ancora nuotare verso il largo, riprovare fino allo sfinimento: le tempie prese a martellate, lo scoppio dei polmoni, la vista sempre più sfocata. Poi più niente. «Che fine poverelli – ripeteva la vecchia Barbona, mentre ciancicava le bacche di mortella e ne sputava i noccioli tutto attorno, sbragata su una cassa come se fosse il suo trono -. Che ve devo da dì commarelle mie: se li pja a terra de ceci, nemmeno ‘na cassa; du’ bocche de meno da sfamà, du’ braccia de meno pe’ lavorà”.

SILVIO SERANGELI

*Illustrazioni: disegno originale a china 1837, foto originale del 1897 della scogliera della Punta del Pecoraro con sullo sfondo la Fortezza e la Lanterna. [raccolta dell’A.]