Il cartellino del bomber

di ENRICO IENGO

Mancavano dieci minuti all’apertura dell’oratorio salesiano e già si era formata una calca di ragazzi che si appressavano al cancello per conquistare le posizioni privilegiate: chi entrava prima conquistava il pallone, mai di cuoio e leggermente sempre sgonfio.

Si lasciava in cambio il tesserino di iscrizione, che si acquistava per un costo irrisorio al piccolo bar e si cominciava a giocare. Erano tanti i ragazzi e tanti i palloni, pertanto ogni gruppo si ritagliava un suo spazio, in modo che tutti potessero scatenarsi.

Si continuava così per ore finché, esausti, si tornava casa.

All’incirca a metà pomeriggio si assisteva ad una scena paradossale, quasi un teatro dell’assurdo, a cui poi io avrei dato un significato ed un valore.

Il momento veniva preceduto dal suono di una campanella: era il segnale della preghiera. A quel punto iniziava una vera e propria gara di velocità tra don Barbieri (il sacerdote che ha accompagnato la crescita di numerose giovani generazioni), il quale si affrettava a chiudere il cancello e una moltitudine di ragazzi che tentavano di fuggire dall’obbligo del necessario raccoglimento spirituale.

Era l’atto di buona volontà che don Barbieri chiedeva in cambio dell’accoglienza.  

 Mi divertiva il fatto che tutto questo affannarsi nello scappare e nell’impedire la “fuga” era legato non a chissà quale penitenza corporale, bensì alla recita di 3-4 preghiere per  meno di 5 minuti in tutto!

Ovviamente dopo le preghiere si riapriva il cancello e i fortunati che erano riusciti a fuggire potevano tranquillamente rientrare, mentre gli altri, rimasti “intrappolati,” si vedevano restituire la libertà momentaneamente perduta.

Eravamo a metà degli anni 60, l’oratorio Salesiano rappresentava l’unica alternativa alla strada per tanti ragazzi di quella generazione. Rimaneva certamente anche la strada per giocare, ma di sicuro la capacità attrattiva dell’oratorio, anche con offerte diversificate come il biliardino, la liquirizia e la gassosa, era superiore.

Proprio in quegli anni le statistiche ci dicono che la congregazione ebbe il massimo fulgore in Italia, arrivando a contare oltre 21000 religiosi professi e 1200 novizi. Senza dubbio fra gli scopi della istituzione c’erano l’educazione religiosa e spirituale dei giovani e sicuramente le alte autorità ecclesiastiche davano al tempo grande importanza a questi centri di raccolta dei giovani anche per allontanarli dal pericolo incombente del materialismo ateo.

Civitavecchia era stata ricostruita solo in parte: ancora gli effetti dei bombardamenti si potevano vedere in luoghi centralissimi come in prossimità del “ghetto” o in Corso Marconi.

Altri esempi di fortunata intraprendenza da parte di chi gestiva l’oratorio erano i famosi campionati di calcio. Si giocava in 9 contro 9, viste le dimensioni ridotte del campo, in quel medesimo campetto polveroso ove transitarono fior di campioncini, alcuni dei quali poi ebbero carriere fulgide.

Ma anche in questo caso il connubio fra divertimento e obbligo religioso era dominante e produceva anche qui situazioni grottesche. Infatti, per poter giocare la partita della domenica pomeriggio occorreva essersi recato alla santa messa al mattino: in quell’occasione, all’uscita dalla chiesa, si timbrava un cartellino da esibire il pomeriggio in campo: niente timbro-niente partita.

Allora si assisteva a questo divertente canovaccio: i ragazzi entravano quasi al momento della fatidica frase: “la messa è finita, andate in pace” e per tutta risposta il nostro don Barbieri faceva chiudere le porte della chiesa per impedire ai ritardatari di entrare. Chi era dentro era dentro e chi era fuori era fuori!

Il problema grave della mia squadra era il fatto che il nostro miglior giocatore, il bomber infallibile, era di religione protestante e, per quanto facesse del tutto per partecipare almeno ad una parte della messa, a volte proprio non ce la faceva.

A quel punto ci rimaneva una sola speranza: andare in giro nelle rimesse degli autobus di linea per cercare un timbro da apporre al cartellino che assomigliasse il più possibile a quello dell’oratorio. Tutte le sante domeniche, o quasi, era un affidarci alla Fortuna: se andava male ci aspettava una partita difficile.

Ricordi piacevoli, vividamente impressi: poche responsabilità, le prime libertà, la sensazione di essere padrone delle tue azioni, anche quelle non consentite.

Ragazzi di quell’età per strade sterrate e in mezzo a rovine non ce ne sono più; credo che la maggior parte degli adolescenti si divida fra scuole calcio, nuoto, pallavolo, basket, iscritti a una miriade di piccole società che vivono della tassa di iscrizione. I genitori li accompagnano, partecipano attivamente alle loro attività, fino a sfiorare la scesa in campo: la loro ala protettrice si proietta come una lunga ombra, ombra fatta di orari da rispettare, di consigli da allenatore vero (non come quello ufficiale che non sa esaltare le potenzialità purtroppo ben nascoste del figlio) e soprattutto di angosciata paura del fallimento dei propri figli.

