Il 68: un’altra prospettiva
di ENRICO IENGO ♦
Ho apprezzato molto sia lo spettacolo teatrale sul 68 alla sala Gassman sia il successivo intervento sullo stesso argomento scritto da Fiorentini sul blog. In particolare condivido le considerazioni sulla importanza che quel movimento ebbe nell’influenzare i costumi e i modi di pensare fino ad oggi.
Questi due eventi mi hanno stimolato ad intervenire nel condividere alcune riflessioni che vado facendo da tempo con me stesso e che non hanno certo il crisma della certezza, ma solo la formula del dubbio.
Appartengo alla generazione del 68, mi considero un fratello minore, avendo al tempo 16 anni. Il mio primo vero coinvolgimento, fatto di passione e di scelta di campo avvenne l’anno seguente: la strage di Piazza Fontana mi convinse che non potevo essere spettatore passivo di una serie di eventi che mettevano in gioco il futuro della democrazia ed il cambiamento della società.
Da allora cominciò il mio percorso all’interno di un movimento che esprimeva, in forme diverse e attraverso provocazioni spesso utopiche, una volontà di cambiamento dell’ordine vigente.
Rimango convinto che quella esperienza ha segnato e influenzato una intera generazione e ha contribuito a determinare ciò che oggi siamo, nel bene e nel male.
In un mio precedente intervento sul blog ho anche avuto modo di sottolineare come le grandi conquiste sociali degli anni 70 (il divorzio, l’aborto, la riforma sanitaria, la legge 180 sull’abolizione dei manicomi, le lotte per l’emancipazione delle donne) siano figlie di quella stagione, espressione di un bisogno di cambiamento rispetto ad una società ingessata da modelli interpretativi ormai superati.
C’è tuttavia una lettura parallela del 68, che in questi ultimi tempi sta facendo fortuna, secondo la quale Berlusconi e i movimenti populisti che sono succeduti a lui sarebbero il compimento di quel periodo.
Secondo questa chiave di lettura, il 68, con la sua carica dirompente e utopica, ha gettato i semi che hanno in qualche modo contribuito a generare i frutti indigesti di oggi. La deriva individualistica di massa, sfociante in un narcisismo autocompiacente, ha tanti padri, ma qualche germe di questa deriva sarebbe iniziata forse in quelle assemblee, in quei leader carismatici, in quella ricerca pulsionale che metteva al centro dell’azione la soddisfazione immediata dei bisogni.
A conferma di quanto detto si citano Deleuze e Guattari, due intellettuali di grande popolarità in quegli anni, che nella loro opera più famosa, “L’anti Edipo”, si scagliavano contro la psicoanalisi tradizionale, considerandola funzionale al potere costituito, e teorizzavano la ricerca del desiderio senza limiti come presupposto della creazione di un nuovo ordine sociale.
La contestazione delle autorità, la lotta alle istituzioni rappresentative intermedie, primi fra tutti i partiti e i sindacati, in una confusione di ruoli e linguaggi che produceva un sentimento di rifiuto, senza un vero progetto di trasformazione, erano tutti aspetti della lotta politica che avrebbero impressionanti analogie col mondo di oggi.
E non è una coincidenza, secondo questi ragionamenti, che già dalla fine degli anni 70 la sinistra cominciò ad arretrare, sia come consenso, sia come soggetto portatore di cariche ideali e progettuali e che negli anni 80 iniziò quel periodo contrassegnato con i termini edonismo e neoliberismo selvaggio.
Quindi all’origine dell’odierno individualismo di massa, povero di idee e proiettato al consumo illimitato, ci sarebbe una ideologia sessantottina che involontariamente esaltava un nuovo individualismo, una liberazione da ogni vincolo paterno o gerarchico, alla ricerca di un sé autonomo e autoreferenziale.
Questa interpretazione non mi convince, ma dà spunti di riflessione interessanti.
Il 68 secondo me è stato un movimento che ha operato una rottura radicale rispetto alla tradizione teologica e borghese del concetto di autorità, una rottura necessaria. Il mito dell’autonomia, dell’indipendenza, della inutilità di servirsi di qualsiasi “padre”, compresi il Partito o le Istituzioni o comunque le tradizioni e la continuità col passato, con il conseguente chiudersi in se stessi, provengono anche dalla cultura del 68, ma non si possono confondere le grandi aspirazioni di cambiamento, la solidarietà che si creava in mezzo ai cortei, alle assemblee, le idee di libertà e giustizia, con la mancanza oggi di qualsiasi senso comunitario di appartenenza che non sia legato all’effimera connessione nelle reti dei social network.
Del resto se ammettiamo una concezione dialettica della storia secondo la quale qualsiasi evento è soggetto ad un processo di autotrasformazione, a generare da se stesso la propria contraddizione e successivamente il proprio superamento, possiamo anche accettare una riflessione sull’oggi che tenga conto delle inevitabili contraddizioni implicite in quel movimento e in quel periodo storico.
