IL SAPORE DEI MANDARINI – Hegel, luci e bistecche.
di ELOISA TROISI ♦
<<Il vero è l’Intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si compie mediante il suo sviluppo.>> [Hegel]
Ho la fortuna di ricordare distintamente la prima lezione di filosofia cui partecipai, l’ultima ora del primo giorno della prima liceo. Avevo già avuto modo di conoscere il nostro professore, Ettore Falzetti: ci aveva aiutato a gestire le luci in una piccola rappresentazione che allestimmo al ginnasio. In quell’occasione io ero Didone e non riuscivo a morire: risolvemmo spegnendo le luci quando avrei dovuto calarmi sulla spada e darmi la morte, ché non potevamo accendere pire per motivi di sicurezza.
Entrò in aula con gran disinvoltura, sotto i nostri sguardi intimiditi e incuriositi. Fece l’appello e ci chiese se volessimo assistere ad una magia. Ci guardammo a lungo tra noi. Non facemmo in tempo ad annuire che lui era già accanto all’interruttore della luce. Lo pigiò. Poi restò lì, in piedi qualche secondo, a misurare i nostri sguardi: dovevamo essere parecchio buffi, intenti come eravamo a guardare il dito senza curarci del cielo. Chissà cosa ci aspettavamo facesse. Poi spinse nuovamente l’indice sull’interruttore: fu la luce.
_Ecco, visto? Non siete stupiti?
Evidentemente no, non lo eravamo. Eppure.
_Quindi suppongo tutti voi sappiate farlo.
Esercitare una piccola pressione su un interruttore? Certo che sì.
_No. Gettare luce sulle cose. Come si fa?
Qualcuno, più audace e forse più miope degli altri, si fece coraggio ed azzardò una risposta razionale.
_È una questione elettrica. Si prendono dei cavi e delle lampadine, poi si crea un circuito.
_Sì? Sapresti spiegarmi come si fa?
Non lo sapeva. Nessuno di noi lo sapeva. Ignoravamo anche come si macellasse un animale per mangiarne le carni. Quei provocatori alberi che dovevamo pensare offrissero bistecche a stagioni alterne mi rimasero in testa per molti anni, e continuano a pungolarmi.
Dobbiamo riappropriarci delle cose, scriveva Italo Calvino. Dobbiamo imparare a conoscerne l’essenza, la forma, il sapore, senza inganni o sovrastrutture. E l’unico modo che abbiamo a disposizione per raggiungere questo ambizioso proposito è considerarle nell’insieme, al termine del processo che le ha generate. Questo non significa ignorare il dibattito dialettico che le ha portate ad essere, ma anzi considerarlo nella sua complessità ed interezza.
Tutto, sulla Terra ed oltre, si piega a questa legge. Persino il sapore dei mandarini, che i veterani di sensi ed esperienze brontolano non siano più buoni come un tempo.
Se l’animo umano non fosse qualcosa di presunto, non si sottrarrebbe certo a questa legge, essendo più delle altre cose insieme un processo di formazione e il suo risultato. E quindi, “il vero è l’intero, ma l’intero è soltanto l’essenza che si compie mediante il suo sviluppo”.
Questo lungo preambolo, a tratti prolisso, serve a chiarire l’intento di questo mio pezzo che parla de Il sapore dei mandarini, di cui non vuole porsi come pubblicità – per quanto inviti caldamente alla visione dello spettacolo, debuttato al Nuovo Sala Gassman di Civitavecchia Sabato 1 e Domenica 2 dicembre ed attualmente in tournée presso vari teatri laziali – ma come occasione per condividerne emozioni ed interpretazioni.
Atmosfera inizialmente ordinaria e quasi banale, progressivamente aliena e a tratti disturbante, dalla trama incalzante e sconvolgente, l’intero spettacolo, scritto e diretto da Enrico Maria Falconi, si avvale delle accattivanti doti interpretative di un cast d’eccezione, composto da Ettore Falzetti, Ramona Gargano, Andrea Stendardi, Caterina Fasulo e Barbara Russo. Qualità, queste, di certo rare, ma non uniche nel panorama teatrale. A rendere unico Il sapore dei mandarini, però, è la caratterizzazione dei personaggi, resa possibile dalla comunione viscerale con gli attori che si fanno interpreti di tutto quello che i loro doppi rappresentano, prestando loro corpo, occhi, cuore e lingua – impresa ancora più mirabile per Caterina Fasulo e Barbara Russo, che sembrano pensare in cirillico tanto è perfetta l’inflessione russa che usano nella loro interpretazione.
Uscendo dalla sala, lo spettatore cerca invano di orientarsi nell’intricata trama che gli si è appena svelata. Dopo qualche minuto, però, si rende conto che non sono tanto i colpi di scena a smarrirlo, quanto la psicologia dei singoli, esplosa sul finale in una coralità stonata e disturbante, straziante e quasi romanticamente sublime.
