L’ insegna della fenice – Vita di Terenzio Collemodi
Intervista a Giovanni Insolera a cura di CLAUDIO GALIANI ♦
“L’ insegna della fenice – Vita di Terenzio Collemodi “ di Giovanni Insolera è una biografia dedicata a un personaggio che può apparire minore nella storia di Civitavecchia. Scorrendo il testo, emerge invece a tutto tondo una figura di assoluto interesse, che attraversa la storia cittadina per tutta la prima metà del Seicento con un ruolo di primo piano. L’autore ci offre un ritratto vivo del protagonista, ce lo mostra mentre si muove in una città in piena trasformazione. Con scrittura raffinata, Insolera fornisce una rappresentazione cruda di quel periodo, dei personaggi che popolano la scena, le ambizioni, i conflitti di interesse, gli intrighi per il potere e la ricchezza. In quest’opera Insolera mette a frutto la lunga esperienza maturata nel campo storico e archivistico. Gli va dato il merito di averlo sempre fatto al servizio delle Istituzioni, ieri il Comune, oggi la Diocesi, spinto dall’idea che la conoscenza è un bene comune da scoprire e diffondere.
Giovanni, voglio partire da un dettaglio che impreziosisce la copertina del libro. La rara riproduzione di una mappa d’epoca di Civitavecchia.
Si tratta della pianta di Civitavecchia disegnata alla carta 47 del portolano di Obizzo Guidotti, luogotenente della flotta pontifica nei primi decenni del ‘600. Il manoscritto è conservato nel Fondo Colonna in deposito presso la Biblioteca di Santa Scolastica a Subiaco.
Per questa tua ultima opera hai scelto la forma biografica. C’è una ragione particolare?
Al di là di una mia privata predilezione per il genere biografico, è stata la qualità dei documenti a spingermi in questa direzione. I numerosi atti dell’archivio notarile di Civitavecchia e degli altri archivi consultati hanno composto, direi naturalmente, il racconto della vita del Capitano Collemodi. E io mi sono lasciato un po’ andare, confidando che il campo della Storia fosse comunque ben difeso dai tanti, e valorosi, studiosi cittadini.
Come è nato il tuo interesse per Terenzio Collemodi?
Sul finire degli anni ’90, mentre ero impegnato nella ricostituzione dell’Archivio storico comunale, mi sono imbattuto nelle due versioni del testamento del protagonista e nelle vicende della costruzione della chiesa di S. Giovanni, che ne costituiva il lascito principale. Quindici anni dopo, mentre mi occupavo dei finanziamenti e dei permessi necessari al restauro della chiesa, sono dovuto tornare sull’argomento e ho sentito il bisogno di raccontare la vita avventurosa del testatore.
Dal racconto emerge un personaggio vivo, sanguigno e poliedrico. Qual è il tratto che lo caratterizza maggiormente?
Per usare le parole stesse di Terenzio, direi «la fatiga, e diligenza» dispiegate nel corso della sua lunghissima vita per costruire la propria affermazione. La sua capacità di conquistare il successo giocando tra pubblico e privato. L’intuito e la scaltrezza dell’imprenditore.
Nella presentazione di copertina se ne parla come di un padre fondatore della “piccola Terra di Civitavecchia”. In che senso?
Può sembrare un’affermazione forte, riferita a una persona che proveniva da un’altra regione. Quando Terenzio Collemodi dalla Calabria giunse nella nostra città – siamo negli ultimi anni del ‘500 – il borgo racchiuso dalle mura medievali era una realtà molto modesta. Il giovane cilentano iniziò presto un’irresistibile ascesa e si affermò come il punto di riferimento più fidato della Camera Apostolica, la vera detentrice del potere. Era il tempo dei cospicui investimenti sul porto e sulla “piazza” dei papi Borghese, Barberini e Pamphilj. Disimpegnando con notevole capacità i vari incarichi pubblici assegnatigli, unendo a questo la sua personale intraprendenza economica, Terenzio contribuì in modo sostanziale al progresso di Civitavecchia.
A un certo punto della ricerca, la carriera di Terenzio mi è sembrata la spia (talvolta addirittura il propellente) del progresso della Terra di Civitavecchia.
Come se ne avesse sentore, il Capitano si fece promotore del culto patronale di santa Fermina, sul quale si fondò la comunità civitavecchiese: ottenne le reliquie e costruì la cappella della santa, che era anche la sua cappella familiare.
L’insegna della fenice. Perché questo titolo?
L’ho preso in prestito dal nome della spezieria che Terenzio acquistò all’inizio del ‘600: quasi un nome comune per quel tipo di attività commerciale. Ho pensato che si adattasse bene ad esprimere la capacità di rinascere sotto nuove forme che più volte Terenzio manifesta nei sessant’anni che trascorse nella nostra città.
La narrazione si avvia e si conclude con quello che si può definire “il giallo del doppio testamento”. Senza entrare nei dettagli, può essere quello il filo conduttore del racconto?
Del lungo filo della vita di Terenzio, direi che ne sia il capo. O meglio: la cappiola.
Mi sembra che con questo lavoro ti rivolgi a un pubblico vasto, di non specialisti. C’è una tensione drammatica, una ricostruzione psicologica dei personaggi, che li avvicina al lettore. Si ha l’impressione di seguire gli avvenimenti da una finestra della prima strada.
