SENZA PAROLE. Tanto humor per nulla.

 di FRANCESCO CORRENTI ♦

«Il 10 giugno del 1940 era una giornata nuvolosa». A dire la verità, io proprio non lo ricordo. Ma è l’incipit della raccolta di tre racconti di Italo Calvino, pubblicata nel 1954 dall’editore Einaudi, intitolata “L’entrata in guerra”. Perché il 10 giugno del 1940 fu il giorno dell’annuncio, dal balcone di Palazzo Venezia, dell’avvenuta dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Il giorno dell’entrata in guerra, appunto, quello delle «decisioni irrevocabili». E questo lo ricordo bene perché quelle parole le ho sentite varie volte, in seguito, anzi sono andato a risentirle ancora poco fa, digitando quella data e rivedendo quelle immagini agghiaccianti, riascoltando quella voce e quel frastuono delle acclamazioni e dei consensi. Proprio oggi, questo 8 di novembre del 2020, che abbiamo visto altre immagini, questa volta a colori e praticamente in tempo reale, di un personaggio molto simile, nella posa, nelle espressioni, nelle declamazioni – a parte i berretti diversi, ma sempre con la visiera! – ed abbiamo avuto la notizia, fortunatamente, della sua sconfitta elettorale (anche se lui annuncia una entrata in guerra giudiziaria di inaudita scorrettezza).

Quanto alle nuvole, penso che ci fossero a Sanremo, dov’era Calvino, mentre a Roma c’era il sole, come si vede dal film dell’Istituto Luce. Quel giorno, del tutto inconsapevole di quanto accadeva esattamente a 4.940 metri di distanza (misurata sulla mappa di Google), mi trovavo anche io a Roma, come tutti quelli di piazza Venezia, ma ero nella casa dei miei genitori, in terra etrusca (oltre Ponte Mollo), anch’essi altrettanto lontani da quella piazza, ma certamente in ascolto dal radiogrammofono Telefunken – oggi a casa di mio figlio – come milioni di altri italiani, tutt’altro che acclamanti e consenzienti, anzi molto preoccupati e consapevoli, per aver vissuto in pieno le angosce e gli orrori della prima guerra del ’15-18, da cui mio padre aveva riportato medaglie e ferite, le une e le altre dolorose e causa di cicatrici del cuore.

Avevo un anno, quattro mesi e otto giorni, non ne ho nessun ricordo, eppure sono certo che anche in quella circostanza, quando tutto lasciava presentire un futuro non sereno, mio padre avrà trovato una parola, una battuta o un gesto per rasserenare i famigliari con il suo ottimismo realistico e intelligente e il suo senso dell’umorismo debitamente autoironico.

Spero di averne ereditato un po’, insieme all’interesse profondo per l’arte, per la storia e per l’ambiente e insieme all’altro aspetto più rigoroso del suo sentire, cioè il senso del dovere, della coerenza, della correttezza, della giustizia e dell’onestà assoluta e veramente in tutti i sensi.

L’antologia dei disegni “senza parole” o con poche, pochissime parole, inizia con alcune vignette dei primi anni Sessanta e da alcune “osservazioni” psicologiche ambientate alla UPIM di via Nazionale, in una piazza di Gela (sosta veloce di un epico tour della Sicilia del ’62) e in alcune strade di Catania o di Paternò (gli schizzi fatti al volo con un Rapidograph – ho ancora qualcosa disegnato con il Flo-Master, l’antenato dei pennarelli – dovendo rimanere a lungo in auto, in attesa di qualche familiare accompagnato da Ragalna a sbrigare le sue commissioni in città, con i tanti tipi umani che potevo osservare, dalla salumiera che s’affaccia alla sua bottega alla signora della casa accanto che guarda i passanti, al sacerdote che esce impettito dalla canonica, alle comari “mantellate” (‘u scialle) com’era d’obbligo all’epoca. E poi la casalinga che fa pulizia davanti all’uscio, la giovane mamma in attesa, il vecchietto col bastone e ‘a burritta che va ad imbucare una lettera, le giovani amiche, gli strani motivi decorativi d’un abito di cretonne, ‘u caruso, garzone del fornaio (da noi il cascherino) fermo sulla bici a leggere i fumetti e quelli che invece leggono il giornale (“La Sicilia” o “Il Giornale di Sicilia”, senz’altro) seduti davanti casa o davanti allo studio notarile (quasi sempre al pianterreno) o ad una “putìa” di qualche artigiano o di generi alimentari, come la bottega di frutta e verdura, da cui provengono i due uomini  che hanno fatto la spesa secondo l’uso locale che per tale incombenza, allora, “lassava ’i fimmini a ‘a casa” (mi raccomando la pronuncia).

