Poltronavirus 7. Menagramo, visionari e “resilienti” nel tempo della pandemia
di NICOLA R. PORRO ♦
Mi sono intrattenuto di recente sul “vissuto” della pandemia riflettendo sulle mie personalissime sensazioni. Qualche amico mi ha rimproverato di non aver fatto cenno alle opportunità che potremmo ricavare da questa come da tutte le grandi crisi che hanno scandito la storia dell’umanità. Ha ragione: le grandi calamità naturali, le guerre, le epidemie hanno sempre prodotto o accelerato mutamenti significativi, capaci di dispiegare effetti duraturi. Un’altra volta, senza intenzioni divinatorie, proverò a isolare qualche caso esemplare. Non si tratta tuttavia di un esercizio facile. Quello della cosiddetta postmodernità – espressione utile solo a individuare un “dopo qualcosa” che non siamo in grado di descrivere e nemmeno di prevedere – è un tempo sincopato e contratto. Difficile fare previsioni credibili. Pratiche quotidiane, stili di vita, modalità di lavoro risulteranno in qualche caso durevolmente modificati. Altre esperienze evaporeranno non appena il nemico invisibile avrà allentato la presa. Il tempo crudele della socialità negata annuncia in ogni caso una nuova biopolitica, nell’accezione letterale del termine.
Possiamo solo, allo stato, sforzarci di decifrare qualche traccia. Certamente l’epidemia ha accelerato processi già parzialmente maturi, per esempio imponendo il ricorso massiccio e generalizzato alla comunicazione a distanza o sollecitando, nel caso italiano, una chiara ridefinizione del rapporto Stato-Regioni. A più ampio raggio, occorre però distinguere, ci insegnano gli economisti, fra innovazioni di prodotto e innovazioni di processo. Fra le prime penso ovviamente alla farmacologia, messa alla frusta dalla ricerca del salvifico vaccino. Sotto il profilo sociologico sono però più rilevanti le innovazioni di processo. Queste ultime non riguardano il cosa facciamo bensì il come lo facciamo per rispondere a esigenze che non possiamo soddisfare con le modalità tradizionali o per far fronte a nuove necessità. Affidare la nostra salute agli effetti del vaccino e rassegnarsi a fastidiose misure di protezione sanitaria (mascherine, distanziamento) appartengono alla tipologia del cosa. Svolgere un programma didattico a distanza o gestire eventi che mobilitano emozioni (lo sport, lo spettacolo, le manifestazioni artistiche) attiene alla sfera del come. I contenuti sono invariati ma le relazioni interpersonali e la loro stessa sintassi risultano radicalmente trasformate.
L’innovazione tecnica, quando interessa aree sensibili come la sanità, l’istruzione, la comunicazione non lascia mai le cose come stanno. Nulla sarà più come prima ma è evidente una certa reticenza da parte dei futurologi di professione a immaginare gli effetti dello tsunami sociale che ci ha investito. Esemplare è proprio il caso italiano: quello di un Paese da decenni in declino (demografico, economico, di status internazionale), chiamato a raccogliere la sfida della pandemia oppure a subirne i contraccolpi più duramente di altri. Nei primi anni del secondo dopoguerra i nostri genitori si rimboccarono le maniche e diedero vita al “miracolo italiano”. Erano affamati di libertà, di benessere, appassionatamente coinvolti nella vita politica della risorgente democrazia. L’età media era molto più bassa di oggi, le classi di età più anziane erano ridotte, le aspettative di vita inferiori. Si facevano più figli, si costruiva quel sistema industriale che ci consente di essere ancora la seconda potenza manifatturiera della UE. Si scommetteva sul futuro. Una società di anziani come la nostra attuale, anchilosata da persistenti disuguaglianze e ancora minacciata dagli spiriti animali del populismo, a quali energie potrà attingere non solo per sopravvivere, ma per crescere e trasformarsi?
La disputa fra ottimisti e pessimisti vanta illustri precedenti. Voltaire, sconvolto dal terrificante terremoto di Lisbona del 1755, affida il giovane Candide al precettore Pangloss, un immaginario seguace della tesi di Leibniz, secondo cui il nostro è, malgrado di tutto, “il migliore dei mondi possibili”. Un cultore della fantascienza distopica dei giorni nostri giorni potrebbe però, in maniera altrettanto indimostrabile, identificare la pandemia con l’evento culminante di una crisi irreversibile e fare del nostro Paese un esempio di scuola. Del resto, anche il catastrofismo ha origini illustri. Ventidue secoli prima di Schopenauer, un tale Egesia di Cirene sosteneva che a governarci sia la mano misteriosa, capricciosa e certo non benevola della sorte (la tyche): più saggio trovare riparo dalle umane tragedie coltivando un pessimismo appartato se i destini collettivi sono inesorabilmente scanditi da eventi incontrollabili. Liquidato come menagramo, gli proibirono di insegnare e di diffondere le proprie opere.
