ITINERARI, 1^ STATIO. ETIMI ETICI

di FRANCESCO CORRENTI ♦

Allumiere. Il paesello delle cave, contrariamente a quanto si crede, non deriva il suo nome da quello del minerale – l’allume – che vi veniva estratto. Al contrario è il minerale che ha preso nome dal luogo. Infatti, il toponimo della località viene da quella pianta che vi era intensamente coltivata, quando i navigatori siracusani approdavano sulla costa vicina per i loro traffici marittimi e vi posero una base alla foce del Marangone. Questi navigatori non erano e non parlavano greco (lingua complicata) ma sicano. Il loro prodotto, intendo dire quello della pesca, era naturalmente il pescato e non era pensabile che il pesce venisse consumato senza abbondante limone. Il limone, è ben noto, si chiamava in sicano lumìa e le piantagioni di lumìa si chiamavano lumère o lumière (si pensi alla notissima città di Roccalumera). Le lumìe dei monti della Tolfa divennero una specialità ricercata in tutto il Mediterraneo, la domanda era altissima e richiedeva molti lavoratori: nacque così una città accanto alle piantagioni per accogliere gli addetti alla coltivazione e raccolta e questa prese il nome di Lumiere. Naturalmente, per le altre popolazioni, il vocabolo evocava un oggetto luminoso, qualcosa per fare luce, insomma un “lume”, anche perché i frutti gialli sembravano effettivamente delle lampadine accese. È il motivo per cui uno dei principali porti di transhipment della merce, da dove veniva smistata in tutta Europa, prese il nome appropriato di Lampedusa. Il borgo collinare, però, con il tempo, cambiò nome e divenne “Allumiere”, quando, passati molti secoli, quella coltivazione originaria scomparve e quindi il luogo non ebbe più piante di limoni. Per rendere chiara la cosa e precisare il fatto che era inutile continuare a chiedere lì quei frutti del passato, quindi, davanti alla parola, al nome della città, fu posta una “alfa privativa”: a-lumière, ossia “posto senza limoni”. E così si arrivò alla seconda metà del Quattrocento. Quando fu detto a Pio II Piccolomini che sui monti del Patrimonio di San Pietro si era trovato un minerale come quello che si estraeva in Turchia (ossia quella regione dell’Asia Minore conquistata da poco dai Turchi), e che a quel tempo era chiamato appunto con nomi turchi impronunciabili, volle invece che fosse commercializzato con il nome della località dello Stato Pontificio.
Un’altra annotazione da fare riguarda la proprietà dell’attività estrattiva e di lavorazione in forni del prodotto in quel borgo che fu un vero e proprio quartiere operaio di un complesso minerario e industriale ante litteram. Dallo scopritore e primo imprenditore Giovanni da Castro l’attività passò ad Agostino Chigi, poi direttamente alla Camera Apostolica, quindi ad una società francese e, infine, alla Montecatini, con la quale terminò. Una propaggine collaterale fu l’apertura dello stabilimento della SPCN / Società Prodotti Chimici Napoli nel 1930 con la città giardino Aurelia, dove fabbrica, abitazioni operaie (oltre che per impiegati e dirigenti) e prodotti dell’allume tornano a unirsi al nome dei Piccolomini con la progettista Anna, moglie di Silvio, ultimo discendente di Pio II. Forse per il suono del toponimo, per quel breve periodo della proprietà francese o per l’assonanza con reminiscenze parigine (la Ville Lumière) e cinematografiche (les frères Lumière), molte persone pronunciavano e pronunciano il nome di questo paese come se fosse francese: «Lumiè» o «Lumiè(r)», con un leggero arrotolamento “moscio” della consonante finale.