Per quanto paradossale, considerata la genialità della storia, lo spettatore capisce a poco a poco che si tratta di un’opera dotata di un fascino del tutto indipendente dalla trama (che ho scelto di non raccontare appositamente.
È proprio questo a rendere unico Il Sapore dei mandarini; i singoli spicchi, sono quelli a gustarsi e a non essere mai uguali, ché il mandarino non ha mai lo stesso sapore in ogni sua parte. Ad ogni spicchio, il proprio umore. Ma il vero è l’intero, che si completa solo mediante il suo sviluppo.
C’è uno che da bambino era tanto, tanto felice. Felice come un’alice, perché sapeva che la sua mamma, che si chiamava Maria, non se ne sarebbe mai andata. Poi, la vita gli ha tolto qualcosa e da alice s’è fatto serpente, ha iniziato a colonizzare la terraferma e a cambiare pelle. Ha sperimentato l’ansia del possesso, il tormento dell’esclusività, la tragedia dell’abbandono. Questa triade è rimasta fedele negli anni e non l’ha mai abbandonato, presente ad ogni situazione – persino ad ogni finzione. Forse, nel silenzio della sua stanza, talvolta l’alice si vergognava delle sue scaglie argentee di serpente. E allora sognava di salire su un sommergibile per inabissarsi negli oceani e percorrere tutto il mondo, in fuga, fino ad arrivare vittorioso dall’altro capo del mondo. Nascosto, certo, ma vittorioso e fiero di sé, del proprio viaggio. Altre volte, invece, era il serpente a vergognarsi dell’alice, del suo modo infantile di nuotare secondo rima baciata. E allora immaginava di dare una lezione a quel piccoletto che aveva avuto l’ardire di essere felice e di credersi padrone di qualcosa, quando in realtà non possedeva proprio niente, e si credeva Nelson. Sono cose che succedono: ognuno sviluppa una propria astuzia per mantenersi vivo, per sanare la propria ferita narcisistica. Fino a che poi, ad un certo punto, non è più possibile combattere e si avverte la necessità di morire. Che lo si faccia in prima persona o si mediti di far saltare in aria gli indizi che ci si è lasciati dietro in questo passaggio nel mondo, è poco importante.
C’è una che ha una dolcezza austera, ispida e delicata, pulita nonostante il lerciume in cui è costretta a muovere i suoi passi. L’aspetto sensuale e fiero non confligge con l’idea di madre che ispirano la fiducia e l’indulgenza che ripone nelle persone sbagliate. S’innamora, ma non è questo ad esserle fatale. È la presunzione, spesso confusa con la buona fede, di credere che qualcosa possa essere veramente proprio, chiaro, conoscibile ed immutabile. Come se i mandarini non avessero mai cambiato sapore, come se dipendesse tutto dalla lingua che li accarezza di volta in volta. Come se il valore di un sentimento fosse affare esclusivo del suo sperimentatore.
C’è uno che sa troppo, anche se in verità non sa proprio niente. È questo il crimine che non può essere perdonato: aver assistito allo svolgimento degli eventi e poterne riferire, detenere una qualche forma di verità, seppure semplificata o edulcorata. Fosse anche solo la verità ingenua, vile e concreta della carne, della pelle, del sangue. Dei corpi.
C’è una che cresce con la guida di un padre cieco, ma che a un certo punto rivendica il proprio ruolo di Antigone e s’arroga il dovere – prima ancora del diritto – di ristabilire l’ordine delle cose. E allora sgozza l’amore a chi le ha negato il suo, lo affoga nel sangue e ne trova uno nuovo. Perché ci sia ancora speranza, sarebbe bello dire. La verità è che siamo tutti perduti, tutti ambivalenti. Tutti nudi, senza più identità. Senza più il sapore dei mandarini sulle labbra.
C’è una che non finge mai, perché non è mai autentica. Fredda, lucida, razionale, intelligente ed intrigante, occupa più spesso degli altri una posizione elevata e distaccata, da cui muove le fila delle vite di tutti, a dimostrare che a questo mondo si può vincere in due modi: essendo Antigone o il suo contrario, muovendosi in nome del giusto o del suo opposto. Dell’istinto o dell’astuzia.
Ed è proprio questa miscela di sapori, che si succedono scena dopo scena in una dialettica vorticosa ed incalzante senza poter essere mai definiti ma solo percepiti, a costituire il vero Sapore dei mandarini. L’essenza del cambiamento, della certezza che nulla è immutabile e nulla è definitivo, eccetto il finale.
Il resto, è tutto un affare di Danaidi.
ELOISA TROISI
Brava Eloisa.
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Profonda e raffinata come sempre, Eloisa coglie l’essenza stessa dello spettacolo rapportandolo a più ampi contenuti. Grazie
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