Senza prendere partito fra le opposte fazioni, possiamo solo interrogare con umiltà e pazienza quelli che gli antichi profeti chiamavano “i segni dei tempi”: spesso aspetti di dettaglio illuminano scenari complessi. Nessuno, del resto, e tantomeno i sociologi – genìa partorita dall’ideologia del progresso -, riesce a immaginare credibilmente il cosa, il come, il dopo di una crisi globale come quella che stiamo vivendo. Lo stesso sistema dei media restituisce un’immagine deformante, più che riflettente, del dramma sociale che attraversiamo e che ci attraversa. La nostra rappresentazione della crisi sembra ispirata a quella litografia di Escher (Mano con sfera riflettente, 1935) in cui l’artista disegna con acribia una sfera del tutto priva di colore. L’artista rappresenta se stesso nella sfera e insieme osserva noi che lo osserviamo. I chiaroscuri restituiscono una sensazione di turbamento, a evocare una minaccia incombente. Un sofisticato autoritratto, attraverso un’elaborata combinazione di arte, geometria e matematica, genera intenzionalmente un’immagine ingannevole. Serve a turbarci, a trascinarci in un anfratto dai confini incerti: un universo in miniatura dove nulla è ciò che appare. Tutto può cambiare o forse nulla può succedere. Nello sguardo incerto dell’osservatore osservato sembra consumarsi l’illusione positivistica. Le leopardiane magnifiche sorti e progressive non sono altro che un’illusione intellettuale? Se il volto riflesso che contempliamo appartiene a noi, chi può pretendere di disegnare le fattezze del mondo che verrà? Ci mancano l’etica e la cosmetica del nuovo. Quella che in altri tempi chiamavamo alienazione si è trasformata nel solo possibile (dis)ordine sociale. È il grado zero della biopolitica: la nuda vita.
La politica, strumento principe del governo della complessità, appare sideralmente lontana, rassegnata o comunque inadeguata al compito. Eppure, restituisce di tanto in tanto qualche segnale non di dettaglio. Il fatto, ad esempio, che abbia preso pacificamente forma nel nostro Paese un sostanziale cambio di regime segnala insieme la gravità del momento, il livello della sfida e l’irrilevanza del pensiero politico che avrebbe dovuto interpretarla e gestirla. Una (indispensabile) rivoluzione tecnocratica ha prodotto una scia di acquiescenza, qualche timida e ipocrita resistenza ideologica, una diffusa e in parte inconfessabile sensazione di sollievo. Finalmente c’è qualcuno al timone: possiamo tornare a occuparci delle nomine… e se invece, insinuerebbe un postmoderno Pangloss, non fosse proprio la paura del precipizio a mostrarci, per controdeduzione, di quale politica abbiamo davvero bisogno? Perché pienamente politico sarebbe “resettare” vecchi pregiudizi, isolare dilettanti allo sbaraglio e piazzisti dello slogan.
Chi ha coscienza di vivere un dramma sociale a scala planetaria ha il dovere morale, prima che politico, di guardare un palmo oltre l’ultimo sondaggio. Lo choc serva almeno a interrogarci su di noi, sul nostro destino comune. Smentendo vetusti luoghi comuni, l’Italia ha stupito il mondo nella prima risposta alla pandemia fra l’inverno e la primavera del 2020. Non una pura, automatica reazione di resistenza e di orgoglio a una sfida imprevista che colpiva noi per primi. Forse venivano alla luce quei percorsi carsici in cui proliferano tanto poteri criminali quanto inimmaginabili slanci di solidarietà sociale. Non siamo forse una terra di angeli e demoni, un Paese umiliato dalla criminalità organizzata e insieme fiero di vantare la più estesa rete di volontariato europea?
La grande crisi esplosa a cavallo fra la seconda e la terza decade del Duemila può aiutarci a conoscere l’Italia che non vediamo, per cercare di governarla. Non basterà gestire le pur cospicue risorse del Next Generation Eu se non assumendo comportamenti coerenti, capaci di accompagnare e valorizzare i flussi di denaro. Andranno selezionate e censite le buone pratiche che sono emerse: per socializzarle, valorizzarle, idearne di nuove, metterle a sistema. Meriterà di esaminare un’altra volta qualche esempio concreto…
NICOLA R. PORRO
Che significa in italiano NEXT GENERATION ?
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Alla lettera significa la generazione che verrà, la prossima. Chiaramente al momento prevale l’uso traslato, in riferimento al programma UE.
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Caro Nicola ,come sempre, costringi alla riflessione ed inciti il lettore ad elaborare pensieri sopiti.
