SI FA PRESTO A DIRE GIALLO… 3. dalla parte del lettore
di SIMONETTA BISI e NICOLA R. PORRO ♦
Se volessimo tirare le fila dei nostri precedenti articoli, dovremmo constatare come sia impossibile imbrigliare le tante narrazioni e i tanti autori in gabbie tematiche, perché non è la tipologia criminale e investigativa che può definirne il nome. L’etichetta, infatti, può essere utile per indirizzare il lettore ma non per “rendere merito” agli autori. Abbondano, soprattutto sul web, piccoli manuali per la composizione del giallo perfetto (nientemeno!) o addirittura ben congegnate mappe concettuali che dovrebbero facilitare il compito dell’aspirante autore. Eppure la costruzione di tipologie, la definizione di casistiche, gli esempi estrapolati da una letteratura sterminata ci sembra lascino una sensazione di artificiosità senza neppure soddisfare, al di là delle raccomandazioni più banali – mettete sin dal principio il colpevole fra i personaggi in vista, curate la trama nei dettagli, ideate una soluzione logicamente deducibile (ma pensa un po’!), univoca e imprevedibile –, qualche curiosità meno scontata da parte dell’aspirante giallista.
Forse, ci ripetiamo intenzionalmente, il problema sta nel manico: la fissazione per il genere e la conseguente illusione che un racconto possa essere confezionato combinando ingredienti, strumenti e tempi di lavoro come si trattasse di preparare un soufflé di spinaci o una torta margherita. E chissà che presto non ci forniscano un ben elaborato algoritmo! Pensiamo invece a Gadda, un patito della cronaca nera: possiamo davvero comprimere in quello che adesso chiamiamo il format del “Giallo” l’indagine dell’ispettore Ciccio Ingravallo? Nel suo romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana c’è tutto della vita: cupidigia e onestà, odio e amore, male e bene. Tutto, tranne un canone da rispettare. E ancora: è davvero possibile affibbiare una “etichetta” alla storia del giovane studente Raskol’nikov e del Giudice ispettore Porfirij Petrovič che ne faciliterà la confessione, come la vicenda ci viene narrata in Delitto e castigo di Dostoevskij?
Lasciando da parte i grandi autori per i quali ogni storia trascende quella che si chiama “la trama”, torniamo umilmente a noi. Nella pluralità disomogenea degli scrittori, quale emergeva nei due precedenti articoli, dobbiamo riconoscere come stile e capacità narrativa non siano sempre a pari livello. Molto spesso è lo stesso scrittore a non pretendere tanto. Nemmeno però può prescindere, pena il fallimento, dal sapiente uso dell’unico ingrediente necessario: il “male”.
Pur nella estrema variabilità di contenuti, personaggi, visioni del “male” e ambientazioni, esistono tuttavia alcuni elementi fondamentali che il più delle volte funzionano da traino verso la scelta di alcuni libri. Soprattutto di quelli dove il mistero costituisce il cuore pulsante del racconto nel procedere riga per riga, pagina per pagina, spesso inducendo alla fretta di giungere alla scoperta, allo “svelamento” dell’epilogo della storia. Non pochi lettori ammettono di avere spesso sorvolato su molte pagine per arrivare al finale, presi dalla smania di conoscere il colpevole o il movente del fatto criminoso. Spesso, però, sono successivamente tornati indietro per gustare come meritava il lavoro dello scrittore. Potremmo allora, con un pizzico di ironia, consigliare agli autori di dosare la suspense senza sacrificare qualche pagina dedicata a descrivere l’ambiente in cui il fatto si svolge. Non dobbiamo, insomma, ridurre al “caso delittuoso” la narrazione. Ci sono Storie che danno da pensare, per dirla con Robert Walser. L’oggetto di osservazione può apparire in una prospettiva più ampia, acquistare una luce diversa, trasportarci nella vita di una società, sia essa reale oppure un parto dell’immaginazione. Per questa via si partecipa emotivamente al duro destino dei personaggi così come alle passioni che sconvolgono assassini e vittime.
E poi c’è la natura, lo scenario che fa da cornice e in cui si svolgono i fatti. Una natura che appartiene a quel racconto, a quei personaggi, a quell’ambientazione. Forse un elemento forte dei gialli nordici – basti ricordare il gelido inverno di Fjällbacka, la cittadina svedese dove Camilla Läckberg è nata e dove ambienta le sue storie – consiste proprio in una sorta di relazione fusionale dei protagonisti con una natura ostile e insieme attraente. E come scindere le trame di Camilleri dagli scenari mediterranei della sua Sicilia che fanno da sfondo alle indagini del commissario Montalbano o le avventure del vicequestore Schiavone dalle alpi valdostane cui l’ha suo malgrado consegnato Antonio Manzini? E, al contrario, si può davvero godere un’indagine del commissario Charitos espungendola dalle piazze affollate e dai coloriti vicoli della congestionatissima Atene di Petros Markaris?
