IL SIMBOLO

di CARLO ALBERTO FALZETTI

Perché lo permettemmo?

Come potemmo assistere al latrocinio?   

Avevamo, un tempo un nostro spazio comunitario. E questo spazio era un rito. Un rito nel quale la comunità concentrava il proprio processo identitario. Un rito come contrassegno culturale della città (così come avviene a Viterbo con Santa Rosa, rito dello storico civismo cittadino e della devozione popolare).

Non era la festa della Santa Patrona, pur venerata perché protettrice dei naviganti e della città marinara.

Il rito era un effetto della storia portuale, dell’essere luogo penitenziario, dell’essere scalo della marina militare pontificia, dell’essere luogo di Confraternite Penitenziali.

Ogni processione del Venerdì Santo in tutta Italia è una sorta di celebrazione esemplare di un” Morto paradigmatico” . E’ una collettiva elaborazione del lutto il cui fine latente è quello di esorcizzare il dramma di ogni essere umano attraverso lo stupore della morte-resurrezione del Cristo e di inserire lo spettatore in una strategia della speranza.

Ma, nella nostra Città, il paradigma della morte assumeva, fin dall’inizio, una tonalità molto intensa. La forte presenza della Confraternita , il condannato, i penitenti che scontano la pena del peso della catena portuale, la musica, la mestizia, il buio, tutto questo poneva al centro il dispositivo simbolico della morte cruda, della morte in sé, della precarietà della vita, dell’angoscia esistenziale. Il Venerdì come celebrazione della finitudine dell’uomo, la morte di Cristo come esempio archetipo della nostra esistenza limitata. Nessun cedimento ad una estetica della rappresentazione della Via Crucis, così comune altrove, ma semplicemente pure, composte e tenebrose  esequie collettive.

Questa valenza simbolica, nell’immediato dopoguerra, si era potenziata ancor più andando ben oltre il contesto quaresimale. Una città squarciata da decine di bombardamenti, una comunità di sfollati da poco rientrati fra le macerie, l’affollamento dei reduci, dei partigiani dei soldati sofferenti, dei sopravvissuti  si riconosceva in quel rito di cordoglio collettivo. Era anni, dal ’40 al ’70, ove l’ostentazione rituale del Cristo Morto, si caricava di un contenuto sociale intenso: quel sacro simulacro che si aggirava per le vie accompagnato da una ritualità di elevata intensità emotiva elargiva ai presenti  una commozione diffusa, una metafora della morte vissuta dalla città pochi anni prima.

La strategia dello sguardo e la strategia dell’udito: il candore spettrale dei penitenti, il rumore intenso e lungo della catena sfregata sulla strada che fa da sottofondo sordo e tetro alla banda che intona il terzo tempo della sonata 35 di Chopin. I mesti rintocchi iniziali da Piazza Leandra cominciano a diffondersi verso la Terza Strada. Lento, ossessivo il grigio canto di morte  aleggia nelle vie strette per poi svilupparsi verso la Cattedrale in una melodia triste, tenera, dolente attraverso l’entrata  dei flauti e clarinetti. L’animo è pervaso da una calma rassegnata, struggente.

 Ma ecco che presto la dolce melodia cede il passo agli ottoni e torna a stagliarsi implacabile l’ombra ritmica del rintocco grave. La consonanza delle catene struscianti e la tessitura melodica del genio di Chopin (e di Vella) si elevano quale perfetta preghiera dell’uomo miserevole verso il Cielo muto della notte di primavera.

Altro non era da aggiungersi.

Questa la “Pricissione” originaria!

Può forse la preghiera recitata, meccanicamente sbiascicata da labbra svogliate sostituire questo intenso suono di devozione?

 Era a questa devozione che l’animo del cittadino si struggeva dimenticando i credi, le ideologie divaricanti, le distinzioni sociali. La Città tutta trovava qui  il suo punto di unione culturale.

