Poltronavirus 6. Ridendo e scherzando…. l’Italia dell’anno dopo

di NICOLA R. PORRO

L’uomo mascherato sta alla cassa di un supermercato dalle parti di casa. A quell’ora è deserto. Il cassiere mi ha riconosciuto, ha voglia di scambiare due parole. La voce, leggermente alterata dalla mascherina, è robusta, familiare. “E intanto, professo’, ridendo e scherzando è un anno che viviamo carcerati e mascherati…” 

Dice proprio così: ridendo e scherzando. Avrà voluto fare dell’ironia? Però ha ragione: è passato un anno. Il più triste che la mia generazione ricordi. Allora nessuno aveva capito cosa stesse succedendo né immaginato cosa ci aspettasse. Il partito dei pessimisti e quello degli ottimisti avevano in comune la totale assenza di credibili argomenti a sostegno delle rispettive convinzioni. Quando l’ansia cominciò a prendere il sopravvento, si affacciò dagli schermi delle reti nazionali il volto rassicurante di Walter Ricciardi: l’esperto incaricato, in qualità di consigliere del ministro della Salute, di introdurci alla conoscenza del nemico invisibile. È un autorevole studioso e un caro amico: una ventina di anni fa insegnavamo a Cassino, nella stessa Facoltà. Conoscendone la competenza e l’onestà intellettuale sapevo che potevamo fidarci. Non ci avrebbe illuso né terrorizzato. Ci avrebbe spiegato quel poco che la Scienza cominciava faticosamente a capire. 

Intanto l’“Italia che resiste” aveva raccolto la sfida. Do you remember? Le bandiere alle finestre, i canti di incoraggiamento, i concertini da balcone per pentola e padella, le frecce tricolori che si alzano in volo a trasmetterci orgoglio e coraggio. Scopro un avamposto dei miei nipotini sdraiato sul pavimento e patriotticamente intento a disegnare un grande poster: lo affiggeranno al cancello di casa. Campeggia la scritta “Andrà tutto bene!”. Poi c’è un arcobaleno un po’ sghembo e sagome di coloratissimi oggetti volanti. Mi spiegano che sono le frecce tricolori. Le hanno viste esibirsi in televisione. Vanno a bombardare il virus, mi spiegano. Lo distruggeranno e poi faranno un ritorno trionfale colorando il cielo di bianco rosso e verde.

NIC FOTO 2 2B

La stessa sera, mentre sono intento a sparecchiare, sono raggiunto da una grandinata di whatsapp. Scorro i nomi: quelli di una quarantina di amici di tutta Europa… sembra una catena della solidarietà. Messaggi sintetici, spesso affidati al simbolismo degli emoticon: prevale un tricolore italiano accompagnato da mani che applaudono, cuoricini, bicipiti. E parole di incoraggiamento in tutte le lingue d’Europa… Vamos Italia… Astonishing… Wir sind bei Euch … Allez l’Italie… Come on friends! Qualcuno azzarda un messaggino nella nostra lingua.  Mi domando perché succeda, perché adesso, perché tutti insieme. È Pilar, da Granada, a svelarmi l’arcano: al messaggio ha allegato un video andato in onda mezz’ora prima nei telegiornali spagnoli. Immagino che stia circolando più o meno alla stessa ora da Tallinn a Lisbona, da Helsinki a Nicosia. Si vedono le frecce tricolori –  la mejor escuadrilla de acrobacia aérea en el mundo– salutate dai balconi imbandierati di Roma. Il panorama urbano è quello di una città da film distopico. Per le strade non c’è nessuno, ma proprio nessuno. Gli italiani stanno infrangendo secoli di stereotipi: una disciplina che nel Baden-Württemberg se la sognano! Uno come Mussolini, che dei compatrioti (purtroppo) se ne intendeva, aveva sostenuto che “governare gli italiani non è difficile: è inutile”.  Smentito anche lui: stiamo dando una dimostrazione di responsabilità e di compattezza che sorprende l’umano consesso. Non guasta quel pizzico di stravagante fantasia che appartiene al nostro dna. ”Per fortuna avete lo spettacolo nel sangue – mi twitta un amico francese – fosse toccato prima agli svizzeri, ci avrebbe ammazzato la noia più del virus…”

NIC FOTO 31 3B 3C

Ed eccoci qui, un anno dopo. Stavolta in compagnia del pianeta intero. Ma ancora in guerra con quel nemico invisibile che non riusciamo a domare. Ridendo e scherzando, direbbe il cassiere, possiamo almeno concederci qualche riflessione. Come si è trasformata la nostra esistenza? Qual è il nostro sentimento dominante dopo un anno di clausura? La mia personale risposta è secca quanto banale: la stanchezza. La descrive magistralmente un articolo di Marco  Belpoliti su Doppiozero del 27 febbraio (“Una stanchezza senza fine” in https://www.doppiozero.com/materiali/una-stanchezza-senza-fine).