Penso che la classe politica estesa a tutti coloro che amministrano o gestiscono partiti sia affetta da uno !strabismo, però non venusiano né elegante né intrigante. Uno strabismo volgare che potremmo meglio chiamare con termine tecnico: “eterotropia acuta”. Ebbene, questo difetto ci impedisce di pensare che la crisi possa essere strumento per invertire la rotta, sia, cioè,causa di miglioramento. E, questo, nonostante la società civile, come tu richiami, sia operosa ed attiva nei settori del volontariato.
L’eziologia dello strabismo porta ad evidenziare tre forme patologiche.
1) Si fissa la persona di Mario Draghi ed ecco che l’occhio si rappresenta non la persona quale esso è ma come un “Super Mario”capace da solo di risolvere ogni cosa. Con lui al timone noi ci siamo tolti il peso della crisi per noi politici ingovernabile. Si può, così, ritornare a interessarci di squallide nomine e di sondaggi. L’idealizzazione del potere carismatico serve solo a creare alibi. L’occhio sano vede benissimo che senza una struttura efficiente il “capo” può far poco. Però serve poter essere strabici.
2) Si fissa il compito che ci è di fronte, ovvero governare la nave ed invece l’immagine che la retina mette a fuoco è “fronteggiare” l’esistente, correre dietro il virus, parare i suoi colpi, rispondere alle sue mosse. Guerra di difesa in luogo di programmazione e di pro-azione.
3) Si fissa il futuro come possibile punto di svolta e di rinascita ed ecco che, ancora, l’occhio trasmette alla mente solo e soltanto il presente, le pene attuali, le miserie dell’oggi, il commercio del momento, il sondaggio dell’attimo.
La farmacopea permette di disporre di norme per sanare la patologia?
Tu, giustamente, citi il dopoguerra ma poni in evidenza l’età media, la voglia di fare, il popolo afflitto, il ricambio “forzato” del corpo politico-istituzionale.
Tutto questo manca.
Ogni fenomeno naturale deve raggiungere un punto critico perchè avvenga l’inversione dello stato termodinamico. Siamo ben lungi da quel punto.
La ricchezza è per molti viva e vegeta, Solo alcune classi soffrono drammaticamente. Siamo abituati ad un livello tecnologico che non vogliamo minimamente diminuire. La classe politica è sempre quella, non c’è mutamento istituzionale. Siamo troppo vecchi. Non c’è consapevolezza di vivere in una “permanente” società del rischio.
Non conoscevo Egesia di Cirene. Sapevo del buon Leibniz-Pangloss.
Auguro ai giovani di non essere affetti da strabismo.
I miei ottantanni mi fanno scivolare verso il “persuasore di morte” di Cirene. Rifletterò bene su quest’ultimo argomento.
Grazie per tutto gli stimoli. Come sempre.
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Ed io che invece di fare una lunga passeggiata sto qui a leggere le tue parole, non è forse una forma di alienazione?
Caro Nicola, un grande spettacolo quello che tu hai descritto, cogliamo il valore di segno della sfera-monade di Escher, che intrappola quello che era il valore d’uso di eventi, partecipazioni, attività e pratiche che non sono più reali, non più quotidianamente frequentati. Come se si fosse interiorizzata la solitudine, per cui , quasi volontariamente, evito di vedere i miei nipoti, che sono autenticamente e realmente il vero miracolo- con la loro nascita- di questo infausto 2019-2020.
Rinchiusi nella bolla di Escher prendiamo atto che la parola che circola al di fuori- sui media, social, televisione, streaming, tendoni per la vaccinazione, dati Covid della Regione Lazio- è solo la parola del potere ( biopolitica).
Ed è biopolitica la privazione di uno scambio reale tra io e te, reciproco, tra la parola e la risposta, uno scambio limitato alla forma, senza corpi che ridono, occhieggiano e si toccano. La parola ora è una forma di comunicazione che riguarda solo la forma : i fiumi di parole sul cappello dell’alpino generale Figliuolo, cioè sulla forma. Per questa forma i mezzi di comunicazione sono sempre forme del potere.
Il controllo sociale dei media è nelle nostre case ( Baudrillard). Hai notato che se scrivi Covid su facebook appare una ” velina ” che ti rimanda ad informazioni veritiere sul Covid? Ci pensi che solo per aver detto questo io potrei essere oggetto di sospetto di negazionismo, quando per me è esattamente il contrario!. Il controllo sociale assicura il potere del fatto che le persone non parlano più tra loro, isolate di fronte alla sua Parola senza risposta o interconnesse fra monadi- il globo di Escher- come aveva presagito Leibniz, lui si, grande alieno fra noi.
Aspettiamo esempi di buone pratiche, nei confronti delle quali io ho speranza.
Grazie Nicola !
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