Rimesse laterali – ADORATO, DETESTATO, COMPLICATO ’68 (1/2)
di NICOLA R. PORRO ♦
Roberto Fiorentini (in spazioliberoblog del 24 ottobre 2018) ed Enrico Iengo (ibidem, 7 novembre 2018) hanno proposto una riflessione sul Sessantotto che giudico ampiamente condivisibile. Il contributo di Iengo ha messo tuttavia in luce due questioni che vorrei riprendere. La prima riguarda la complessità del fenomeno di cui celebriamo convenzionalmente il mezzo secolo. L’altra il rapporto fra il ciclo di protesta e quella rivoluzione silenziosa che le avrebbe fatto seguito con esiti politici contraddittori. Sono a mio parere due facce di una stessa medaglia, precisando, a scanso di equivoci, che non riesco a immaginare Reagan o Berlusconi come “figli degeneri” del Sessantotto o come l’effetto perverso e un automatico esito inintenzionale di quella “rivoluzione del desiderio” innescata, secondo Deleuze e Guattari, dal ciclo di protesta fra i Sessanta e i Settanta. Ritengo però che la provocazione stimoli un’analisi non riduttiva e non angustamente politicistica di un movimento che perse sul terreno politico la battaglia che aveva ingaggiato ma che rivoluzionò la cultura collettiva, la produzione intellettuale e artistica, gli stili di vita e lo stesso senso comune delle società tardo-industriali. Il Sessantotto non espugnò il Palazzo d’Inverno, ma fece sì che il mondo, dopo, non fosse più lo stesso. La sua interna complessità ne rappresentò forse al tempo stesso un elemento di criticità politica e di forza culturale.
È dunque opportuno distinguere, come fa Guido Mazzoni (“Le parole del Sessantotto: Rivoluzione”, in Le parole e le cose del 26 novembre 2018, http://www.leparoleelecose.it ), fra la dimensione strettamente storico-politica del ciclo di protesta, da una parte, e il suo profilo antropologico, sociologico e culturale, dall’altra. Altrettanto opportunamente, bisognerà collocarlo in una dimensione temporalmente diacronica e geograficamente sincronica. Ci sono un prima e un dopo che aiutano a comprendere meglio quello che accadde fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta. E ci sono marcate diversità fra i tanti Sessantotto che presero forma in quella non breve stagione. Il Movement americano, ispirato alla mobilitazione contro la guerra vietnamita, fu ad esempio cosa assai diversa dal Sessantotto italiano, il quale a sua volta presentò tratti peculiari e distinti rispetto ai casi francese o tedesco. In prospettiva diacronica il Sessantotto “politico” va collocato in una sequenza di insorgenze rivoluzionarie: è l’ultima delle cinque rivoluzioni che hanno scosso l’Europa fra XVIII e XX secolo. Nel 1789 la Rivoluzione francese aveva affermato la politicità dei diritti universali dell’uomo (citoyen) predicati dall’Illuminismo. Nel 1848 si era affacciata un’inedita questione sociale destinata a saldarsi con la rivolta verso i regimi dinastici e l’aspirazione indipendentistica dei nascenti Stati nazione. La Comune di Parigi avrebbe cercato nel 1871 di dare forma politica compiuta a quello spettro del comunismo che a Marx era parso aggirarsi per l’Europa del 1848. Solo la rivoluzione d’ottobre sarebbe però riuscita nel 1917 a dare forma statuale al programma comunista, nel contesto inedito di una guerra immane, in forme e con un’ubicazione geografica diversissime da quelle immaginate dai profeti del socialismo “scientifico”.
