È il tempo del postpopulismo?

di NICOLA R. PORRO

Il sistema politico italiano è sempre stato ricco di fantasia. Fu Depretis nel 1882 a inventare il trasformismo parlamentare come strategia di governo. Qualche decennio più tardi il fascismo rappresentò un’inedita risposta nazional-populista alla crisi sociale del primo dopoguerra. Nel secondo dopoguerra abbiamo inventato la Repubblica dei partiti, il compromesso storico, le larghe intese, le coalizioni gialloverdi e giallorosse a premier invariante. Con il governo Conte-1 un Paese di democrazia parlamentare e fondatore della Unione Europea veniva consegnato per la prima volta all’alleanza di governo fra due forze populiste. Durò poco, ma abbastanza per confermare la nostra fantasiosa creatività, al prezzo di un repentino declassamento del rango internazionale del Paese. 

Consumata l’esperienza dei due governi Conte, insediato quello che è di fatto un governo del leader di granitica fede europeista, impegnato a fronteggiare una triplice emergenza (sanitaria, economica e sociale) e a gestire un’apertura di credito finanziaria senza precedenti, ci si interroga legittimamente sul nuovo profilo che va assumendo il sistema politico nazionale. Desta comprensibilmente sorpresa, e qualche sospetto, la simultanea conversione ideologica all’europeismo e al primato delle competenze da parte di due forze politiche come il M5S e la Lega di Salvini. Questione tutt’altro che accademica considerando che in forza della rivoluzione elettorale del 2018 esse rappresentano ancora una potenziale maggioranza parlamentare e concorrono a disegnare un’inedita architettura politica. Autorevoli osservatori stranieri si domandano se ancora una volta l’Italia precorra i tempi: i nuovi populismi stanno lasciando il passo al postpopulismo?

Al di là delle formule giornalistiche, la vicenda in corso va indagata senza pregiudizi, anzi con speranza e con curiosità intellettuale. Nemmeno si può però indulgere a facili entusiasmi e a premature conclusioni. Non dimentichiamo che le subculture populiste sono per definizione allergiche (nel bene e nel male) a qualunque elaborazione ideologica. Prive di radici, sono agili e facili ai repentini mutamenti di rotta suggeriti dalle convenienze. Non producono programmi bensì slogan a presa rapida ispirati al linguaggio del marketing e al gergo dei social. Dubito molto che i Salvini, i Renzi e i Di Maio abbiano trascorso notti insonni macerandosi su coerenze ideali e costrutti identitari. I congressi dei vecchi partiti convocati per definire “la linea” e mettere a confronto complesse elaborazioni strategiche appaiono agli occhi delle primedonne postmoderne noiosi reperti di antiquariato. La comunicazione si sostituisce alla politica: per giustificare i più acrobatici cambi di strategia basta azzeccare qualche slogan accattivante. Il consenso della base si misurerà attraverso sbrigativi riti di conferma di decisioni già prese: la conquista di uno zeropuntotre nell’ultimo sondaggio, l’esito di una consultazione online abilmente orchestrata, qualche comparsata televisiva bastano e avanzano. 

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Una legittima diffidenza non deve però tradursi in ostilità preconcetta. Nel tempo della sfida pandemica l’Europa ha bisogno dell’Italia. E l’Italia ha bisogno di sfruttare meglio l’appartenenza all’area della moneta unica e di affrontare da protagonista le sfide epocali che abbiamo di fronte. L’emergenza covid non ha cancellato il rischio ambientale, le migrazioni, la destabilizzazione politica del Mediterraneo. Liberare energie sin qui confinate nel recinto di un’astiosa e sterile opposizione a quanto di meglio ha prodotto l’Europa postbellica, ponendo fine a quella guerra civile continentale durata tre secoli e costata decine di milioni di morti, può rappresentare una preziosa opportunità. Una leale convergenza fra attori politici diversi su programmi coraggiosi e obiettivi condivisi potrebbe rappresentare uno straordinario valore aggiunto. Ci si chiede tuttavia se la trafelata e repentina conversione al credo europeista dei nostri populisti di lotta e di governo annunci una credibile mutazione antropologica. Stiamo entrando nel tempo del postpopulismo? La vicenda ha illustri precedenti. L’aveva già descritta Max Weber agli albori del Novecento ricostruendo i processi che hanno sempre storicamente scandito la transizione dalla fase magmatica dei “movimenti” a quella pragmatica dell’”istituzione”. Il sociologo tedesco aveva osservato come nella prima prevalga un consenso emozionale, mai razionalmente argomentato. Esso si coagula solitamente attorno a leader carismatici e a forme di predicazione profetica in assenza di qualsiasi legittimazione istituzionale. Questi movimenti, destinati spesso a una fine rapida e ingloriosa, hanno assolto una sola ma importante funzione delegittimando e demolendo i poteri fondati su prerogative ereditarie di ceto (le oligarchie “di sangue”). In una seconda fase l’offensiva populista ha invece contestato un diverso tipo di legittimazione, caratteristico delle società complesse e rispondente a logiche che Weber chiamò legal-razionali. Tali criteri non sono “ascrittivi”, cioè posseduti alla nascita, bensì discendono da competenze acquisite e da attitudini personali coltivate con successo. Nel caso dei vecchi populismi l’azione dei movimenti ha contribuito a gettare le fondamenta delle democrazie moderne. Nel secondo caso, al contrario, la delegittimazione dell’ordine legal-razionale ha potentemente concorso all’affermazione dei totalitarismi del Novecento. La narrazione neopopulista avrebbe però continuato a nutrirsi di umori regressivi anche in contesti di democrazia matura, come dimostra il caso esemplare e inquietante della presidenza Trump. Si parva licet componere magnis, appartengono a questa fenomenologia tanto “l’uno vale uno” dei cinquestelle prima maniera quanto l’investitura plebiscitaria reclamata da Salvini in versione Papeete.