Ma…nel contempo, covava sordo il desiderio di appropriazione e di distorsione simbolica. Strisciante, si insinuava nelle strutture. Non era solo questione di far valere un controllo ecclesiastico in ciò che appariva troppo impregnato di laicismo, di celebrazione civica. Era presente anche un ansia golosa di tradurre l’evento in mezzo di consumismo turistico. La zuppa, la Sambuca, la Pizza di Pasqua, il mare, le terme e perché , allora, la “Pricissione”doveva starne fuori?

E fu così che si decise il colpo geniale, marketing-oriented, di ficcar dentro mezzo manipolo con tanto di centurione tutti roman- domiciliati. E, poi, per rinsaldare ancor più il clima esoterico autentico ed originario ecco l’aggiunta di misteriosi Cavalieri di Malta a far da compagnia ai nostri” veri” incappucciati.

Ma il dramma doveva ancora scatenare i suoi effetti devastanti. E fu così che in una Pasqua di un dato anno (Annus Horribilis), d’un colpo, gli antichi Crociferi della Compagnia della Morte vennero affiancati da un giovin boy scout altoparlante- dotato. E fu la fine della declinazione locale dell’evento pasquale.

La strategia dell’occhio e dell’udito si perse. La preghiera collettiva così armoniosamente concatenata di melodia immortale e di rumore ferrigno fu rotta dal sibilo acuto, penetrante di parole male udite perché mal pronunciate che causavano  l’interruzione di una sacra devozione silenziosa,  certo più intensa.

Il simbolo non è segno. Il simbolo ha una eccedenza di significato, il segno è monovalente.

 Oggi la Processione appare semplice svogliato segno, rievocazione della Via Crucis con attori, certo sinceri, impegnati a rappresentare il Sinedrio, la soldataglia romana, i Misteri della Via. L’originario fascino degli incappucciati rafforzato inutilmente da intrusi Cavalieri che in luogo di esasperare la carica esoterica fanno pendere il tutto verso il ridicolo. Ed ancora, torme di pencolanti figuranti fuori luogo, rappresentanze militari, civili, associazioni, Vigili, Carabinieri, crocerossine, protezione civile, preti, tanti preti, tutti i preti possibili. La dolce e tenebrosa melodia Chopin-catene disturbata dalla insolente, petulante voce per nulla devozionale.

Una delle tante rappresentazioni in giro per l’Italia: segno non più simbolo!

 La presenza di una folla rappresentativa del civismo non è per nulla indicatore di un evento religioso che vorrebbe , come in origine, assumere forte significato civico. L’apparire non è essere.

 Il simbolo della Città calpestato, reso inerte, immunizzato.  

Che dire, infine? In onore a Vella: Una lacrima sulla tomba della Nostra Pricissione!

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Eccellenza, sono stato sgarbato? Ho offeso ciò che appartiene alla Chiesa? Ella mi fa notare come sia orrido pensare al Venerdì Santo come funerale tout court senza palesare che alla Morte corrisponda la Resurrezione? Ed ancora, come oso pensare che introdurre la preghiera collettiva amplificata da moderni mezzi sia fuori luogo in una Processione?

Chiedo venia ma mi permetta due risposte alle sue indignate domande.

 Se a Civitavecchia si celebra la Morte, a Tarquinia si celebra la Resurrezione. Essendo unica Diocesi il conto è pareggiato!

In secondo luogo,  piaccia alla dolce Teresa di Avila venirmi in aiuto quando, rivolgendosi alle sue Sorelle indicava:  Perché dite che basta pregare Dio solo con la bocca?…..Se (la preghiera)non l’accompagniamo alla preghiera mentale è come una musica stonata tanto che alle volte non usciranno con ordine neppure le parole!! 

Affido alla mistica Dottoressa la mia difesa. Il civismo dalla nostra(un tempo) Processione si coniugava perfettamente con la Devozione: il Silenzio può essere preghiera molto più intensa della voce sguaiata!

Con riverenza.

(Riferimenti essenziali al lavori di: S.Lipar (Valladolid), E.De Martino, F.Faeta, Lombardi Satriani, V.Lanternari, P.Apolito)

CARLO ALBERTO FALZETTI