Quattro delle cinque rivoluzioni ebbero Parigi come loro teatro principale, ma a conferire loro una trama unitaria, pur in un arco temporale che abbraccia quasi due secoli, sono un’idea distributiva di giustizia sociale e una rappresentazione radicalmente secolarizzata di Provvidenza. Per i rivoluzionari della modernità europea non ci sono i poveri: ci sono gli sfruttati. L’origine del male non possiede spiegazioni metafisiche. Nessuna teodicea potrà salvare l’umanità, ma a differenza dei movimenti millenaristici di ispirazione religiosa – che pure avevano coltivato gli ideali di un comunismo primitivo – l’avvento del regno della giustizia è affidato per intero all’azione umana. Individuando la disuguaglianza come origine dell’ingiustizia, tutti e cinque i movimenti prefigurano inoltre un ordine alternativo a quello dei poteri dominanti, sia nella sfera politica sia in quella economica. A evidenziare la continuità fra i cinque movimenti, Alain Touraine ha osservato come ognuna di quelle “insorgenze” mutui il proprio repertorio simbolico da quella che l’ha preceduta. Ciò ha prodotto singolari ibridazioni. Ad animare il pensiero critico del Sessantotto (il suo prima) erano stata l’irruzione in Europa della sociologia critica americana, la scoperta della politicità della scienza, gli echi della decolonizzazione rivisitata dall’antropologia culturale, le suggestioni della Scuola di Francoforte di cui si fece interprete soprattutto Herbert Marcuse, un movimento psicoanalitico insofferente di essere ridotto a mansioni terapeutiche, le speranze suscitate nel mondo cattolico dalla stagione conciliare, una fioritura di sperimentazioni artistiche (il cinema, soprattutto) che per un decennio ebbero l’Italia e la Francia come terre d’elezione.
A fronte di questa sorgente di ispirazioni l’ortodossia leninista rivendicata da alcuni gruppi extraparlamentari costituiva poco più di un’anacronistica parodia, mentre l’imitazione dogmatica del modello maoista apparteneva a un genere di narrazione che oggi assegneremmo senza esitazioni al genere distopico-surreale. La commistione fra pulsioni postmoderne ed eredità vetero-marxiste, enfatizzate dal corredo iconico e scenografico del movimento, rese comunque difficile separare ciò che era vivo da ciò che era morto. Con poche eccezioni (penso alla Monthly Review di Baran e Sweezy o alla teoria della dipendenza di Gunder Frank) le folgoranti intuizioni di Marx sulla natura del capitalismo ottocentesco non stimolarono una ricerca altrettanto penetrante sul capitalismo in via di globalizzazione di fine Novecento. Si perse la grande occasione: quella di liberare Marx dal marxismo, di consegnare al museo degli orrori il socialismo reale e di sottoporre la politica allo stesso processo di secolarizzazione che aveva interessato la teodicea. Di queste intenzioni rimase un’eco flebile, talvolta stravagante ma intellettualmente coraggiosa, soltanto nella cosiddetta contro-cultura.
L’utopia che il maggio francese voleva insediare al potere fece propri i colori e le parole del comunismo novecentesco. Ma si trattava di un prodotto di fiction: un comunismo immaginato o sognato, che poco o nulla aveva a che fare con lo squallore del socialismo reale. Il quale, reprimendo nell’agosto 1968 la rivolta di Praga – la città dell’Est più colta, cosmopolita e sensibile al vento del Movimento –, avrebbe imboccato la strada senza ritorno che venti anni dopo si sarebbe arrestata fra le macerie del Muro di Berlino. Fra i leader del Sessantotto, a Parigi come a Varsavia, a Roma come a Praga, abbondonavano piuttosto gli eretici della tradizione comunista: anarchici, trotskisti, intellettuali suggestionati dalle teorie di Fanon o innamorati di un tropical-socialismo idealizzato. Poi c’erano gli alternativi, i “senza guinzaglio” vaganti in un variopinto caleidoscopio di culture e sottoculture alternative: situazionisti, freak, terzomondisti, seguaci della teologia della liberazione. I partiti di osservanza sovietica osservavano con sospetto, e non di rado con ostilità, questo universo composito che sognava una democrazia dal basso, libera da vincoli burocratici e suggestioni autoritarie. La rivisitazione mitologica della Comune di Parigi, dei Soviet e dei Consigli operai si consumerà però inesorabilmente nelle liturgie logorroiche dell’assemblea – quasi sempre materialmente ubicata in aule universitarie – dove andavano in scena, in un’alternanza di tifo da stadio e di sonnolenza controrivoluzionaria, le logomachie capaci di soddisfare il protagonismo narcisistico dei capi-fazione. L’eroe eponimo delle loro narrazioni rimaneva però un pugnace quanto immaginario “proletario”, convenzionalmente identificato nella figura maschile del salariato di fabbrica. Solo più tardi le ancora sparute avanguardie femministe, ribellandosi al ruolo di angeli del ciclostile, oseranno sollevare quella questione di genere che sarebbe stata cruciale più avanti, nelle mobilitazioni per i diritti civili degli anni Settanta, senza tuttavia che il movimento ne facesse proprie sino in fondo le implicazioni culturalmente e politicamente più radicali.