2020. FC Senza parole 1 - 1

Chiude la pagina un autoritratto schizzato sul primo pezzo di carta trovato durante o dopo un qualche sopralluogo ai cantieri di Tivoli (ero ancora un libero professionista), con il mio eskimo impermeabile grigioverde usato e malridotto, tipicamente sessantottino, comprato in via Sannio (sicuramente considerato da molti benpensanti inadatto alla mia funzione di capoufficio quando sono poi entrato al Comune di Civitavecchia) e scomparso anni dopo, lasciato alla fine d’una riunione in Capitaneria di Porto sulle baracche abusive della Frasca, dove l’avevo dimenticato e mai più ritrovato, per qualche tempo mi rimase l’imbottitura interna staccabile in pelliccia sintetica, poi anche quella scomparsa (da casa…) e mai più ritrovata, ma tanto non ci potevo mica andare in giro.

Su questa prima pagina, c’è da fare un’osservazione proprio “di costume”: benché già apparso da qualche anno in alcuni film famosi, nessuna delle persone rappresentate indossa quello che da lì a poco diverrà l’indumento universale e più diffuso, i pantaloni “blue jeans” o solo “jeans”, né porta qualcosa nel tessuto che servirà per giubbotti, giacche, gilet, berretti e cappelli, scarpe, borse e così via, mentre il pantalone si accorcerà, si abbasserà, si adatterà a forme più arrotondate e aderirà strettamente al contenuto (che tenderà a straripare), divenendo pantaloni corti, pantaloncini, short, hot pants, proprio indosso a quelle signorine e signore e poi semplicemente «ragazze» (di varia età), che in quei tempi, in quelle strade…, ma non se ne parlava proprio!

Nelle altre tavole, ho raccolto alcune immagini variamente autobiografiche o riferite ad episodi di quella vita di lavoro dipendente, le cui prime impressioni sono rappresentate nel disegnino del novembre 1970, quando con altri vincitori dei rispettivi concorsi, terminato il periodo di prova, eravamo nella condizione di essere assunti in servizio di ruolo, dopo aver prestato giuramento davanti al sindaco, in presenza di due testimoni, secondo la formula di rito: «Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi dello Stato, di adempiere ai doveri del mio ufficio nell’interesse dell’amministrazione per il pubblico bene». La mia scrivania (un’antica scrivania quasi di antiquariato, che mi piacque subito e che ho conservato sempre, in tutti gli spostamenti, anche perché mi dissero recuperata tra le macerie del Grand Hotel delle Terme ed era abbandonata in un ripostiglio perché nessuno l’aveva più voluta – ne ho poi capito il vero motivo – vecchiotta e poco manageriale come si presentava) è stracolma di pratiche, sommersa da faldoni, da libri di legislazione urbanistica e dei lavori pubblici, da rotoli di progetti, circondata da piani regolatori e da tutto il corredo burocratico del tempo, con le volute della allora immancabile sigaretta e, dalla porta aperta, dai continui ordini, inviti e moniti gerarchici riferiti dall’usciere di turno.

Ma il lavoro aveva anche i suoi momenti di riposo, benché abitualmente interrotti dal sopravvenire di qualcuno o di qualcosa (HELP!), ed intervallati da qualche vacanza, come un memorabile viaggio in una Grecia ancora intatta, reso per breve tempo “nauseante”, nel vero senso della parola, da certe onde troppo lunghe dopo un’imprudente colazione alla tavola del cortesissimo comandante.

