SAHAR KHODAYARI

di STEFANO CERVARELLI ♦

Ultimamente ho soffermato un po’ l’attenzione sulla situazione sportiva nei Paesi del Golfo e sul rapporto esistente tra questa e la società e di come viene vista – ed usata – da chi è predisposto alla guida di quelle nazioni, che vede nello sport la capacità e la potenzialità per darsi una parvenza di democrazia agli occhi del mondo.

Oggi, proprio per dare un’idea dello” sviluppo”(?) di questa democrazia, voglio raccontare la storia, risoltasi tragicamente, della conquista da parte delle donne iraniane della possibilità di entrare nello stadio; e se dico possibilità e non libertà, non è certo a caso in quanto trattasi di un diritto non concesso pienamente e che, per realizzarsi, purtroppo, ha dovuto pagare un altissimo prezzo: il suicidio di una ragazza. E questo la dice molto lunga su come un semplice atto – assistere ad una partita di calcio – al quale noi non diamo nessuna importanza, rappresenti per certe popolazioni una grande conquista significando un atto di raggiunta libertà.

Ma andiamo con ordine.

Giovedì 10 ottobre 2019 è stata una data storica per le donne iraniane: per la prima volta, dopo quasi 40 anni, viene loro riconosciuta, di fatto, la possibilità di entrare allo stadio Azadi di Teheran per assistere a un incontro di calcio, ma l’accesso non è per tutte quelle che lo vogliono in quanto i biglietti a loro disposizione sono solo 4.000: dunque partecipazione sì, ma non certo libera.

Le fortunate che riescono ad entrare in possesso del biglietto lo sventolano felici, come avessero conquistato un importante lasciapassare.  E forse lo è.

Dunque, come dicevo prima ingresso sì, ma controllato e limitato; le altre dovranno accontentarsi di vedere l’incontro attraverso gli schermi (per la cronaca si trattava della qualificazione per i mondiale Iran-Cambogia dall’esito scontatissimo, tanto che i padroni di casa hanno vinto 14-0). Senza dubbio era un’altra la partita a tenere in ansia l’opinione pubblica internazionale: quella riguardante chi e come poteva sedersi sulle tribune e come l’evento sarebbe stato accolto.

Era dal 1981 che le donne non potevano farlo. Una regola scritta da nessuna parte, ma codificata di fatto

dalla rigidità in materia di separazione tra i sessi e dall’osservanza di una morale che non veniva capita dalle nuove generazioni.” Ma come- si diceva- possiamo stare insieme nei vari luoghi pubblici, bar, cinema, ristoranti e non allo stadio?”

L’agenzia di stampa (governativa) FARS, rispondeva che era necessario” difendere” le donne iraniane dal linguaggio volgare dei tifosi, dall’uso di droghe e dalla violenza alle quali sarebbero state esposte, per non dire poi della vista delle gambe nude dei calciatori!

Nel Paese, frattempo, si era andato formando un movimento per l’accesso alle partite le cui componenti non mancavano di far sentire la loro voce, presentandosi anche all’ingresso dello stadio Azadi con cartelli sui quali era scritto di permettere l’ingresso” all’altra metà della società”.

Alcune, tra le più audaci, arrivarono a vestirsi da uomini con tanto di barbe finte, baffi e capelli corti, pur di riuscire ad intrufolarsi.

Nel 2006 il regista Jafar Panahi dedicò loro un film” Offside”, con il quale vinse l’Orso d’oro a Berlino.

Anche il Presidente ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad si schierò con loro sostenendo che” le donne avrebbero senz’altro contribuito a portare nello stadio buone maniere ed un clima positivo”.

A questo progetto si oppose fermamente la guida superna del paese Alì Khamenei.

Nel 2013 il movimento, che nel frattempo aveva preso il nome Open Stadium, prese l’iniziativa di rivolgersi con una lettera alla Fifa, alle società di calcio ed alle organizzazioni per i diritti umani, chiedendo di esercitare pressione su Teheran.