Anche quella del lavoratore ”evoluto e cosciente”, e perciò rivoluzionario per definizione, era d’altronde già all’epoca un’icona in via di trasformazione. Da un decennio almeno la nascente sociologia del lavoro italiana aveva segnalato l’emergere, soprattutto nell’area padana nord-orientale che stava dando forma ai distretti industriali, di una classe operaia molecolare assai diversa dal vecchio proletariato di fabbrica (la “classe generale” che rompendo le proprie catene avrebbe liberato l’intera umanità). Un reale protagonismo operaio si manifestò invece sotto le insegne di un combattivo movimento sindacale, la cui forza risiedeva nel potere contrattuale conquistato dai lavoratori salariali in una fase di espansione produttiva e di sostanziale pieno impiego nel comparto industriale. Negli anni Settanta quel movimento di pura marca riformista agì da carburante per una rivoluzione culturale che investì i luoghi di lavoro ma annunciò anche più ambiziose rivendicazioni in termini di diritti sociali e civili. Sull’onda di una imponente mobilitazione di tutte le categorie, nel 1970 avrebbe visto la luce lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Pubblicata nel 1967, la Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani era divenuta il manifesto di una rivoluzione culturale che avrebbe trovato eco con la rivendicazione sindacale delle 150 ore, mentre fuori dalla fabbrica gli studenti e gli insegnanti democratici diedero inizio a una protratta mobilitazione per la riforma di un sistema educativo ancora ispirato alla Riforma Gentile del 1923. La campagna civica per la salute come diritto primario accelerò l’istituzione – fra il 1974 e il 1978 – di un servizio sanitario nazionale in linea con le esperienze internazionali più avanzate. Persino le cosiddette istituzioni totali furono investite dal vento della contestazione: l’evento simbolo fu rappresentato dall’abolizione dei manicomi che, grazie alla legge 180 del 1978 – ispirata all’opera di Franco Basaglia -, fece per alcuni anni dell’Italia il Paese leader dell’umanizzazione dei trattamenti e dell’innovazione psichiatrica. Non è dunque peregrino affermare che il Sessantotto italiano conobbe i suoi momenti migliori quando progetti radicali seppero coniugarsi a un’azione riformatrice concreta, capace di conquistare e mobilitare ambienti sociali, professionali e culturali eterogenei ed estesi. La rivoluzione mancata del Sessantotto, spogliata dei suoi eroici furori, animò e sostenne quell’opera di democratizzazione e modernizzazione del Paese che le classi dirigenti conservatrici del dopoguerra non avevano voluto o saputo portare a compimento.
È doveroso ricordare, del resto, il ruolo che il Movimento esercitò in quella imponente mobilitazione antifascista che nei giorni delle stragi e delle minacce golpiste unì organizzazioni sindacali e collettivi studenteschi, il Sud e il Nord, l’intellighentsia e la fabbrica. Nel dicembre 1969, in occasione delle esequie delle vittime di Piazza Fontana, l’immensa Piazza del Duomo presidiata da duecentomila tute blu e le strade di Milano occupate da altre centinaia di migliaia di studenti e di gente comune, restituirono l’immagine di un’Italia che si ritrovava attorno ai suoi valori fondamentali. Nessuno può dire quali sviluppi avrebbero avuto le torbide vicende di quegli anni – le bombe sui treni, le trame nere, i depistaggi, i servizi deviati – se quella voce non si fosse levata con tanta forza, tempestività e passione. In una sorta di eterogenesi dei fini, i “rivoluzionari” si dimostrarono alla resa dei conti i difensori più intransigenti e leali delle istituzioni dello Stato costituzionale. Nella notte della Repubblica quelle piazze ribollenti di rabbia seppero denunciare con una voce sola da dove e da chi venissero i pericoli per la democrazia. Esisteva un Paese che aveva capito e che non si sarebbe arreso, anche se occorreranno decenni perché quel sentimento popolare trovasse conferma nelle sentenze giudiziarie che avrebbero fatto (parzialmente) luce sulle più subdole e insidiose trame eversive che abbiano minacciato un grande Paese occidentale nel secondo dopoguerra.