Ci sono chiari motivi del successo di queste “fiabe per adulti” che impattano sull’immaginario, invitano il lettore alla sfida per trovare la soluzione come in un gioco enigmistico, lo coinvolgono, lo avvincono e così – alla stregua di un mantra – lo aiutano ad esorcizzare ansia e angoscia. Lo conferma il balzo negli acquisti che ha conosciuto la giallistica nelle settimane del lockdown.
Dobbiamo dedurne che leggere un libro centrato su un delitto sia paradossalmente rassicurante? Viviamo del resto in un’epoca dominata dalla complessità, dove nulla sembra possedere un’origine evidente ma ogni vicenda si intreccia con altre in una matassa difficile da dipanare, in una molteplicità di fattori che neanche gli algoritmi più sofisticati riescono a leggere, e nella quale noi umani galleggiamo cercando di dare un senso agli accadimenti, e di far fronte a situazioni quotidiane di difficoltà.
Nei libri che ci piacerebbe definire con un termine onnicomprensivo “avvincenti”, tuttavia, le cose non funzionano sempre così. Anche le storie più ingarbugliate e sovraccariche di fatti e persone, qualunque sia l’ambiente, l’epoca, il luogo della narrazione, reali o verosimili che siano, arrivano a un finale in cui tutto si svela e – soprattutto – si trova la spiegazione, quasi sempre riavvolgendo il nastro della vicenda sin lì dipanata e scoprendone una logica sottesa e inattesa. Il puzzle degli eventi si ricompone in un ordine chiaro e… chiudiamo il libro contenti. Almeno questo dovrebbe succedere se lo scrittore è stato all’altezza del compito.
Un altro elemento che distingue la fortuna di alcuni scrittori è la capacità di creare tipi umani fissati per sempre in ritratti irreversibili. La galleria è sconfinata, dagli archetipi di Hercule Poirot e di Miss Marple, tracciati da Agatha Christie, al Montalbano partorito dalla fantasia di Camilleri o al Wallander di Henning Mankell. È in questa ottica che prende forma la figura del lettore seriale, affezionato al personaggio di cui conosce dettagliatamente vizi e virtù, fissazioni e paure, delusioni e amori. Come avviene per le serie televisive di successo, non si perdono l’uscita dell’ultimo Ricciardi, valga come esempio per tutti gli altri.
Un altro personaggio molto importante è la vittima perché sarà lui (o lei) il motore di tutta la storia. Spesso la vittima è una “lei”: troviamo molte donne uccise, soprattutto nella giallistica scandinava, e anche in questo caso la varietà è garantita. Lo scrittore deve soddisfare molte domande: chi è, qual è il suo passato e il suo presente, dove come e quando è stata uccisa, per mano di chi. Ed essere credibile. A risolvere il caso è sempre più spesso una investigatrice. Miss Marple ha aperto la strada a figure come, qualche decennio più tardi, la Kay Scarpetta di Patricia Cornwell, la Lisberth Salander di Stieg Larsson o la Petra Delicado di Alìcia Gimenèz-Bartlètt. La figura femminile ha nelle opere contemporanee un ruolo egemone riconosciuto. Non è più la signora in giallo che ha bisogno dell’ispettore per arrestare il o la colpevole, non è l’aiutante, non ha un ruolo gregario. È lei che conduce l’indagine, risolve i casi anche se ha famiglia o un amante. Anche la giallistica italiana – di un Paese non certo all’avanguardia quanto a parità di genere, se solo nel 1999, con la legge 380, si aprirono alle donne le porte di attività professionali pubbliche, comprese le Forze armate – ha negli ultimi due decenni recuperato posizioni dando vita a figure inedite (la Giorgia Cantini di Grazia Verasani, l’investigatrice Vergani di Elisabetta Bucciarelli) talvolta approdate agli onori della prima serata televisiva, come la viceprocuratrice Imma Tataranni o la commissaria Fusco dei delitti del BarLume.
Dal punto di vista della narrazione crediamo si possa qualificarla come no-gender. Non ci sembra che il genere di chi scrive influenzi in modo significativo la scelta della trama o l’approccio all’indagine del/la protagonista. Ciò segnala però anche una particolare vigilanza degli scrittori per evitare la caduta nello stereotipo, insidiosa quanto frequente nel genere poliziesco. La “penna dello scrittore”, come si diceva una volta, deve sapere miscelare tutti questi elementi con sapienza e scrittura agile, deve suscitare incanto e orrore, e portare il lettore ad affezionarsi a quel libro per le sensazioni che gli trasmette. Senza presunzione precettistica o intenti moralistici, le storie di crime fiction possono assolvere d’altronde la funzione di parabole del nostro tempo. Pongono domande a noi stessi e alle nostre comunità: chi siamo? Come facciamo il male e come rendiamo giustizia? Come vanno le cose e come dovrebbero essere? La storia immaginata non ha l’onere delle risposte, ma pensiamo non sia fuori luogo attendersi almeno quella responsabilità etica che si assegna a tutte le forme di comunicazione e di intrattenimento di massa. Non è infatti casuale che i protagonisti dei maggiori cicli narrativi siano in grande maggioranza figure positive.
SIMONETTA BISI e NICOLA R. PORRO
Interessante e molto esauriente.
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Avvincente
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