STUDI E RICERCHE NEL RICORDO DI FABIANO
di FRANCESCO CORRENTI ♦
Era venuto a Roma da Bolsena, una volta tanto senza la sua amatissima Giovanna, per accompagnarmi nel villino al numero 17 di via di Villa Sacchetti, sede della Gius. Laterza e Figli editori, all’incontro che dovevo avere con alcuni dei collaboratori della casa editrice.
Abbiamo percepito entrambi, in quella mattina del 2009, nel grande salone a doppia altezza dove avvenivano quegli incontri, una leggera espressione di sbigottimento sul viso della dottoressa *** con la quale parlavamo del mio libro in preparazione, dove lui doveva curare un’appendice di documenti, da segnalare in copertina. Due nomi e tre cognomi, per un totale di 40 (quaranta) battute – lettere e spazi – che avrebbero dovuto apparire dopo il mio misero nome-cognome di 18 battute, sembravano decisamente tanti, troppo invadenti.
Ma Fabiano Tiziano Fagliari Zeni Buchicchio era, invece, una persona tranquilla e riservata, mite e paziente, abituato alle lunghe ricerche negli archivi di Stato, notarili o ecclesiastici, espertissimo nelle interpretazioni di scritture complicate d’ogni epoca. Amava rintracciare e ricostruire la verità dei fatti attraverso documenti secolari che pochissimi o nessuno si era preso la briga di rileggere da quando erano stati scritti e che nessuno o pochissimi sapevano interpretare.
Ho avuto il privilegio di seguire per moltissimi anni le innumerevoli e straordinarie ricerche di Fabiano, fino alle ultime sul palazzo di Soriano per cui ci eravamo sentiti pochi giorni prima del 6 gennaio, dopo che mia figlia Francesca, spesso in contatto con lui, mi aveva avvertito di chiamarlo perché desiderava parlarmi. Spesso ci incontravamo all’Archivio di Stato di Viterbo, negli anni in cui avevo una delle sedi del mio lavoro lì vicino, nel palazzo degli uffici comunali, e infinite volte era venuto con Giovanna da noi, soprattutto a Trevignano, per intere giornate, per approfondire con tranquillità alcuni argomenti o preparare qualche convegno “Punti di fuga” o altre cose, e varie volte era capitato che, in quelle occasioni, fossero ospiti da noi per qualche giorno anche Eve e Jean Gran-Aymerich e allora il discorso si allargava ad altri temi affascinanti.
Aveva preso con un sorriso, anni prima, la mia osservazione sul fatto di non essersi accorto del maschio vecchio della fortezza nuova nell’inventario da lui stesso pubblicato senza rilevare quella particolarità. Aveva ammesso con cordiale amicizia che era stata una sua svista e che era giusta la mia idea di un primitivo maschio, di un palazzetto del comando, in quel “quadrato sull’angolo” nel cortile del forte. E in tante altre occasioni, quando ci vedevamo a Bolsena da lui o quando ci incontravamo a un convegno o quando veniva con Giovanna da noi a Trevignano o a Roma, sempre la sua pacatezza, il suo sorriso, la sua serenità avevano improntato i nostri discorsi.
Solo in un caso, non volle ascoltare le mie esortazioni di editor a lasciar correre, e volle assolutamente dare quel titolo al suo intervento di chiusura nel libro Civitavecchia veduta di Arnaldo Massarelli: «Smania di Michelangelo. Sulla Rocca nuova del Bramante a Civitavecchia». Perché non sopportava le false notizie, date solo per creare un po’ di clamore senza la minima base scientifica ed il minimo riscontro storico. In questi casi, il suo giudizio era di condanna irrevocabile, di contrarietà assoluta, di rigorosa fermezza: la superficialità, l’approssimazione, la mancanza di dati certi e inoppugnabili, in uno scritto di storia, erano scorrettezze imperdonabili.