Due anni fa accadde che l’Arabia Saudita, grande nemico dell’Iran, annunciò, sorprendentemente, l’apertura degli stadi alle donne. Le iraniane, a quel punto, sperarono, vista anche la feroce rivalità tra i due Paesi, che questa iniziativa potesse in qualche modo servire alla loro causa ed invece…dal gennaio 2018 a fine 2019 Amnesty International ha contato 40 iraniane arrestate per aver tentato di entrare allo stadio.

Sperando di far passare in sordina quanto successo e con l’intento di darsi una “pennellata” di democrazia a un numero limitato di donne fu poi concesso di assistere alla finale di Champion League dell’Asia.

Ma quella che sembrava essere la vera svolta – ma che poi ancora non è rivelata come tale – arrivò solo a settembre dell’anno scorso, quando, purtroppo una ragazza di 29 anni, Sahar Khodayari, si suicidò, dandosi fuoco davanti al tribunale.

Era stata condannata a sei mesi di carcere per essere entrata allo stadio vestita da uomo.

Il 2 settembre si è data fuoco, il 9 settembre è morta.

Solo allora la Fifa per mezzo del suo Presidente Gianni Infantino ha creduto che fosse “giunto il momento d’intervenire seriamente” ed ha minacciato la squalifica dell’Iran se non avesse permesso l’ingresso delle donne allo stadio.

Davanti alla morte atroce di una ragazza di 29 anni, solo una minaccia….

Quel 10 Ottobre Sahar – “la ragazza blu” come è stata soprannominata dal colore della maglia della sua squadra del cuore Esteghlal   era presente, con le altre 4.000 allo stadio; per lei cori e cartelli e tanta commozione; il tutto sotto l’occhio severo e vigile delle guardiane in chador, cosa che non ha impedito, al termine della gara, al capitano della Nazionale di andare a ringraziare le tifose. Cosa per la quale gli sono stati tolti i “ gradi “ di capitano.

Ovviamente non si trattava solo di una questione sportiva riconducibile al problema dell’ingresso del pubblico femminile allo stadio.

La paura maggiore dei vertici della Repubblica Islamica era rappresentata dal fatto che cedendo sugli stadi, avrebbero dovuto, in seguito, affrontare ulteriori richieste delle donne.

Per tornare allo stadio Azadi di Teheran c’è da dire che alle tifose senza biglietto, rimate fuori dallo stadio, venne intimato di tornarsene casa mentre all’interno le sbarre separavano implacabilmente le tribune femminili da quelle maschili.

A dispetto poi delle minacce della Fifa non è stata data nessuna garanzia che in un prossimo futuro le iraniane potranno assistere alle partite -tranne, sembrerebbe, per quelle internazionali e sempre con posti limitati(da qui l’asserzione di svolta incompleta). Praticamente quella del 10 ottobre appare sempre più una “concessione” speciale data evidentemente in risposta proprio alle minacce della federazione internazionale e che ancora non si è capito se avrà un seguito; ma a questo punto una supposizione mi viene in mente.

Non sarà che, essendo la partita praticamente di nessuna importanza e perciò prevedendo un afflusso maschile alquanto scarso, le autorità iraniane abbiano voluto cogliere l’occasione per farsi” belle” permettendo l’ingresso alle donne? In effetti a quell’incontro di maschi ce ne erano pochini….

Amnesty l’ha definita”” cinica mossa pubblicitaria, per rifarsi un’immagine “.

 Concludo con quanto detto da Mayam Shojaei, sorella dell’ex capitano della Nazionale iraniana al New York Times:” Mia madre, che andava sempre a vedere le partite, non ha mai potuto veder giocare suo figlio.  Solo quando tutte le donne verranno ammesse allo stadio, solo allora lo stadio Azadi meriterà il suo nome che vuol dire, Libertà.” Il fratello ha aggiunto che quel giorno lo stadio potrebbe anche cambiare nome e chiamarsi Sahar.

STEFANO CERVARELLI