Permeato di una visione del mondo antirepressiva e antiautoritaria, il movimento era attraversato, a dispetto della dominante retorica marxista, da un’inconfessabile attrazione per quelle discipline “borghesi”, come la sociologia e la psicoanalisi, che gli avrebbero fornito strumenti innovativi per una critica coraggiosa e aggiornata dell’odiato “sistema”. La scolastica marxista, divenuta strumento di un conflitto ideologico fra gruppi e gruppuscoli, si consumò presto in un settarismo inconcludente. Sempre meno interessati alle diatribe sulla corretta interpretazione di Stato e Rivoluzione, i militanti si appassionavano piuttosto alle mobilitazioni anti-imperialiste che anticipavano un’idea solidaristica di globalizzazione o alle provocazioni intellettuali del post-strutturalismo francese. Il Sessantotto fu anche la stagione dei cineforum, di Radio Alice, dei grandi registi che rinverdivano, come Bernardo Bertolucci, i successi del neo-realismo. Fu la stagione delle mille riviste: i Quaderni Piacentini annunciavano già nel nome il riscatto culturale della provincia profonda e insieme stimolavano una riflessione critica di respiro internazionale. Arrivarono le prime fanzine, la scoperta del teatro politico di Brecht e di Weiss, l’arte povera, le ricerche espressive sul corpo che avrebbero ispirato il Living Theatre.
Il Sessantotto rappresentò, insomma, un fenomeno magmatico, poliedrico e non privo di contraddizioni. Santificarlo astrattamente o usarlo strumentalmente significa rendergli un pessimo servizio. Per questo mi pare interessante la bonaria provocazione presente nell’articolo di Enrico Iengo a proposito di una lettura in controluce come quella proposta per primi da Deleuze e Guattari e ispirata alla categoria del desiderio e alla sua sotterranea politicità. L’argomento è intrigante e cercherò di spiegare in una prossima occasione perché, pur rifiutando interpretazioni sopra le righe, non ritengo affatto dissacrante o politicamente scorretto un approccio così apparentemente fuori dal coro. (segue)
NICOLA R. PORRO
E’ difficile aggiungere altro alla lucida sintesi dell’intervento di Nicola. Vorrei soltanto esprimere, in modo succinto e necessariamente superficiale, un altro spunto di riflessione che, da genitore, mi trovo spesso a considerare. Il rapporto padre-figlio subisce a mio parere una trasformazione profonda che inizia negli anni della contestazione. Si pensò di fare a meno di tutti i padri, di essere autosufficienti, una sorta di mito della indipendenza dalle generazioni precedenti. La comunicazione padre- figlio cambia completamente rispetto per esempio alla mia generazione, così come in generale il rapporto con l’Istituzione (che rappresenta la Legge), Anche questo è un argomento complesso che si presta a diverse interpretazioni; è chiaro per esempio la valenza positiva che sta nella dialettica che produce la differenza, ma sono altrettanto chiare le implicazioni negative nell’ adolescenziale rifiuto di qualsiasi autorità in quanto limite al desiderio e alla libertà. La nostra è stata la prima generazione che ha vissuto e vive l’angoscia di essere sufficientemente amati dai figli; prima era il contrario; la nostra è la prima generazione a considerare i figli come “amici”, con il rischio di compromettere quel patto fra generazioni che è essenziale al processo di individuazione, processo che prevede il distacco dopo aver acquisito il patrimonio ereditario, simbolico della Legge impersonata dal padre. Mi fermo qui, mi scuso per la prolissità e per avere toccato temi importanti in modo superficiale. Mi propongo di tornarci, ma mi stava a cuore pensare il 68 anche in questa chiave di lettura.
"Mi piace""Mi piace"