Il nostro primo incontro avvenne nel 1988, proprio quando uscì il suo magistrale lavoro “La Rocca del Bramante a Civitavecchia: il cantiere e le maestranze da Giulio II a Paolo III”, pubblicato in “Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte” che fu, tra l’altro, la dimostrazione scientifica, la “prova provata” di quella nostra comune convinzione per cui, come ho detto, scrisse poi quell’intervento tanto severo.
Fabiano, che conosceva i miei studi, mi portò a Civitavecchia una copia del suo saggio da consegnare al sindaco del tempo per la Biblioteca comunale. Cosa che feci immediatamente, preparando subito anche la lettera di ringraziamento da far firmare a nome della Città. La nostra amicizia nacque in quella occasione. Aveva apprezzato che, come invece gli era ripetutamente capitato, non avessi chiesto una copia del saggio per me e che, come seppe in seguito, avessi anzi ordinato ed acquistato il costoso estratto del Römisches Jahrbuch alla libreria Dedalo di Viale Rossini (una vera istituzione, per noi architetti, purtroppo estinta, come poi tutte le altre, simili ma di minore fascino, diretta da Fabrizia Morandi Narici e dal consorte, a loro volta entrambi architetti).
Condividevamo molte passioni e numerose idiosincrasie, con Fabiano. Come quella per un’altra “mania” diffusa, quella dell’imitazione o dell’uso di titoli o di intere parti (quando non veri e propri plagi) di opere altrui (anche nostre, nello specifico), della scopiazzatura senza citazione di brani (o della traduzione di testi di altri autori), di impostazioni tipografiche, di immagini, di idee e di iniziative. Magari con commenti denigratori o con l’assoluta assenza di richiami dell’autore o dell’opera plagiati. Trovava disdicevole che qualcuno che non fosse Don Lisander intitolasse I promessi sposi un proprio libro ed era anche contrariato da titoli come Il nome della sposa su opere che non fossero espliciti commenti o parodie del noto romanzo echiano. E poi l’infastidiva l’uso improprio di denominazioni della ufficialità, normate da leggi, per attività o incarichi di tipo privato o di livello locale.
Entrambi Ispettori onorari del MiBACT (lui per la provincia di Viterbo, io per Civitavecchia), avevamo accettato insieme volentieri (ma a condizione che a noi non ne venisse alcuna utilità né alcun compenso) di far parte del gruppo di amici – con Alvaro Ranzoni – impegnati a dare consigli e pareri a Tarcisio De Paolis ed alla signora Maria Teresa sulla questione dei dipinti nella loro casa in Palazzo Manzi, all’epoca oggetto dei primi restauri sotto la direzione del professor Ulderico Santamaria. Molteplici le occasioni di trovarci a Civitavecchia, con Tarcisio, Alvaro e altri, per le ricerche e le iniziative che abbiamo tentato di portare avanti per “capire” e valorizzare i noti dipinti, che furono anche oggetto di un bel convegno – organizzato con Manuela Dottarelli – proprio a Bolsena.
Tornando al suo saggio sulla Fortezza, è noto che Fabiano vi propone una interpretazione particolarmente suggestiva della pianta bramantesca, assimilandola alle chiavi incrociate sormontate dal triregno che formano le insegne della Chiesa Romana. Di eccezionale valore è l’analisi del monumento compiuta in base ai contrassegni degli scalpellini ed ai relativi mandati di pagamento, dai quali l’Autore deduce una dettagliata cronologia delle fasi attuative. In un mio studio del 1981, mi ero limitato a individuare graficamente la posizione delle diverse sigle, senza però poter giungere ad alcuna conclusione sulle fasi di avanzamento dei lavori e sui nomi delle maestranze.
La locale tradizione di un intervento di Michelangelo nella costruzione della Fortezza si deve alla sua dedicazione – come tantissime altre rocche e castelli papalini – a Michele Angelo (San Michele Arcangelo) ed alla malintesa interpretazione attributiva, che trae spunto dal fatto che, anche in altri lavori (San Pietro, Palazzo Farnese), il Buonarroti è subentrato al Sangallo dopo la morte di questo nel 1546. Mancando qualsiasi altra prova dell’incarico, si è pensato (e lo si ripete scioccamente) che l’intervento sia consistito, in particolare, nel completamente dei Maschio.
