APPUNTI DI TEOLOGIA: LA MORTE.
di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦
Ne mi risveglia il fragor del mar ne l’ulular del vento.
La lettura del Vangelo è terminata. Il Parroco fissa il pubblico, indica col dito la bara e ricorda il defunto soffermandosi benignamente sulla diligenza sacramentale del trapassato.
Poi, d’un tratto volge lo sguardo verso la volta della chiesa e lascia che parole di conforto diffondino serenità scacciando la mestizia.
“Egli è morto alla vita. Ma la sua anima è giunta alla casa del Padre. Alla sua meta finale. Egli è ora accanto all’Eterno. Nel grembo del Creatore. E guarda noi sofferenti, dall’alto sorridendo .La morte non è la fine, ma solo l’inizio d’una vita eterna.”
Segue smarrimento all’ascolto di quelle parole.
Lo sguardo della gente si posa come dolce carezza di sconforto sulla bara ed il pensiero si fa voce interna “Dentro quel legno c’è tutto di lui, corpo mente, anima. Tutto un essere che va in disfacimento come il fiore che cadendo appassisce trasformandosi in nera terra”.
De profundis clamavit animo meo… La cerimonia ha termine.
La gente guadagna l’uscita della chiesa. Quel disperato sottile pensiero ora invade tutta la mente. Non c’è spazio per il conforto. La speranza in un aldilà non dissolve l’inquietudine che alberga in un aldiquà dove una vita ha cessato di essere.
Un tempo le parole del ministro di fede avrebbero dato conforto. Ora sono solo flatus vocis e niente più.
Ogni giorno siamo tutti noi distratti, per le occupazioni, il lavoro, la noia. Ma, per un attimo quella gente in chiesa ha potuto riflettere su che cosa sia la vita. La vita qui, non altrove, hic et nunc.
La morte ci toglie il calore della vita,
sospende le rovinose amabili abitudini,
la certezza ,
la tavola apparecchiata,
il dolce far niente,
la volontà di potenza,
la carezza,
la luce,
il gioco,
la passeggiata ,
qualcuno da rasserenare,
l’amico da ascoltare,
il bambino da meravigliare,
l’emicrania da sopportare,
la partita,
il dolce sonno, il risveglio e lo sbadiglio.
il Natale, gli affetti, i baci, i baci di chi ti ama, le loro voci, le loro risa, i loro pianti.
Il sesso, la gioia, l’amarezza, la gelosia.
La vita!
Il respiro, la tosse, i bisogni del corpo, i ricordi, il lavoro, il tedio, le lacrime, il sole, il mare, l’acqua, il bere, il fumo.
La vita sempre più appare l’unico modo di esistere. Persa quella, hai perso tutto.
Come ai tempi d’ Omero, quando nella nekya i morti che soggiornavano nell’Ade oscura ed algida apparivano come spiriti vagolanti simili a pipistrelli aventi un solo unico desiderio: tornare al calore della vita, all’unica esistenza. Tornare pur in uno stato servile, ma tornare. Quelle disperate anime vivevano solo per ricordare l’”essere stato”. Dunque, la vita biologica è la vita, altre vite non ci sono. Così Omero. Così noi, oggi! Siamo sempre più come “color che l’anima col corpo morta fanno”. Una comparsa transitoria in linea con quanto descritto prima del cristianesimo da Lucrezio.
Ed allora un senso di ribellione ti prende. Senza più l’effetto ansiolitico del prete ti chiedi impietosamente: Perché?
Perché perdere tutto questo? Perdere le relazioni d’amore, perdere il soffio che ti anima. Perdere per sempre chi hai amato e chi ti ha amato. Perché?
Dove andrà quell’amore interrotto? Sarà davvero perso?
E perché non potrà mai più essere recuperato? Perché quell’attimo, che è la vita, ti ha illuso così miseramente? Non c’era nessuna necessità istintiva nel nostro amore. Non si amava perché l’astuzia della Natura ci usava. Si amava perché liberamente si amava.
Quale perfidia in tutto questo! Non possiamo essere dei miserabili nati solo per far numero.
Si è usi rispondere: è il gioco della Natura di cui fai parte. Sei un dì sbocciato alla vita, poi, terminato il ciclo, passi la vita ad altri, come accade per una pianta, come per un animale. Dalla Natura sei stato tratto, nella Natura ritorni. Onda dell’oceano, semplice modo di essere del mare. Per un attimo il mare si increspa, assume una forma, poi da quella forma seguono altre infinite forme: l’onda dell’instate ritorna mare.
La saggezza di molti così si esprime. Ed il saggio sa che non c’è spazio per altro. Per secoli il rimedio ha funzionato ma ora non c’è più avvenire per la grande illusione, per la favola bella che ieri mi illuse.
La morte biologica, dunque, è il termine della vita. La vita in un aldilà è illusione. L’aldiquà è la sola vita concessa.
Tutto chiaro.
Ma, ancora un volta il grido si fa intenso: che ne è dell’amore vissuto? Muore anch’esso? Perché non potrà mai più essere recuperato?
E la religione? La religione ha significato solo inganno, un rimedio più nocivo del male che pretendeva di lenire?
Siamo veramente solo una fune tesa tra la scimmia e la speranza vana dell’eternità?
Quanto sarebbe facile concludere in questo modo.
Disperatamente,
facile.
Ma….la notte ancora non è svanita. C’è tempo per una ulteriore riflessione.
CARLO ALBERTO FALZETTI
Se la religione non ha significato un rimedio peggiore del male, allora la Chiesa dovrebbe chiedersi perché ci sia, hic et nunc, l’abbandono da parte di una massa immensa di uomini, ma ancor di più rammemorare la propria missione e la funzione, non ebraica, ma evangelica che avrebbe dovuto incarnare.
Gli eccidi di bambini nella striscia di Gaza sono baci di Giuda dati a Gesù, il Nazareno.
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Ancora più spaventosa della morte è la promessa di vita eterna. L’eternità, il senza fine è, per dirla con Kant un pensiero troppo grande perché la nostra mente possa contenerlo. Forse è più consolatorio e accettabile essere dissolti nella materia con la privazione della coscienza (il quadrifarmaco di Epicuro). Resta però irrisolta la realizzazione del sommo bene, quell’affermazione della giustizia cosmica che esige i postulati della ragion pratica.
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Caro Carlo, pensi davvero che accettare il fine vita come esito naturale sia facile in assoluto o almeno più facile che inquadrarlo in una visione religiosa? Quando ci incontreremo mi piacerà parlarne. Ciao, Paolo
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