Weber morì pochi anni prima che i totalitarismi pervenissero al potere nell’Europa fra le due guerre né poteva immaginare le insorgenze neopopulistiche dei primi anni Duemila. Adottando la sua chiave interpretativa si possono però individuare due fenomenologie opposte. I fascismi fra le due guerre, e anche regimi dispotici di diversa matrice ideologica, hanno usato per conservare il potere una gestione totalizzante e pervasiva del controllo sociale. Secondo alcuni studiosi ciò spiegherebbe, per inciso, perché nelle società della tarda modernità la loro durata storica sia stata inversamente proporzionale al potere coercitivo esercitato sulla società civile. L’esempio più atroce, il nazismo, ha governato appena dodici anni.

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I nuovi populismi, sviluppatisi in contingenze storico-sociali del tutto differenti e non ascrivibili alla tipologia dei totalitarismi novecenteschi, hanno invece in alcuni casi – come quello italiano contemporaneo – scalato il potere democraticamente e per via legal-razionale (il suffragio elettorale). Senza però mai riuscire a superare indenni l’esame di maturità costituito dall’esperienza del governo. Sempre, quando le granitiche certezze veicolate dagli slogan si sgretolano una dietro l’altra, torna a imporsi la dura logica delle competenze. Pur di conservare fette di potere, le leadership neopopuliste concedono allora una delega senza condizioni, persino acritica, ai deprecati “saperi esperti” paradigmaticamente impersonati nel nostro caso dalla figura di Mario Draghi. Una resa a discrezione imposta dalla mancanza di alternative che non siano il ripiegamento in forme di antagonismo minoritario o la fuga per la tangente dei più assortiti fondamentalismi. 

Se vogliamo comprendere sine ira ac studio la parabola dei (post)populisti sarà perciò opportuno combinare memoria storica e analisi sociale. Le insorgenze neopopuliste che hanno preso forma fra XX e XXI secolo anche in democrazie mature come l’Italia non possono essere ricondotte a letture pure “politicistiche”. Non vanno rimossi gli scenari sociali che fanno da sfondo alla vicenda. L’apparente eccezionalità italiana (l’ennesima… ) – con lo sfondamento elettorale dei cinquestelle alla fine della seconda decade del Duemila – non va forse collegata (anche) a processi sociali che hanno interessato l’Italia più di altri contesti nazionali e ben prima dell’irruzione della pandemia? Penso al progressivo declino della mobilità ascensionale e all’indebolimento sociale dei ceti medi, che rappresentano un’architrave della democrazia rappresentativa. Penso all’erosione continua del nostro potenziale economico: fatto pari a 100 il Pil in termini reali del 2000, a fine 2019 quello dell’Italia era a malapena giunto a 103,6 mentre l’insieme dei Paesi dell’area euro era cresciuto a 126,1. Penso ai ritardi accumulati mentre la rivoluzione digitale e l’intelligenza artificiale vanno trasformando in radice il sistema produttivo.

Il Covid si è dunque abbattuto su una società anagraficamente invecchiata e su un’economia priva di vitalità, lasciando a oggi sul terreno 97 mila vittime, 440 mila occupati in meno e un’ulteriore flessione di 9 punti di Pil. È un panorama sociale paragonabile a quello che segue una guerra perduta rovinosamente. Intanto si è venuto profilando un nuovo ordine mondiale cui ancora partecipiamo, da comprimari, solo grazie all’appartenenza europea. 

Occorre forse un nuovo Weber che sappia adeguatamente connettere il passo secolare dei ricorsi storici alle contingenze del presente, aiutandoci a comprendere. Altre grandi democrazie, come nel caso della presidenza Trump, hanno del resto subito la sfida populista. Un massiccio effetto di ritorno ha interessato anche oltreoceano una sinistra rassegnata a inseguire il consenso dei left behind, i dimenticati dalla globalizzazione, o di una classe operaia che non c’è più, se è vero che nel Paese leader dell’Occidente appena l’8% dei lavoratori attivi è occupato nella manifattura e meno dell’1% nell’agricoltura.

In attesa di iniettarci il vaccino che ci difenda dal covid, per immunizzarci da vecchi e nuovi populismi occorre affidarci ancora una volta all’umile e faticoso vaccino rappresentato dalla ragione critica. E magari da un po’ di buone letture e di corrette informazioni. 

NICOLA R. PORRO