Formatasi nel corso del XVII secolo, la voce di tale attribuzione fu sancita nell’iscrizione commemorativa in onore di Giulio II, posta intorno al 1695 nella Sala del Palazzo della Comunità, tra le altre celebranti i fasti civici (“Arcis quam Michael Bonarota delineavít’), ed ha avuto vasta eco, anche presso studiosi di vaglia, fino ai nostri giorni, rendendo oltremodo difficile sostituire la denominazione di “Fortezza bramantesca” o “di Giulio II” al diffuso e radicato appellativo di “Forte Michelangelo”, adottato anche nella toponomastica ufficiale, forse perché il nome del fiorentino suona molto più “prestigioso” alle orecchie di molti. Decisamente divertente era stato il giudizio sulla Fortezza dato da Jean-Baptiste Labat, negli anni del ‘700 del suo soggiorno in Italia: “On prétend que le fameux Michel Ange Bonarota, a été l’Ingénieur de cette Place. Je n’ai rien à dire sur la fabrique des murailles, elles sont solidement bâties, mais leur disposition marque, que Michel-Ange n’étoit pas un grand sorcier en matière de fortifications” (non era proprio un mago in fatto di fortificazioni). Eppure era facile rendersi conto che il nome era – come nella maggior parte delle rocche nello stato della chiesa (e non solo) – quello del protettore delle truppe pontificie, ossia Michele Angelo (o Arcangelo), come riporta esattamente la Pianta delle proprietà governative in Civitavecchia elaborata nel 1866 dal Corpo del Genio e conservata all’Archivio di Stato di Roma (ASR, Extravagantes 12), in cui appare appunto la denominazione di «Forte Michel Angelo», del tutto analoga al «Castel Sant’Angelo» di Roma e di tante altre rocche.
Proprio per questo, Fabiano ci aveva tenuto in modo particolare a pubblicare su “Civitavecchia Veduta” di Arnaldo Massarelli, di cui ho curato l’edizione, quella sua precisazione ulteriore in proposito, decisa e sentita, che io oggi ho ricordato qui, certo di fargli cosa gradita. La sua continua difesa della verità scientifica, che insieme ad altri ci ha portato a ribadire in ogni occasione l’assoluta necessità di dati corretti, autentici, veri e documentati, deve essere uno dei modi fondamentali per perpetuarne l’esempio e rendere omaggio alla sua battaglia culturale.
È nel suo ricordo, quindi, che ho il piacere di comunicare gli ultimi sviluppi delle ricerche su quei «dipinti di Tarcisio» di cui ci eravamo occupati insieme, come di altri argomenti. Nonostante l’ostracismo interno ed esterno subito, il CDU (Centro di documentazione sull’assetto del territorio e la storia urbana) – istituito con delibera del Consiglio comunale n° 500 del 18 novembre 1977 di approvazione del Piano d’intervento per l’occupazione giovanile nei settori dei servizi socialmente utili, da me redatto per incarico del comparto inter-assessoriale composto da Alfio Insolera e Archilde Izzi – ha continuato a svolgere la sua attività nell’ambito dell’Ufficio Consortile Interregionale della Tuscia. Sono state così trasferite alla struttura sovraccomunale anche le Edizioni del CDU, i seminari “Punti di fuga” ed i relativi corsi sulle buone pratiche, la diffusione del “Manifesto sull’ambiente della regione etrusca (Carta di Manturanum)”, la pubblicazione e la mostra finale dei Programmi ministeriali innovativi e l’allestimento delle sedi del Centro, con gli aggiornamenti ormai codificati sui contenuti degli Urban Center, con riferimento al Distretto turistico dell’Etruria meridionale, al progetto CiViTeR (Civitavecchia, Viterbo, Terni, Rieti) ed ai programmi di ricerca dei Comuni capifila di Soriano nel Cimino, Pitigliano e Orvieto, in sinergia con le Soprintendenze e le direzioni dei Musei Nazionali e locali. È rimasta nelle attribuzioni di UCITuscia – in attese di formali consegne – anche la custodia del materiale reperito o acquisito nel corso degli anni.