Ancora più strana è l’origine del nome medievale dell’antica Tarquinia, che – come ben sappiano – noi diciamo Corneto, ma invece era Cornetto o Corgnetto, Cornetus o Corgnitus nel latino del tempo. Quel nome derivava dal fatto che in quella città sulla costa tirrenica erano presenti le principali ditte di panificazione industriale dell’epoca. Queste vi fabbricavano un tipo di pane particolare, ottenuto dalla farina macinata alle famose Mole del Mignone, alla quale si aggiungeva, nell’impasto, il prodotto delle, altrettanto famose, Saline. Per poterli conservare durante la navigazione, questi pani erano realizzati e confezionati con metodi particolari. L’impasto salato era posto sul piano di lavorazione in pezzi allungati, che poi venivano arrotondati con il palmo delle mani e appuntiti alle due estremità, cosicché prendevano una forma affusolata. Per commercializzarlo e quindi spedirlo, il prodotto veniva quindi disposto dentro scatolette rotonde, di latta come quelle del tonno o di cartone come quelle dei formaggi (tipo Formaggino Mio degli anni 50 o il Camembert), per cui si doveva dare al filoncino di pane la forma di una mezzaluna ed ecco così il crescente o croissant, alla francese, secondo alcuni originata da una tradizione che risaliva agli insediamenti abusivi saraceni del IX secolo, quei campi nomadi che i pirati nordafricani impiantavano come base delle loro scorrerie alla ricerca di grondaie in rame o altro materiale riciclabile. Il passaggio successivo avvenne quando la produzione delle Saline, ai primi del ’700, ebbe un fortissimo calo. Era presente allora a Civitavecchia il frate-architetto francese Jean-Baptiste Labat, che – come è noto – aveva aperto nel convento domenicano di Santa Maria una attività di produzione di zucchero di canna e di un certo liquore, alla quale provvedevano gli schiavi turchi (molti rom) della vicina darsena, che poi la vendevano nel piccolo ma suggestivo souk sotto la Rocca. Fu appunto lui che suggerì di sostituire il sale con lo zucchero di sua produzione e al tempo stesso di destinare una parte di quei cornetti ad un altro tipo di specialità, ossia il “Labat”, come fu detto in origine. Erano infatti cornetti inscatolati e fatti lievitare senza coperchio, cui veniva aggiunta una buona quantità di quel liquore, che fu chiamato appunto rom, nome poi deformato in rum. Quel dolce alcolico ebbe grande successo presso i pescatori pozzolani e gaetani che venivano a pescare lì ed il nome di Labat, in bocca a loro, divenne pian piano Labbà, Babbà, Babà. Che fu esportato così nel Regno di Napoli. Ma a Civitavecchia si ebbe una ulteriore evoluzione. Cessarono, con la partenza del padre Labat, le importazioni di quel tipo di canna, sostituito da altri. Per la produzione del liquore da aggiungere al loro impasto, i molinari del Mignone si rivolsero all’assentista delle galere, della nota famiglia Manzi, che fornì altre spezie e suggerì di dare al prodotto il nome di San Luca, uno dei quattro Evangelisti, molto opportuno nel paese delle processioni. Una labializzazione della denominazione ha poi portato al termine San Buca che oggi è in uso, pur non avendo riscontri nel calendario liturgico.

Per quanto riguarda il paese di Proceno, c’è da dire che il nome dipende dall’intenso allevamento di bestiame suino che vi si faceva e che diede appunto il nome di Porceno, derivante, come ovvio, dal nome di quegli animali. Come in molti altri casi, si è poi avuta una inversione o rotazione delle lettere iniziali e da Porceno si è giunti alla forma Proceno. Completamente infondata è, peraltro, la leggenda, alimentata da viaggiatori francesi giunti in Tuscia per il Grand Tour, tra i quali sicuramente Montesquieu, che leggendo a modo loro il nome di Porceno, (“Porsenò”) credevano che derivasse da Lars Porsenna, che sarebbe stato il fondatore del borgo quando il lucumone, nel 508 a.C., scese da Chiusi ad assediare Roma, con tutto quello che ne seguì, da Muzio Scevola a Clelia.

Legate sempre all’allevamento sono le parole che indicano altri due luoghi, analogamente a tantissimi altri nel Mediterraneo, come Capraia, Caprera, Capri e altre località marittime o isole, anche nel gruppo delle Tremiti. Nel nostro territorio del Lazio, i due paesi abbastanza vicini in cui avveniva l’allevamento di capre vennero appunto chiamati Caprarola e Capranica. Caprarola, è facilmente intuibile, era il nome del luogo in cui vi erano i recinti o le gabbie di questi allevamenti di capre. Molto più insolita è invece la denominazione dell’altra città, che deriva dal fatto che – essendo lo spazio disponibile minore – fu selezionata una razza di dimensioni minori rispetto a quelle normali ed essendo quel tipo di pastorizia ancora in mano alle genti provenienti dal sud e dalla Sicilia in particolare, quel tipo di capra fu chiamata capranica ovvero capra piccola.

Molto interessante l’origine del nome del piccolo paese di Onano. Alcuni linguisti hanno ritenuto nell’Ottocento, quando aveva un gran successo lo scrittore e medico-igienista Paolo Mantegazza, che fosse il luogo dello Stato Pontificio in cui venivano relegati per punizione e rieducazione i giovani di famiglie aristocratiche dediti con particolare intensità ad attività ludiche manuali ma improduttive, vale a dire quelle trasgressioni previste e punite dall’articolo sesto delle Codice Mosaico, di cui era stato esempio proverbiale quel cognato biblico, il cui fratello, dipartendosi (non necessariamente per altri mondi), aveva lasciato una vedova irrimediabilmente ributtante. Ma queste interpretazioni sono del tutto prive di veridicità. Anche in questo caso, infatti, l’appellativo si deve alla presenza di abitanti del meridione che venivano assunti stagionalmente per la raccolta di nocciole e che, trovandosi a contrattare la durata del contratto, ottennero – si pensa con la violenza – che non fosse di pochi mesi, ma della durata di “Onano”.

FRANCESCO CORRENTI