Oggi dobbiamo sforzarci di capire perché, a differenza di allora, molti Italiani pensano alla comunità in termini di inquietanti legami del sangue e del territorio, quale è l’origine dell’attuale comunicazione autistica e rabbiosa attraverso i social network, perché andò in crisi la democrazia partecipata, quella vera, che si auspicava e si praticava in quei “formidabili” anni, perché oggi gli eredi più genuini di quella stagione rimangono silenti e inattivi di fronte ai gravi episodi che la cronaca politica ci propina quotidianamente.
Quei fenomeni che caratterizzarono e seguirono il 68: l’attivismo sociale, l’organizzazione democratica della società, attraverso i consigli di fabbrica, i comitati di quartiere ebbero il grande merito di rianimare una società sclerotizzata, ma ebbero anche e forse inevitabilmente il carattere dell’antipolitica. Essi anticipavano un’antipolitica che si sarebbe sposata in modo ineluttabile con i geni anarcoidi e individualistici che appartengono al DNA di una parte, anche significativa, del nostro Paese.
Occorre fare in modo che di quel movimento, che tanto ci ha cambiato, non rimangano solo vuoti slogan e sterili celebrazioni. Se necessario occorre anche studiarne gli aspetti che danno adito a dubbi, soprattutto per evitare che un Io di massa ipertrofico, insieme alla rivoluzione informatica, alla globalizzazione, alla pervasività dell’intervento della finanza sull’azione politica, finisca di disgregare il tessuto sociale, rendendoci soli, rancorosi, in una sorta di tutti contro tutti.
Quindi il 68 è stato un fenomeno complesso, che ha rappresentato una svolta nella storia di questo paese e dell’Occidente intero e che, come tutti i fenomeni sociali complessi non può avere un unico, lineare svolgimento e quindi non può non essere soggetto a interpretazioni più o meno fortunate o condivisibili.
Sta a noi studiarlo con occhio neutrale e senza preconcetti; sicuramente ciò può aiutare a capire meglio il presente, per non averne paura e per cambiarlo.
Evviva comunque il 68.
ENRICO IENGO
Articolo stimolante, specie per noi che in quella stagione fummo coinvolti (nel mio caso apparterrei purtroppo alla categoria dei fratelli maggiori…). Cercherò più avanti di dare un contributo alla discussione avviata. Anticipo solo due considerazioni rispetto a quelli che mi sembrano i temi salienti sollevati da Iengo. La prima riguarda le due interpretazioni del movimento: sono davvero incompatibili oppure è possibile leggerle come due facce di una stessa medaglia, rappresentata dal venire a compimento di un ciclo storico che si era consumato nella guerra e poi nel bipolarismo dei blocchi ideologico-militari e nelle trasformazioni post-fordiste del lavoro? La seconda, ma l’argomento è connesso all’altro, concerne proprio la complessità del fenomeno, a mio parere irriducibile a interpretazioni di superficie. Forse la distanza temporale ci consente oggi una riflessione più articolata e matura, anche in rapporto a quanto avvenuto “dopo” il ciclo di protesta a cavallo fra i Sessanta e i Settanta.
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Io la penso come Enrico. Mi pare che tra le tante colpe che ” certa ” letteratura addebita al ’68, ascrivere anche l’odierno ” individualismo di massa” sia davvero troppo. Mi pare , piuttosto, che siamo alle prese con una eredità degli anni ’80. Anni che , per motivi anagrafici, conosco meglio e che saranno presto oggetto di approfondimento da parte mia.
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Anche io sono d’accordo con Enrico. E assolutamente l’individualismo di massa non può essere ascritto al ’68, come afferma Roberto. Tutto ruota attorno alla democrazia di base, magari in una versione provinciale in Italia, ma che ha come riferimento l’apertura determinata dalla fine del bipolarismo ideologico del dopoguerra. Non dovremmo sentire una colpa se tutto iniziò in Europa con l’invasione della Cecoslovacchia da parte dei sovietici…Del resto anche nel marxismo vi era una componente utopica, è la ” corrente calda ” di Bloch. Non me ne vogliano gli attuali grillini, se Bloch vede nel marxismo tutti gli sforzi per dare ” dignità ” all’uomo. Bloch – per ritornare al tema- non svaluta i desideri della società di massa ( avere i denti bianchi, corpo snello e atletico ). Il “DESIDERIO ” rappresenta la scorza, la corteccia provvisoria che racchiude le potenzialità realizzabili degli individui. A coloro che mostrano ambizioni ridotte non possiamo imputare colpe soggettive. E’ che siamo soggetti ad un processo di reificazione e di ottundimento delle coscienze dovuto ai miti dell’industria culturale. Ma ci sono spazi in cui l’ identità è ancora più devastata: le caserme, i manicomi – si, anche la famiglia-, le istituzioni; io non vedo pertanto una deriva individualistica di massa e nemmeno narcisismo,quanto una ” insicurezza ontologica” che tutti attanaglia: sono infatti temi sartriani quelli che l’ anti-psichiatria nata nel ’68 riprende: identità alterata, gruppo familiare, serializzazione e gli ” inestricabili nodi” secondo Laing e Bateson.