La terza e la quarta tavola illustrano quello che fu un divertente progetto ed una forte delusione per la sua mancata attuazione. L’insediamento del nuovo deposito petrolifero nella zona industriale di PRG a Civitavecchia (i “bidoni” della SOI, Società Oleodotti Italiani), nel 1972, era ormai un fatto compiuto, non più evitabile, anche per l’azione fortemente propulsiva d’uno dei partiti di maggioranza (chiaramente citato nei disegni). A me giunse dal sindaco, con cui avevo condiviso, oltre al resto, la preoccupazione per l’aspetto visivo dei serbatoi, l’incarico di inventare qualcosa per attenuarne l’impatto ambientale, in un’epoca in cui le procedure di VIA erano ancora lontane dalla nostra immaginazione. Io avevo nella memoria l’impressione abbastanza positiva di alcuni depositi costieri visti a Genova, dove certe soluzioni pittoriche e coloristiche (tra le prime e ancora sperimentali), avevano mitigato l’impatto di quei massicci impianti retroportuali nel paesaggio.

E lì, lo spirito paterno (oltre tutto ancora fisicamente presente) mi suggerì inizialmente alcune soluzioni che avrebbero potuto essere pienamente realizzate, anche quelle più scherzose, se gli amministratori e i dirigenti della società, comunque sinceramente divertiti dai miei disegni introduttivi, avessero avuto il coraggio (o forse la libertà) di tradurle in pratica. La soluzione progettuale vera e propria, peraltro, era studiata per poter essere realizzata in vario modo. Mi ero posto l’obiettivo di rompere visivamente la compattezza della forma cilindrica di quegli enormi contenitori. Avevo alle spalle una esperienza approfondita sull’aggregazione di volumi cilindrici, svolta con il mio gruppo di studenti di architettura, il Gruppo A(Donatella Ciaffi, Simonetta Corongiu, Maria Grazia Martini, Paola Moretti ed io, con il gruppo parallelo di Roberto de Rubertis, Paolo Quarantelli, Luciano Sapora e Fabrizio Vescovo), nell’ambito del corso di Composizione architettonica I e II (al IV e V anno, 1964 e 1965) del professor Ludovico Quaroni, con assistente l’architetto fiorentino Roberto Maestro. Dalla mia “Tubolite” e dalle complesse ricerche metodologiche sui servizi urbani, eravamo approdati all’esame con il progetto “Settore Est del P.R.G. di Roma. Nuovo insediamento Centocelle”, approfondito a scala arredo e strutture anche per l’esame di Architettura degli Interni e di Tecnologia dei materiali e tecnica delle costruzioni (ci fruttò una bella serie di “Trenta/30”), per poi riproporre una rielaborazione di quelle tipologie edilizie al Concorso di selezione progettisti bandito dall’Istituto per lo Sviluppo dell’Edilizia Sociale/I.S.E.S. per il quartiere di Napoli-Secondigliano.

Il progetto prevedeva di realizzare, su un colore di fondo unitario, una serie di linee verticali nere a distanza variabile (ed abbastanza libera) e campiture nere con andamenti ondulati, così da simulare, rispettivamente, le generatrici di superfici concave e convesse e le ombre portate su di esse dagli elementi aggettanti, richiamando le forme barocche presenti nella storia della città ma rifacendosi contemporaneamente alle suggestioni dell’Optical Art, campo per me di forte interesse dopo la mostra “The Responsive Eyes” del 1965 al MoMA di New York. Quegli accorgimenti ottici e la studiata variazione del colore di fondo avrebbero conferito al deprimente aspetto del deposito un valore ambientale “stravolgente”, inserendo nel paesaggio ormai svilito dell’antica tenuta del Sugareto elementi cromatici artificiali di forte impatto visivo. Ma non se ne fece nulla.

Per il resto, questa “antologia” di schizzi, senza alcuna pretesa, ricorda i vari stati d’animo di anni lontani e vicini: qualche polemica verso l’ente elettrico, un po’ troppo invad/ente, alcune traduzioni grafiche di battute supposte spiritose, qualche foto strana o ritoccata, caricature di personaggi anche altissimi (al riparo del “Je suis Charlie”), riflessioni esistenziali, la presa in giro degli amici archeologi franco-spagnoli della Castellina del Marangone (ho deformato in modo oltraggioso il nasino un po’ troppo “parisien” del coccetto dipinto riprodotto sulla copertina del poderoso volume da 600 euro). E il ricordo di molti convegni, riunioni, commissioni, comprese alcune scene tribunalizie, secondo l’uso USA del “courtroom sketch artist”, viste con il privilegio di sedere sul banco dei testimoni e in diverse occasioni, come pare sia d’obbligo facendo il mestiere che ho fatto, su quello dell’imputato (costantemente assolto).

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