 Talvolta passo davanti all’oratorio e vedo ragazzi bighellonare su un campo d’asfalto, senza i nuvoloni di polvere che si alzavano quando giocavamo, incuranti di tutto. Anche oggi giocano, parlano, si divertono, ma sono cambiati i giovani ed è cambiato l’oratorio.

L’oratorio, come detto, si proponeva un obiettivo educativo: formare i futuri giovani nel segno dei valori cristiani e la cosa interessante era che l’accettazione o meno delle norme  nell’oratorio, come a scuola o in famiglia era affidata alla scelta, spontanea e non ponderata, dei giovani. Coloro che fuggivano al suono della campanella o preferivano rischiare di non giocare la domenica esprimevano atteggiamenti di ribellione di fronte all’autorità, rappresentata dal sacerdote, piuttosto che manifestare sentimenti anti- religiosi.  E proprio in ciò consisteva quella che, a mio parere, rappresentava la principale funzione dell’oratorio.

L’oratorio è stato per me e credo per tanti coetanei un vero e proprio lungo periodo iniziatico, era la forma rituale attraverso la quale le spinte evolutive del giovane trovavano una canalizzazione adeguata, in modo da prevenire non la devianza ribellistica fisiologica, che è necessaria, ma quella patologica.

Si litigava, si accettavano o si rifiutavano le regole perché così facendo si consolidava il senso di identità. Nel campetto eravamo liberi, non c’erano autorità, non c’era un Padre (lo stesso don Barbieri, come abbiamo constatato era più che altro l’uomo delle emergenze): noi decidevamo chi era il leader e quale gruppo scegliere.

Si stava prendendo la rincorsa per oltrepassare i ponti e affermare la propria indipendenza.

Le partite di calcio, la ricerca del rispetto da parte degli altri, la sensazione di essere adeguato in mezzo alla collettività dei tuoi simili, caratterizzavano altrettanti riti di passaggio che connotavano quel primo stadio che avrebbe portato alla progressiva separazione e autonomizzazione dalla famiglia: il vero obiettivo del processo adolescenziale, oggi purtroppo reso difficile dall’atteggiamento simbiotizzante con i genitori che non favorisce la separazione necessaria per un processo identitario.

Eppure i giovani hanno bisogno di autorità ed esprimono questo bisogno anche quando la negano o la combattono: ciò ha un fondamento genetico: senza autorità non si cresce.

L’oratorio era l’istituzione, diversamente dalla famiglia e dalla scuola, ove per la prima volta l’autorità veniva messa in discussione. Infatti nella famiglia e nella scuola il controllo delle figure genitoriali era pressante: il padre era l’incarnazione della Legge e la ribellione adolescenziale avrebbe poi segnato la possibilità di una liberazione dal padrone oppressivo, sia nella versione percepita come autoritaria, dispotica, sia nell’altra versione, quella data dalla figura di un genitore che trasmetteva la giusta autorevolezza.

L’oratorio non era sotto il controllo della famiglia, comportamenti non conformisti o non proprio ortodossi rappresentavano la vera sfida all’autorità, il desiderio di autonomia, la precoce pulsione a liberarsi dallo status di dipendenza.

Pulsione che è egualmente presente anche oggi, perché biologicamente determinata, ma spesso con maggiori difficoltà a canalizzarsi verso una crescita fisiologica della identità del ragazzo.

Figure genitoriali deboli, insicure, preoccupate dell’insuccesso dei figli sui quali hanno proiettato progetti e aspirazioni, veri prolungamenti del loro ideale, comportano conseguenze quali intolleranza alle frustrazioni e scarsa autonomia. I padri vogliono essere amati dai figli, al contrario di ciò che accadeva alle generazioni precedenti e tutto ciò rende difficile lo “svezzamento”.

L’oratorio dei Salesiani non era certo l’Accademia di Atene; una liturgia talora ipocrita e conservatrice portava ad esaltare valori sentiti lontani dai ragazzi, ma insieme alla strada favoriva momenti di formazione identitaria; oggi quel tipo di aggregazione sarebbe improponibile ed il corto circuito adolescenziale si scarica sulla famiglia con tutte le dinamiche dialetticamente conflittuali e con le contraddizioni senza il filtro di istituzioni ormai in profonda crisi come la scuola e la stessa religione.

E’ a tutti noto che ad un certo punto la spinta ribellistica verso le figure genitoriali avverrà, ma questo periodo delicato può venire gestito dall’adolescente attraverso un processo di sublimazione di quella spinta, così da indirizzarla positivamente, se ciò non accade gli esiti possono essere nefasti per lo sviluppo del ragazzo, aprendo la strada a quelle devianze che sconfinano nella illegalità, se non addirittura nella sociopatia.

Ripensando alla mia prima adolescenza e a quella dei miei amici, credo che questo favorire la tendenza all’autonomia, al confronto dialettico con l’autorità, filtrate attraverso il rapporto con i coetanei sia stata la vera funzione educativa dell’oratorio.

Non era il Dio cristiano il punto di riferimento, come avrebbe sperato Don Barbieri, ma la continua ricerca di un Io ideale, un mettersi alla prova per conoscere e riconoscersi,  superando l’ angoscia di sentirsi insufficienti, inadatti.

Non c’era dubbio: quel timbro illecito apposto sul cartellino del nostro bomber non rispettava le regole, ma ci faceva sentiva tutti più forti, più sicuri, più liberi.

ENRICO IENGO