Si è avuta, quindi, un’intensa e gratificante attività di coordinamento e di assistenza anche alle ricerche ed alle elaborazioni progettuali per piani, progetti di opere e di restauri dei Comuni del PRUSST e per quelle svolte da laureandi e dottorandi di varie facoltà di alcune Università. Tra queste, molto interessanti alcune relative al modulo “Processi decisionali e gestione urbanistica”, seguite in qualità di docente del Master di II livello “UrbAm: l’urbanistica nell’amministrazione pubblica, management della città e del territorio” presso il Dipartimento Pianificazione Territoriale e Urbanistica della Prima Facoltà di Architettura “Ludovico Quadroni” dell’Università di Roma “La Sapienza”. Eccellente, soprattutto, la tesi di Giulia Schietroma, Danni bellici e ricostruzione nei centri storici del Lazio (relatore Prof. Arch. Michele Zampilli, correlatore Arch. Giulia Fiorentino), riguardante le distruzioni e la ricostruzione delle principali città della nostra regione, con un importante approfondimento sulle vicende civitavecchiesi. Eppure, all’epoca della tesi non si ritenne doveroso, nonostante la mia lettera di presentazione (o forse proprio per essa), ricevere e ringraziare l’autrice per l’omaggio del volume alla Biblioteca comunale e per gli aspetti conoscitivi messi in luce dallo studio. Come non furono tenute in conto altre segnalazioni e iniziative, benché autorevolmente raccomandate. Del resto, un obiettivo ritenuto prioritario, quale il progetto per la Galleria Calamatta ed il Lapidarium, fu redatto dal gruppo da me coordinato, a titolo di cortesia e di affezione alla Città, perché l’indispensabile lettera che mi invitava a disporne la stesura attraverso le necessarie determinazioni fu infine firmata, in via sussidiaria, da un assessore consapevole.
Peccato che non si sia compresa l’importanza culturale e l’utilità pratica di ripristinare il “Comitato scientifico” istituito nel 1996, quale organismo di valutazione delle iniziative in quel campo, né di riproporre il coordinamento d’una “Cabina di regia” tra le pubbliche amministrazioni, per la programmazione degli interventi: due preziosi strumenti operativi degli anni più dinamici nei Comuni della Tuscia, tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo.
Da più parti si è posto in evidenza il problema della sopravvenuta mancanza di un coordinamento e di una impostazione univoca, autorevole e rigorosamente scientifica della produzione di informazioni a fini turistici, divulgativi o promozionali, che si è tradotta nel proliferare di opuscoli, brochure, guide, filmati e altri materiali di quello che è definito “marketing territoriale”, che quanto a fantasia non si risparmiano, senza però fornire alcuna indicazione sulle fonti. Ecco, allora, che tutte le chiese sono le più antiche della città, i vari monumenti sono tra i più belli e più grandi d’Italia, la pinacoteca non c’è ma il museo XYZ è ricco delle opere di quel famosissimo Anonimo che vanta proprie sculture e pitture in tutti i principali musei del mondo, alcuni termini, fatti e circostanze non corrispondono alla realtà storica ma poco importa.
Venendo quindi alle novità più recenti sui dipinti di casa De Paolis, avviciniamoci a Palazzo Manzi passando per la via omonima, ossia la Quarta strada d’un tempo, superando gli innesti dei vecchi vicoli (il Vicolo Grande, quello detto del Mondezzaro e piazza Padella) e quella che fu in origine una casa di terra, forse una delle tante via via crollate per il deperimento del materiale e la mancanza di manutenzione. Raggiungiamo così la piazza Leandra, il palazzo e i dipinti.