Più che narcisismo, egotismo,individualismo io vedo nel ’68 la disintegrazione di una Ragione unica e monolitica, ma più ragioni connesse, ” Differenze ” e ” Ripetizioni” ( Deleuze e Guattari ), con un abbandono dell’identità personale, poichè ciò che conta la relazione, è ” interessarsi alla vita degli altri “( l’escluso, il primitivo,il diseredato ).
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Cito l’ultima parte dell’articolo:
“Quindi il 68 è stato un fenomeno complesso, che ha rappresentato una svolta nella storia di questo paese e dell’Occidente intero e che, come tutti i fenomeni sociali complessi non può avere un unico, lineare svolgimento e quindi non può non essere soggetto a interpretazioni più o meno fortunate o condivisibili.
Sta a noi studiarlo con occhio neutrale e senza preconcetti; sicuramente ciò può aiutare a capire meglio il presente, per non averne paura e per cambiarlo.”
Si il fenomeno è assolutamente complesso e trovarne una sorta di linea conduttrice prima, durante e dopo, è davvero arduo. Come ho avuto modo di dire a Roberto, nel trattare il 68 non si è tenuto conto dei “lavoratori”, ovvero di quella parte operaia che ha visto nel 68 ed in seguito una sorta di rivincita.
Il contributo della “classe operaia” non fu rilevante, ma ci fu, ed a quella il movimento faceva comunque riferimento, basti pensare ai temi delle canzoni.
Per l’eserienza che ho il 68 non fu molto apprezato dalla “classe operaia”. Ricordo, sfilando in manifestazione innanzi ad un opificio, che gli operai uscirono fuori gridandoci dietro… “andate a scuola… andate a studiare…” e noi a gridare.. “potere operaio!!”.
Credo che nella considerazione del 68 vadano considerare i “contorni” come il mondo del lavoro all’epoca, e un altro potentissimo interlocutore della vita di tutti, nessuno escluso, ovvero quello che si chiama “mercato”. Suggerisco di considerare l’effetto che lo sviluppo economico ha avuto in quanti vissero all’epoca il 68, e non solo lo sviluppo economico, ma anche gli anni delle BR di Potere Operaio e di qulle espressioni violente e clandestine che non possono non aver influito.
E’ decisamente tutto molto complesso. Ancora mi sto chiedendo come potessi aver creduto ad un tale che si chiamava Aldo Brandirali e non posso fare a meno di pensare come per molti il 68 fu un momento travisato, un inganno…. già all’epoca fu evidente come per molti figli di papà fosse qualcosa più simile alla “moda”. Il movimento, non per niente era pieno di figli di papà, specialmente fra i vertici di gruppi e comuni. E’ vero però che c’era anche qualche operaio… probabilmente poi passato nella clandestinità, nella rabbia che nulla ha a che fare con la moda.
E come tutte le mode….. svanisce sotto i colpi della pubblicità, della bella figa (scusate il termine ma ci stà) appoggiata sulla nacchina sportiva che la carezza con sensuale volontà.. avete mai visto una pubblicità con una casalinga magari non proprio affascinante, un po’ grassoccia e poco desiderabile? Anche quelle dei casalinghi e detersivi mistificano la realtà. E allora poteva un movimento come quello, conservare le premesse? A parer mio non è l’individualismo insito nel movimento che ha preso il posto delle istanza di comunione, ma le sue scarse fondamnta che non hanno retto alla pressione del mondo attorno, non per nulla il suo disfacimento ha lasciato il posto agli anni delle BR ecc…
Il 68 non è riuscito a mettere le radici nel mondo del lavoro, mondo tagliato fuori dagli intellettuali che teorizzavano il movimento, credendosi voce della classe operaia, ma che, proprio per quella intellettualità era tenuta a distanza se pur ad essa si faceva riferimento.
Ecco un altro filo conduttore che sarebbe interessante percorrere per comprendere perchè del 68 sono rimaste alcune conquiste ma non l’anima, forse perchè era un movimento senz’anima, senza radici una sorta di flash mob durato qualche tempo. Purtroppo non è stato capace di creare simbiosi fra lavoro e pensiero, non ha messo radici nel reale. Eppure qualcosa ha lasciato se ad esempio, ho voluto fortemente andare a vedere quel luogo chiamato Zabriskie Point, ma è qualcosa che ha a che fare più con i desideri profondi che con la vita reale. Rotolarsi nudi fra le onde di quel deserto, veder saltare in aria il sistema con conseguente pioggia di polli, pesci, oggetti di cucina, libri ecc… come se nulla servisse come nulla fosse essenziale. Ma quello era un film.
Gridai in faccia a mio zio, funzionario di banca, che “affamava il popolo” sicuro dentro il mio eschimo, ma il tempo fa il suo corso, e tutto ciò che non ha radici viene trascinato via da una pubblicità…. già allora sentivo i primi sintomi, quanto mi piacevano gli stereo di Bang&Olufsen, ma gridavo “potere operaio”, curioso no? Quante contraddizioni avevamo? eravamo tutti pronti a condividere danari, affetti e sesso?
Insomma, posso chiedere di trattare l’argomento un po’ meno da “intellettuali” e un po’ più con riferimento alle realtà vissute?
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