E’ la prospettiva offerta dal lavoro su questo tipo di documenti, che entrano, talvolta profondamente, nella dimensione privata dei personaggi.
Dentro un quadro storico ben preciso, affiora nel racconto un tema più generale, di grande attualità: quello del potere, nelle varie forme e articolazioni.
Tutta la vita “professionale” di Terenzio Collemodi si è giocata nella costruzione di relazioni, anche personali, con i grandi personaggi del potere romano. Sono rimasto più volte sconcertato e ammirato dalla straordinaria capacità di intessere quei rapporti. Basti pensare che nel progetto per la costruzione della sua piccola chiesa, Terenzio fu capace di coinvolgere Virgilio Spada, il grande protettore del Borromini, nonché la suprema autorità nell’urbanistica di Roma.
Dalla descrizione della sua vita, dei suoi legami familiari, delle sue attività, si forma un punto di vista interessante sui rapporti sociali della città in quel periodo storico. In fin dei conti, cosa possiamo dire della Civitavecchia in cui si muove Collemodi?
Mi ha colpito “la piccola babele” che si raccoglieva nella Terra di Civitavecchia, la diversa provenienza geografica dei personaggi richiamati dalla mole degli investimenti che riguardavano il porto e la città. I meccanismi di formazione e di inclusione dell’élite cittadina, la città parallela dei condannati al remo, la funzione aggregante dei domenicani che gestivano l’unica parrocchia cittadina.
C’è qualcosa, di quella storia, che può aiutarci a capire meglio i caratteri della città di oggi?
Nello scontato rapporto di dipendenza dal porto e dal potere romano, questa storia suggerisce il tema della difficile costruzione dell’identità culturale della nostra città, iniziata al tempo di Terenzio e annientata dai bombardamenti del ’43, che si abbatterono sullo stesso sepolcro di Terenzio. Rimane, sotto nuove forme, la babele dei decenni iniziali del ‘600. Ma anche l’esempio d’intraprendenza che ci proviene da questa biografia.
Il tuo lavoro è il risultato di un’ accurata ricerca, che ha portato alla luce una notevole documentazione in buona parte inedita. Questo alimenta la nostra speranza di illuminare aspetti ancora oscuri della storia del nostro territorio?
Fortunatamente esistono ancora molti campi da arare, molte storie apparentemente “minime” da ricostruire partendo dai documenti della vita quotidiana. Per questo bisogna frequentare gli archivi.
CLAUDIO GALIANI
Ho comprato il libro di Giovanni alla Libreria Dettagli la mattina di mercoledì 30 settembre, subito dopo l’incontro avuto con lui in cattedrale per certi nostri traffici storico-architettonici (e la nostra nostalgia per Santa Maria ed i padri domenicani), insieme al parroco don Cono Firringa.
Ho iniziato la lettura del libro quasi immediatamente, ma non ho potuto portarla avanti in modo molto veloce e frequente, per cui ho proceduto un po’ alla volta e sono arrivato alla fine solamente ieri lunedì 19 ottobre. Quindi ho impiegato esattamente 19 giorni a leggere le 173 pagine più le 12 di note sulle fonti, in corpo 10, che l’editore ha trasferito nel suo sito web, e che dimostrano la profondità e l’acume delle ricerche. Durante questi giorni, dato che ci siamo sentiti spesso, ho informato Giovanni del piacere e delle sorprese che il suo libro andava suscitando in me, da diversi punti di vista e per vari motivi.
Questa volta, contrariamente a quanto avvenuto con la lettura del suo primo libro, quello su “Iscrizioni e stemmi pontifici nella storia di Civitavecchia” che mi aveva portato Alfio, suo fratello, e che poi ebbi modo di commentare alla presentazione in Comune, non ho potuto leggerlo tutto d’un fiato, fino a notte, come ho fatto quella volta.
Ma l’interesse di ogni pagina, si può dire che è stato lo stesso, accresciuto da tutto quello che nel corso degli anni, dal 1984 ad oggi è avvenuto nel frattempo e di tutto quello che ci siamo detti e abbiamo fatto, anche in relazione all’evolversi della città. Completamente cambiata, dai tempi di Terenzio Collemodi, ed in parte anche da quelli più vicini della fine del secolo scorso. Ma con una costante: la presenza di personaggi sempre sostanzialmente simili nel corso del tempo, come si conviene ad un porto di mare ed ai suoi rapporti con Roma. Un libro, una ricerca, anche una creazione letteraria, di assoluto interesse e di sorprendente fascino, dissacrante per la figura tradizionale del protagonista, ben al di là delle allusioni di padre Labat alle sospette origini del testamento. Da leggera, da discutere, da far conoscere.
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Un racconto, una scoperta che sembra un romanzo, che conferma la scelta di campo di Giovanni nella meticolosa ricerca delle fonti e nel porgerle con leggerezza al lettore. Un nuovo tassello sconosciuto che contribuisce a farci capire chi siamo e da dove veniamo. Letto e, potrei dire quasi divorato, per l’interesse crescente di pagina in pagina.
Silvio Serangeli
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