Evidente da sempre l’improbabilità dell’ipotesi raffaellesca, smentita dalla storia urbanistica ed edilizia dei luoghi, dalla logica, dalla cronologia degli affreschi originali vaticani nelle Stanze, dalle analisi sui materiali e da tante altre ragioni, già messe in luce nel modo più obiettivo proprio nelle occasioni sopra ricordate, esposte in un’intervista televisiva curata da Silvio Serangeli su TRC a febbraio 2006 e precisate in approfondimenti più recenti pubblicati nel 2012 su Civitavecchia veduta, circa la possibile attribuzione, evidenziandone il grandissimo valore storico-artistico, proprio per l’insieme di circostanze e connessioni culturali di un periodo poco noto ma di forte interesse.
Un risultato ampiamente documentato si è ora raggiunto grazie alle ulteriori ricerche svolte da una giovane studiosa, la dottoressa Marianna Craba1, laureata nel 2017 in Studi storico-artistici all’Università La Sapienza di Roma con una tesi in Iconografia e Iconologia dedicata alla figura di Fillide, la quale ha preso spunto anche da quelle mie osservazioni per la sua specializzazione in Arte moderna con una tesi sperimentale su quella «copia della Stanza di Eliodoro» sita nella sua città natale. Un suo articolo, che apparirà prossimamente sulla rivista «Lazio ieri e oggi», illustrerà le fasi ed i risultati della ricerca, per la quale ha voluto esprimere gentilmente il suo ringraziamento per l’assistenza storica, urbanistica e di esperienza ricevuta. Dopo varie ricerche su materiale inedito di archivio, la dottoressa Craba è riuscita circoscrivere ipoteticamente l’esecuzione dell’opera tra il 1781 e il 1785, avvicinandola – a conferma delle intuizioni – alla mano del pittore trapanese Giuseppe Errante, che proprio in quegli anni lavorava in città nella vicina chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte. Grande il merito della studiosa di aver rintracciato i documenti che confermano come quelle stanze siano state costruite in tempi “moderni” ovvero alla fine del Settecento e che ancora ai primi dell’Ottocento tra i fratelli Manzi e i Padri Dottrinari si stipulassero convenzioni sulle reciproche concessioni. Confermato anche il fatto che vi fosse una cappella gentilizia distinta della stanza delle “pitture con Attila” che forse era una nuova cappella e forse lo “studiolo” di uno di loro, adeguato alla fama di letterati e intellettuali amanti dell’arte. Ma certamente risolti tutti i dubbi sulla diversità dei colori e delle figure con un divertente particolare sulle basette di Leone Magno, assenti in Vaticano e presenti nel dipinto in casa del “basettatissimo” cavalier Pietro Manzi… Che poi era un amante di storia ma anche un attivissimo tombarolo, pardon! antiquario, in trattative con acquirenti stranieri per la vendita di reperti etruschi ed anche villanoviani, come tante altre ben note famiglie proprietarie o affittuarie di terreni, anche per l’alto esempio di Luciano Bonaparte (Ajaccio, 21 maggio 1775 – Viterbo, 29 giugno 1840), principe di Canino, e come del resto le leggi del tempo consentivano.
Ma le novità nel campo delle intuizioni interpretative e delle scoperte in tema di beni culturali e artistici di cui ho piacere di far partecipi i lettori ed amici del blog non finiscono qui.
Gli affreschi e le varie pitture nella cappella di sinistra nel Tempio della Concezione della Beata Vergine in Piazza d’Armi, intitolata a San Giovanni di Dio, sono un insieme straordinario di sorprese. Già quei grandi mazzi di fiori colorati, inseriti in vasi d’argento e poggiati in alto, sono uno spettacolo insolito, a cui si aggiunge la figura, purtroppo poco comprensibile, di un personaggio che ha tra le mani il modello di un edificio, verrebbe da dire della chiesa stessa e quindi esser quello il suo donatore o promotore, ma il personaggio e la chiesa sono irriconoscibili.