Il sottotitolo contiene un ossimoro eloquente: La fatica di essere pigri. Sgomberati i balconi, ammainate le bandiere, dimenticati canti e concertini, il nostro quotidiano è adesso scandito dal ritmo compusivo delle telefonate. Da cento letture iniziate e presto interrotte. Da un’insolita difficoltà a concentrarsi su qualcosa che ci interessi davvero. Alla “asettica, levigata, democratica non libertà” che mezzo secolo fa Marcuse associava al neocapitalismo, è subentrata l’operosa, compulsiva, malinconica inoperosità dell’universo pandemico. Abitiamo una terra di mezzo: le apparteniamo ma non ci appartiene. Non vediamo vie di fuga, non abbiamo risposte ma solo domande che moltiplicano l’ansia: e se non tornassimo più a vivere come prima?  Come sarà la vita del dopo? … ridendo e scherzando…fa capolino l’angoscia.

NIC FOTO 4A 4B

Belpoliti sostiene in sociologhese che stia venendo meno la “valorizzazione sociale del tempo”. Tradotto con un esempio: come si fa a credere ancora che ”il tempo è denaro” se non possiamo fruirne? Ci rintaniamo in un’economia della sussistenza, rinviamo i programmi, accumuliamo risparmi di cui chissà quando godremo. Si è dissolto anche il capitalistico “tempo della prestazione”, quello che misura con impietoso rigore costi e benefici. Quello che rende possibile il profitto facendone la “religione della vita quotidiana”.  È tempo di consegnare anche Marx alla critica roditrice dei topi? Proprio adesso che sembra beffardamente avverarsi la sua profezia?

Nemmeno ci aiuta il caro vecchio Freud: i nostri giorni e le nostre notti sono sottratti alla dittatura del desiderio. 

Si profila un’inattesa rivincita dei filosofi puri. Gli unici a indagare l’universo claustrofobico in cui siamo relegati spiegando che a imprigionarci non sono più, o non sono soltanto, le spietate leggi generali del profitto e nemmeno le misteriose traversie del nostro inconscio. La cella in cui siamo confinati non possiede una dimensione fisica: non sappiamo descriverla, non possiamo misurarla. Non troviamo catene da recidere né pulsioni da liberare. Quando l’immaginario prevale sulla realtà, anche lo spazio mentale si popola di paure, di false attese, di fughe solipsistiche. O di una sconfortata rassegnazione. 

5

Alla pars destruens dei filosofi, per quanto pandemicamente rivalutati, manca la pars construens del vissuto. Il solo antidoto consigliato consiste nel riabilitare la pigrizia. Meglio: la “pigrizia gloriosa” di cui Roland Barthes tesseva l’elogio. L’ozio, il puro far nulla è un’utopia minima. Ma è la sola possibile una volta soppressa, nel segno dello smart working e della dad, l’antinomia che nelle società industriali opponeva tempo libero e tempo di lavoro. Rassegniamoci: non sarà una liberazione creativa. La pigrizia si rivelerà presto tutt’altro che gloriosa: ci lascerà ancor più smarriti e depressi. Al punto da soffocare persino il narcisismo, quell’ultima spiaggia che Christopher Lasch considerava l’uscita di sicurezza per individui in fuga dal sociale. Del resto, come potremmo coltivare il narcisismo in assenza di un pubblico disposto ad applaudirci? Una stanchezza senza fine ci inchioda fra le mura della nostra cella, con buona pace di Barthes e di Lasch. Non ci hanno spiegato a tempo debito che l’ozio è una pratica esigente, che richiede competenze. Liquidati anche loro: abbassino le arie, si tengano a distanza, si muniscano di mascherina e autocertificazione. Non vogliamo padri né maestri: non ci servono. L’essenziale l’abbiamo capito da soli: non è facile apprendere l’arte del non fare, la pigrizia è faticosissima, altro che! E la stanchezza…  ammazza pure i filosofi.

NICOLA R. PORRO