Gli stucchi intorno all’altare, i fiori, gli angeli e i cherubini sono di una levità straordinaria, figure allegre che circondano la grande pala incorniciata dall’ordine architettonico, ma quello che più colpisce sono i due affreschi laterali con due scene a prima vista misteriose. Qui, purtroppo, l’umidità di risalita, le perdite dall’alto, l’incuria di chi lavorava al piano superiore e qualche addetto senza troppe remore ci hanno privato di buona parte delle immagini, dato che un intervento degli anni Sessanta, prima del trasferimento del San Paolo nella nuova sede alla periferia cittadina, aveva drasticamente eliminato la fascia inferiore d’entrambe le scene, rendendole prive di riferimenti significativi.
Tuttavia, un esame approfondito ed un’analisi attenta della parte restante dei dipinti, con confronti e riscontri riferiti intuitivamente al probabile soggetto delle rappresentazioni, fa scoprire, almeno in parte, le cose sorprendenti raffigurate.
Sulla parete a destra, a dire il vero, attraverso la mia documentazione fotografica, realizzata prima di studiare il monumento e, via via, durante lo studio e la progettazione del restauro e poi nel corso della direzione di lavori, ho dovuto riscontrare alcune modifiche dovute ad interpretazioni diverse, avvenute nel tempo, nel restauro dei dipinti, con ripensamenti e forse con qualche integrazione. Su questa parete, dunque, si nota una scena che vede sul fondo la forma di un grande portale, forse una porta urbica del Cinque-Seicento, oppure la grande mostra d’una fontana, come quella bifronte che sorgeva proprio lì davanti, sulla Piazza d’Armi. E poi un edificio, un tratto di mura, in fiamme, e ancora una cupola – che a prima vista sembrerebbe quella della basilica vaticana, e fabbricati con un portico toscaneggiante.
Animano la scena, infine, alcuni personaggi di cui resta solamente la parte superiore. Ma è riconoscibile, tra questi, un angelo e si può intuire un insieme di figure maschili e femminili e addirittura una portantina o barella pronta ad accogliere qualche malato.
Qualche indizio ed un residuo di colore sembrerebbero suggerire una presenza fluviale (il biondo Tevere?) che ci ricondurrebbe all’Isola Tiberina, sede storica dei Fatebenefratelli a Roma. I dubbi restano però, pur cogliendo qualche richiamo ad altri quadri noti del Santo titolare. Lo studio è ancora in corso, con alcune ipotesi anche relative all’artista che, ispirandosi proprio ai più nobili dipinti tiberini, ha realizzato questi. Ma ne riparleremo dopo la sua conclusione, per raggiunger la quale saranno graditi suggerimenti e contributi.
Sulla parete di sinistra, invece, un primo stupore è dato dal vedere una strana, altissima torre sfinestrata, in tutto simile – a parte quelle finestre – ad una improbabile ciminiera, dalla cui cima si alzano fiamme e fumo. Poi, si resta indecisi se interpretare una zona color fuliggine come una macchia di umidità e muffa o come il fumo dipinto di (un altro) edificio incendiato e si propende per la seconda ipotesi. A sinistra del dipinto, è chiara la scena della morte d’un personaggio seduto su un letto. Si tratta, con certezza, di San Giovanni di Dio, anche se la tradizione lo vuole, in quei momenti supremi, lasciato solo e inginocchiato a raccomandare la sua anima al Signore. L’artista, qui, lo ha invece rappresentato poco prima, circondato da una moltitudine di fedeli e sacerdoti in preghiera, ed il primo di essi – forse l’arcivescovo don Pedro Guerrero – è in procinto di comunicarlo con l’ostia consacrata.
La Madonna, in cielo, circondata da creature angeliche di varia gerarchia, attende il Santo, reggendo in mano una corona vera e propria, cioè una fascia circolare munita superiormente di una serie di elementi triangolari. Anche questo dettaglio è anomalo, perché l’agiografia vuole il Santo, dalla Vergine e da Cristo, coronato di spine, come nel grande dipinto (1741) di Corrado Giaquinto sulla volta della chiesa di San Giovanni Calibita a Roma, proprio sull’Isola Tiberina. Ho qualche dubbio che quelle forme siano, anche in questo caso, date le condizioni del dipinto, un’interpretazione imprecisa nel restauro di linee non evidenti, ma si tratta di un particolare ininfluente. Si potrebbe trattare di una “correzione” voluta dallo stesso autore del dipinto. Resta la sensazione di un dipinto devozionale certamente ispirato dalla conoscenza del soggetto da parte del pittore, guidato nella precisione dei dettagli dai Padri dell’Ospedale e, sicuramente, impostato su modelli maggiori ben studiati. E, a mio parere, ricordi (anche cromatici) delle Madonne di Giaquinto, nell’affresco di Civitavecchia li possiamo ritrovare, ma vi scopriamo, in aggiunta, della particolarità del tutto originali ed autonome, forse dovute a conoscenza diretta dei luoghi.
Che il soggetto dei dipinti fosse il fondatore dei Fatebenefratelli, data l’intitolazione della cappella, era cosa scontata. Non così il paesaggio che fa da sfondo alla scena, e anzi l’affianca, occupando gran parte del dipinto ed ha qualcosa di inatteso. Devo dire che per lungo tempo, nel seguire i restauri e dopo, pur supponendo il significato dell’episodio e nonostante la buona conoscenza della Spagna, non ne avevo capito i contenuti più interessanti. Guardavo quella catena montuosa innevata e mi chiedevo dov’era. Poi, finalmente, l’ovvia risposta è maturata: gli edifici, la cupola della chiesa, la città turrita, il castello in alto ed i monti che chiudono l’orizzonte, sono, con notevole fedeltà al vero, quelli della città di Granada con l’Alhambra e con l’ospedale in fiamme, sullo sfondo di montagne bianche di neve, che sono appunto quelle della Sierra Nevada. Con il rammarico che solo una porzione di quei dipinti sia sopravvissuta all’abbandono di anni ed alle ripetute incursioni con saccheggi e distruzioni da soliti ignoti su mandato – come mi si disse all’epoca – di insoliti (?) noti.
Devo necessariamente concludere qui questa primo ragguaglio su alcuni studi, che ho voluto dedicare al commosso ricordo di Tiziano Fagliari. Seguiranno altri aggiornamenti, con particolare riferimento alle tesi di laurea in architettura che hanno avuto per oggetto lo stabilimento Italcementi ed i suoi grandi “contenitori”, esempi rilevanti di archeologia industriale, a nuovi studi ed a qualche “scoperta”, sempre nell’ottica di formare un patrimonio pubblico di conoscenze scientifiche a disposizione della Città. Si svolgerà oggi la ripresa di attività del Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia, che riapre le porte al pubblico dopo la chiusura Covid. Si tratta di un evento di grande importanza, perché il contributo che il Museo, con la dottoressa Lara Anniboletti, nuovo direttore del Museo, può dare al dialogo tra istituzioni, alla partecipazione della cittadinanza, alla sinergia tra enti, associazioni, scuole e studiosi è fondamentale.
1 Marianna Craba (1993) svolge praticantato in vari musei romani, tra i quali Palazzo Barberini e Palazzo del Quirinale, come guida turistica e storica dell’arte. Attualmente lavora presso il Colosseo come operatrice museale. Tra le sue varie ricerche in campo storico e artistico meritano menzione l’interpretazione e l’ubicazione cronologica di un manoscritto anonimo conservato presso la Biblioteca Angelica di Roma e la tesi magistrale su quella anomala copia raffaellesca del noto appartamento privato civitavecchiese.
FRANCESCO CORRENTI